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Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/02/2011, a pag. 5, l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Alì Belhadj, numero due del Fis algerino, dal titolo " Alla fine noi musulmani porteremo la guerra a Gerusalemme ", l'articolo di Sergio Romano dal titolo " Il «Re Sole» del deserto e quella provincia mai domata ". Dalla STAMPA, a pag. 5, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Bahrein, il re cede: dialoghiamo ". Da REPUBBLICA, a pag. 15, l'articolo di Giampaolo Cadalanu dal titolo " Tra i giovani che sfidano gli integralisti: La Tunisia deve restare laica ", preceduto dal nostro commento, a pag. 1-28, l'articolo di Ulrich Beck dal titolo " Il muro arabo", preceduto dal nostro commento. CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Alla fine noi musulmani porteremo la guerra a Gerusalemme " «Un Medio Oriente democratico e islamico per forza di cose tornerà a fare la guerra con Israele. Mi sembra inevitabile. Non vedo come potrebbe andare diversamente. La Palestina è terra sacra per l’Islam, alla fine anche i Fratelli Musulmani in Egitto si lanceranno alla sua riconquista, con il sostegno di tutti noi» . Sdraiato sui tappeti in una casupola tappezzata di libri religiosi nel quartiere di Kalitous, una delle tante periferie povere della capitale, Alì Belhadj racconta per oltre due ore la sua visione per il futuro del Medio Oriente. Numero due del Fis, il Fronte di Salvezza Islamico (il numero uno, Abassi Madani, è in esilio nel Qatar), il movimento che nel 1991 aveva vinto le elezioni in Algeria e poi venne duramente combattuto dal governo laico con il sostegno dell’esercito, Belhadj da allora ha trascorso almeno 15 anni in cella. Oggi è in libertà condizionata. Sabato 12 febbraio era in piazza a manifestare contro il regime di Abdelaziz Bouteflika. Ieri gli è stato impedito. A 53 anni resta la bestia nera del fronte laico di protesta, che accusa i militari di esagerare la sua importanza per criminalizzare l’intero movimento. Il figlio ventenne, Abdelkahar, dall’ottobre 2006 è alla macchia, si pensa con le colonne di Al Qaeda operanti nel deserto magrebino, le stesse che rivendicano il rapimento della turista italiana Maria Sandra Mariani il 2 febbraio nell'oasi di Djanet. In quale veste lei si unisce alle manifestazioni? «Come semplice cittadino. Rispondo agli appelli dei movimenti democratici. Lotto per cambiare il sistema, abbattere questa dittatura corrotta che voi occidentali aiutate in ogni modo» . L’Occidente teme i gruppi islamici radicali come il suo. Come può rassicurarlo? «Ci temono perché non ci conoscono. Europa e Stati Uniti non ricordano che nel 1991 noi avevamo vinto le elezioni municipali in modo assolutamente democratico. Il popolo ci aveva scelto a grande maggioranza. Ma poi la dittatura militare ci ha cacciato. Con il vostro pieno sostegno» . Una delle paure oggi è che i partiti islamici possano cancellare gli accordi di pace firmati da Egitto e Giordania con Israele. Lei che farebbe? «Lo sceglierà il popolo, sarà una decisione libera. Io penso che comunque Israele sia paragonabile alla Francia coloniale in Algeria prima del 1962. Era un corpo estraneo, artificiale. Alla fine è stata scacciata. Ma, ci tengo a sottolinearlo, la nostra è una lotta politica contro Israele, non una campagna religiosa contro gli ebrei» . Lei parla di democrazia, però più volte gli estremisti islamici hanno sostenuto di non accettare i modelli politici occidentali. «Io credo al modello islamico dei primi califfati dopo Maometto. Da voi persino Jean-Jacques Rousseau e Churchill pensavano che la democrazia rappresentativa non fosse perfetta» . Eppure c’è una componente profondamente laica nelle rivolte delle ultime settimane. In Tunisia è fortissima. «L'Algeria non è la Tunisia. Da noi, come del resto in Egitto, le dittature hanno metodicamente perseguitato le forze religiose. Non abbiamo avuto modo di farci conoscere» . È pronto a condannare il terrorismo islamico? «Siamo contro la violenza. Io non ho partecipato al decennio del terrorismo in Algeria, allora ero in carcere. Ma in quei fatti lo Stato ha responsabilità dirette» . Nel Medio Oriente attuale qual è per lei il governo migliore? «Quello turco di Erdogan» . Se sapesse che suo figlio è tra i rapitori della turista italiana gli direbbe di liberarla? «Non so nulla di lui da molto tempo. Mi dicono persino che potrebbe essere in Francia» . CORRIERE della SERA - Sergio Romano : " Il «Re Sole» del deserto e quella provincia mai domata "
