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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
16.01.2017 Tre film per la giornata della Memoria
Recensioni di Natalia Aspesi, Fulvia Caprara

Testata:La Repubblica - La Stampa
Autore: Natalia Aspesi - Fulvia Caprara
Titolo: «Austerlitz: turisti per caso ad Auschwitz tra selfie, panini e lunghe code - L'Olocausto sulla pelle dei bambini»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 16/01/2017, a pag. 30, con il titolo "Austerlitz: turisti per caso ad Auschwitz tra selfie, panini e lunghe code", la recensione di Natalia Aspesi; dalla STAMPA, a pag. 28, con il titolo "L'Olocausto sulla pelle dei bambini", la recensione di Fulvia Caprara.

Ecco gli articoli:

LA REPUBBLICA - Natalia Aspesi: "Austerlitz: turisti per caso ad Auschwitz tra selfie, panini e lunghe code"

E' fondamentale che la conoscenza di che cosa è stata la Shoah e la Memoria siano diffuse tra tutti, a partire dalle giovani generazioni. E' vero che talvolta i giovani possono avere atteggiamenti tipici dell'età, ma questo non sia un motivo per interrompere i Viaggi della Memoria e la trasmissione della conoscenza, al contrario, serva per intensificare tutto questo.

Ecco l'articolo:

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Natalia Aspesi

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La locandina del film

LA PRIMA reazione è di disagio davanti a immagini che nella loro normalità finiscono per apparire oltraggiose. Poi quella giornata chiara d’estate, quelle interminabili ondate di turisti in ciabatte, pantaloncini, magliette con le scritte, cappellini, la stessa folla che percorre, un po’ distratta e un po’ affaticata, qualsiasi museo, qualunque parco archeologico, diventano lo specchio dello stesso spettatore e della realtà della sua lontananza e smemoratezza: un complice di ciò che sullo schermo vorrebbe rifiutare. Il documentario di Sergei Loznitsa, cinquantenne nato nella un tempo sovietica Bielorussia e cresciuto in Ucraina, autore di documentari e di bei film severi ( My Joy e Anime nella nebbia), in sala dal 25, si intitola Austerlitz, come il romanzo dello scrittore tedesco W.G. Sebald (editore Adelphi) e come il suo protagonista, un uomo che va alla ricerca delle sue origini ebraiche. E quelle moltitudini che ondeggiano sullo schermo, in una delle tappe del turismo di massa in Germania e Polonia, stanno percorrendo le baracche, i cortili, le camere a gas, le fosse comuni del campo di sterminio di Sachsenhausen, vicino a Berlino, “gita” di tre ore, con guide per ogni gruppo e ogni lingua, tra muri nudi, spazi muti, che nel loro grigiore vuoto dovrebbero evocare l’indicibile.

Loznitsa filma per 93 minuti, in un gelido e pur sereno bianco e nero, con una macchina digitale nascosta, questa umanità in vacanza sulle tracce di quell’altra umanità che ormai più di settant’anni fa, negli stessi luoghi e seguendo lo stesso percorso, fu disumanizzata e sterminata. Uomini e donne, vecchi e bambini: i martiri della Shoah furono 6 milioni, i turisti sulle loro tracce sono state l’anno scorso 10 milioni: uomini, donne, vecchi e bambini che anche in questo viaggio dentro uno dei luoghi di un Olocausto smisurato, non riusciranno a immaginare quella sofferenza estrema, quell’assurdo destino che non avrà mai spiegazioni. Dice il regista, «Visitando questi campi ho sentito subito una sensazione sgradevole nel mio essere lì: sentivo come se la mia stessa presenza fosse eticamente discutibile e avrei voluto davvero capire attraverso il volto delle persone, degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d’animo ». Ma non l’ha capito, come dice con questo suo film: «Perché una coppia di innamorati o una madre con il suo bambino vanno a fare visita ai forni crematori in una giornata di sole estivo?». Il film inizia nel silenzio, tra i visitatori, i turisti, che aspettano il loro turno per varcare quella soglia inquietante; per tutto il tempo non ci sarà una sola parola di commento, ma a poco a poco i suoni si confonderanno come un sottofondo musicale stridente; il vento, lo scalpiccio di migliaia di passi, i rumori indecifrabili, le risate, le voci smorzate, il gridare delle guide che conducono il loro gregge di edificio in edificio, e il padiglione Z sarà l’ultimo, quello della raccolta delle ceneri, la fine della storia.