Muammar el Gheddafi è il più longevo e il più ideologico dei leader del mondo arabo. Quando rovesciò la monarchia e prese il potere nel 1969, si considerava pupillo e seguace di Gamal Abdel Nasser, il colonnello egiziano che aveva cacciato re Farouk dal Cairo nel 1952. Conosceva a memoria «La filosofia della rivoluzione» , il libro in cui Nasser aveva delineato le grandi linee di un programma nazionalista, socialista e panarabo. I suoi compagni di congiura erano, nelle sue intenzioni, l’equivalente degli «ufficiali liberi» che il giovane Nasser aveva cercato di riunire intorno a sé, con intenti antibritannici, mentre l’Afrika Korps di Rommel, nel 1942, avanzava verso Alessandria. Ha scritto il «Libro verde» perché voleva, come Nasser, impartire ai suoi connazionali e all’intera regione una sorta di catechismo politico. Ha perseguito una politica panaraba e panafricana perché desidera passare alla storia come il continuatore delle strategie geopolitiche di Nasser. Ed è colonnello, anche se avrebbe potuto aspirare a una più alta distinzione, perché questo è il grado che il suo modello egiziano conservò sino alla morte. Se qualcuno osasse parlare del suo regime come di una tiranniamedio-orientale, Gheddafi sosterrebbe di avere creato la democrazia araba: un sistema in cui il potere è esercitato «dal basso» grazie ad assemblee popolari distribuite sull’intero territorio in cui si discute, si delibera e si prendono decisioni che il governo centrale dovrà tradurre in programmi politici. La realtà è alquanto diversa. Le assemblee popolari assomigliano ai soviet, organismi che hanno dato il loro nome alla Russia bolscevica ma non hanno mai avuto alcuna rilevanza politica. La politica panaraba ha prodotto soltanto fusioni fallite, come quella libico-tunisina del 1974, l’unione libico-marocchina del 1984, l’Unione del Maghreb arabo del 1988, e una lunga serie di screzi, bisticci, incidenti di frontiera, accuse reciproche, persino una breve guerra con l’Egitto nel luglio 1977. La politica panafricana ha procurato al leader libico qualche successo formale, come la presidenza dell’Unione africana, ma pochi risultati concreti. All’origine di questi fallimenti vi sono soprattutto la sua persona e il suo stile. Gheddafi è intelligente, qualche volta persino geniale, e non è privo di un certo spavaldo coraggio. Ma è umorale, capriccioso, tirannico, una sorta di Luigi XIV del deserto, un monarca beduino che alloggia in una tenda imperiale, veste uniformi operistiche, si circonda di amazzoni giunoniche ed è dominato da una insopprimibile inclinazione a fare un uso tenebroso del denaro che le risorse petrolifere hanno procurato allo Stato libico. Secondo Angelo Del Boca, la lista dei beneficiati di Gheddafi potrebbe includere, oltre all’Ira (Irish Republican Army), il Fronte di liberazione eritreo, i guerriglieri anti-marocchini del Polisario, la Zimbabwe African National Union della Rhodesia, la South West African People’s Organization della Namibia, il Movimento per l’indipendenza e l’autodeterminazione delle Isole Canarie, il Fronte nazionale di liberazione dell’Oman, il Movimento popolare di liberazione dell’Angola, il National Congress del Sud Africa, la minoranza islamica della Thailandia e quella delle Filippine, i ribelli della Colombia e del Salvador, i curdi, i kanak della Nuova Caledonia, gli abitanti di Vanuatu nelle Nuove Ebridi. Per rendere più credibili le sue spropositate ambizioni, Gheddafi ha dato prova di una straordinaria bulimia militare: carri armati, cannoni, caccia, velivoli da trasporto e ricognizione, corvette, fregate, missili, un programma per la fabbricazione di armi chimiche e, da ultimo, l’avvio di un progetto per la costruzione di un ordigno nucleare. Non sorprende che Gheddafi sia stato, a turno, nemico di tutti gli Stati della regione, di quasi tutte le democrazie occidentali e naturalmente, soprattutto dopo i sanguinosi attentati di Berlino e Lockerbie, degli Stati Uniti. Persino i Paesi con cui aveva buoni rapporti dovettero in qualche circostanza perdere la pazienza. Chi scrive ricorda la sua visita di Stato a Mosca nella seconda metà degli anni Ottanta. Per rendergli omaggio i sovietici avevano invitato nella più bella ala del Cremlino l’intero corpo diplomatico. I padroni di casa e gli ambasciatori lo aspettarono per due ore e se ne andarono senza avere avuto l’onore della sua presenza. Gheddafi non ha avuto soltanto nemici esterni. Dopo essersi sbarazzato degli oppositori e degli esuli con operazioni mirate che suscitarono la rabbia dei Paesi in cui avevano trovato rifugio, Gheddafi ha dovuto fare i conti con i suoi avversari islamisti e sfuggire più di una volta ai loro attentati. È questa probabilmente una delle ragioni per cui gli Stati Uniti, nel 2004, decisero di revocare le loro sanzioni contro la Libia. Il leader libico non voleva fare la fine dell’Iraq e gli americani, d’altro canto, ritennero che il suo regime fosse un utile baluardo contro le ramificazioni di Al Qaeda nell’Africa settentrionale. Per facilitare l’accordo Gheddafi confessò l’esistenza di un programma nucleare e mise nelle mani degli americani le prove della «connection pachistana» (la rete commerciale creato dallo scienziato Abdul Khadeer Khan). Sembrò, a quel punto, che la salamandra Gheddafi fosse uscita indenne dal fuoco incrociato dei suoi nemici e potesse lavorare tranquillamente al consolidamento del regime scegliendo per la successione l’uno o l’altro dei suoi figli. Un calcolo tragicamente sbagliato? Per capire che cosa stia accadendo ora in Cirenaica vale la pena di ricordare le sanguinose manifestazioni di Bengasi del febbraio 2006, apparentemente provocate dalla infelice sortita televisiva di un ministro italiano, Roberto Calderoli, che sbottonò la camicia per mostrare alle telecamere una t-shirt su cui era riprodotta una vignetta satirica contro Maometto apparsa in un giornale danese. Come disse Francesco Cossiga in una intervista al Corriere, quelle manifestazioni erano molto più dirette contro Gheddafi di quanto fossero anti-italiane. La Cirenaica è la patria della Senussia, l’organizzazione religiosa che ha lungamente combattuto gli italiani sino all’inizio degli anni Trenta e ha dato alla Libia il suo primo e unico re. Nei circoli islamici di Bengasi e Al Bayda (in epoca italiana Beda Littoria), i modelli di riferimento sono quelli della Fratellanza musulmana, mentre il Libro verde di Gheddafi è un testo sacrilego e le omelie politiche del colonnello nelle moschee di Tripoli sono blasfeme. Se le rivolte di Tunisi e del Cairo sono state prevalentemente laiche, quella di Bengasi, invece, ha una forte nota religiosa. È possibile che Gheddafi possa reprimerla senza suscitare la collera di Tripoli, dove ha fatto una pubblica apparizione, venerdì scorso, passando attraverso la folla osannante dei suoi seguaci. Se invece il tentativo fallisse e il colonnello libico dovesse fare la fine di Ben Ali e Mubarak, l’Europa potrebbe trovare di fronte a sé interlocutori alquanto diversi dall’esercito egiziano e da quello tunisino. Per l’Italia, partner economico anche negli anni in cui i rapporti politici erano pessimi, la crisi libica sarebbe molto più grave delle altre due. E per Berlusconi, in particolare, sarebbe una sconfitta personale. Il presidente del Consiglio ha avuto il merito di chiudere con un accordo importante il vecchio contenzioso italo-libico. Ma ha raggiunto l’obiettivo con un rapporto d’amicizia che ha oltrepassato in qualche occasione i limiti del decoro internazionale. La sconfitta di Gheddafi sarebbe inevitabilmente anche la sua sconfitta. La STAMPA - Domenico Quirico : " Bahrein, il re cede: dialoghiamo "
Da Algeri al Bahrein, da Gibuti allo Yemen, tutte le piazze, tenaci e inaggirabili, restano in fiamme, il fato rivoluzionario ha ormai preso la rincorsa. I regimi in pericolo tentano manovre diversive, tendono la mano con promesse e assicurazioni di rinnovamento in studiata simmetria con la repressione. Ma non convincono, c’è il sospetto che stiano solo scavizzolando trappole e cavilli. La REPUBBLICA - Giampaolo Cadalanu : " Tra i giovani che sfidano gli integralisti: La Tunisia deve restare laica "
La visione 'democratica' delle rivoluzioni del Maghreb è talmente radicata in Cadalanu, che nell'articolo arriva negare l'evidenza riguardo alle violenze contro ebrei e cristiani che sono reiniziate dopo il rientro in Tunisia degli islamismi e scrive : "l´idea che dietro le manifestazioni di intolleranza ci sia la mano dei fedelissimi di Ben Ali. Sarebbero questi a gestire e a pagare un manipolo di disperati pronti alla violenza, per dimostrare che senza il vecchio leader il modello secolare della Tunisia non è destinato a durare ". Una interpretazione troppo macchinosa per essere credibile, tanto più che Ghannouchi, l'islamico 'moderato', non ha fatto dichiarazioni di condanna per le violenze contro i non musulmani. Il modello di Ghannouchi è la Turchia di Erdogan, uno Stato islamico in cui non c'è libertà d'espressione e il cui premier ha preferito riavvicinarsi all'Iran, boicottando le sanzioni, e rompere le relazioni con Israele. TUNISI - Non sarà la Tunisia la prossima repubblica islamica sul Mediterraneo. La caduta di Ben Ali, siano vere o no le voci che ieri lo volevano morto o morente nell´esilio saudita, non deve travolgere lo Stato laico disegnato da Habib Bourghiba dopo l´indipendenza. Gli abitanti di Tunisi lo hanno voluto sottolineare in maniera decisa, perché qualche segnale aveva suscitato preoccupazione nelle cancellerie dell´Occidente. La REPUBBLICA - Ulrich Beck : " Il muro arabo "
Come Cadalanu, anche Ulrich Beck crede che le rivoluzioni del mondo arabo non abbiano nulla a che vedere con l'islam radicale e scrive : " Una differenza essenziale tra il 1989 europeo e il 2011 arabo sta però anche nel fatto che l´Europa, bloccata e fuorviata dall´islamofobia, non vuole comprendere che (finora) c´è anche una serie di innominati perdenti della rivoluzione araba, ossia in primo luogo il fondamentalismo islamico - fino ad al Qaeda - e in secondo luogo il coro dei critici fondamentalisti del fondamentalismo islamico (in Germania Necla Kelek, Thilo Sarrazin e compagni). ". In Egitto il fondamentalismo islamico sarebbe sconfitto. E il fatto che i Fratelli Musulmani siano pronti a candidarsi alle elezioni con un partito non dimostra il contrario? Nei giorni scorsi diversi quotidiani italiani hanno pubblicato interviste con alcuni loro esponenti. Le loro dichiarazioni su sharia e rapporti con Israele non hanno nulla a che vedere con la moderatezza. Cos´hanno in comune la rivolta in Tunisia e quella in Egitto con il crollo del muro di Berlino? Non è accaduto soltanto qualcosa di imprevisto e imprevedibile, ma anche qualcosa di inimmaginabile."Follia" è la parola che allora e oggi esprimeva ed esprime il crollo delle certezze. Chi avesse predetto che due regimi autoritari del mondo arabo sarebbero caduti e che gli altri avrebbero vacillato, sarebbe stato considerato pazzo. Finora in Occidente si era ritenuto che ci si potesse attendere il mutamento politico soltanto dall´alto, il colpo di Stato di regime, o, nel caso peggiore, da parte dei movimenti degli islamisti fondamentalisti. Ammettere solo queste due ipotesi ha impedito agli esperti di politica di cogliere ciò che andava diffondendosi: il contropotere, non ideologico ed espresso dalla società civile, di una nuova generazione collegata in Rete a livello globale, che era considerata del tutto "impolitica". Ma i giovani del Cairo sono riusciti a penetrare dal mondo virtuale nella realtà politica. Si tratta di una rivoluzione di tipo nuovo. Per inviare la propria opinione a Corriere dell Sera, Stampa e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti lettere@corriere.it lettere@lastampa.it rubrica.lettere@repubblica.it |
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