C’è chi ha l’audioguida appiccicata all’orecchio, chi consulta una piantina, chi telefona, chi caccia la testa in una stanza e non ci entra perché forse non è abbastanza evocatrice di orrori; chi beve dalle bottigliette e chi mangia panini, chi si siede affaticato sui muretti e le guide li sollecitano, “muovetevi in fretta, prima arriviamo prima mangiate ancora”. C’è chi fotografa i muri e quelle foto poi non racconteranno nulla, chi si fa i selfie allacciato ai pali delle torture, chi riprende la fidanzata appoggiata al cancello di ferro con la famosa scritta “Arbeit macht frei”. Per i primi dieci minuti si teme di provare un moto di impazienza perché l’immagine è fissa su una folla sconnessa che vaga e di cui non vediamo cosa vede; poi è proprio questa fissità cieca, è la vacuità apparente dei comportamenti, i visi inespressivi, i suoni indecifrabili, quella specie di marcia su un percorso obbligato che imprigiona i visitatori, come imprigionò i morituri, a creare una forma di partecipazione, di stupore, di dolore: come se si fosse lì, turista tra i turisti, a condividere da spettatori un’esperienza unica, forse indimenticabile, forse profonda, forse sconvolgente, forse invece superficiale e deludente.

Il film di Loznitsa chiede allo spettatore se abbia senso questo turismo massificato e disordinato della Memoria, se conceda davvero il raccoglimento, l’empatia, forse un senso ignoto di colpa, di un’esperienza così traumatica. Lui non sa rispondere. Una risposta la dà il libro Non c’è una fine di Piotr M.A. Cywinski, polacco cattolico, direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz (intervistato da Wlodek Goldkorn per Repubblica del 9 gennaio) appena pubblicato da Bollati Boringhieri. Visitare i luoghi dell’ignominia sarà necessario per sempre. Per non dimenticare mai la sofferenza e lo sterminio di milioni di ebrei, ma anche che ciò poté avvenire per l’indifferenza del mondo o per il suo senso di impotenza: o addirittura per la sua collaborazione. Gli stessi sentimenti, dice lo scrittore, con cui anche oggi si voltano le spalle alle sofferenze e agli stermini quotidiani di cui veniamo continuamente informati.

LA STAMPA - Fulvia Caprara: "L'Olocausto sulla pelle dei bambini"

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Fulvia Caprara

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Le locandine

Sulla pelle dei bambini. Prima con il famigerato «T4», il decreto promulgato da Hitler nel 1939 che ordinava di praticare l’eutanasia a tutti i pazienti degli ospedali psichiatrici iniziando dagli ebrei, ai ragazzi con problemi di disabilità e a chiunque manifestasse caratteri giudicati «diversi», ovvero non compatibili con l’obiettivo del «benessere nazionale». Poi con la guerra, le persecuzioni naziste, l’Olocausto.

Un prezzo alto
Gli indifesi, come sempre, pagano il prezzo più alto, ma l’innocenza della giovinezza, la voglia di non rinunciare alla vita appena iniziata, sono armi difficili da contrastare. Lo dimostrano, in modi diversi, due film tratti da storie vere con protagonisti poco più che decenni, Nebbia in agosto di Kai Wessel (dal 19 nei cinema con Good Films) e Il viaggio di Fanny di Lola Doillon (evento speciale per la Giornata della memoria, nelle sale il 26 e il 27 con Lucky Red, dopo la presentazione ai Rendez-vous con il cinema francese). Il primo sceglie un linguaggio crudo e diretto, il secondo privilegia un tono più lieve e consolatorio. Il pubblico deciderà qual è la miglior chiave di racconto, intanto l’importante è sapere. Per non dimenticare, ma anche per evitare che gli orrori si ripetano perchè, come ricorda Marcello Pezzetti, Consulente Scientifico della Fondazione Museo della Shoah, «il male non è mai banale. Lo si sceglie, come il bene».

Eutanasia e fuga
Al centro di Nebbia in agosto s’impone la figura di Ernst Lossa (Ivo Pietzcker), tredicenne tedesco jenisch, orfano di madre, vivace, intelligente, e con un forte spirito di indipendenza. Giudicato per questo «ineducabile», verrà chiuso nell’ospedale dove il dottor Walter Veithausen (Sebastian Koch) mette in pratica, con agghiacciante solerzia, il piano hitleriano di eliminazione degli internati, decidendo chi deve vivere e chi deve morire.

Protagonista del film di Lola Doillon è invece la tredicenne Fanny Ben-Ami (Léonie Souchad), lasciata dai genitori, con le sue sorelle, in una delle colonie francesi destinate a proteggere i minori dai rischi della guerra. E’ lì che Fanny conoscerà i suoi compagni di viaggio, minacciati dai rastrellamenti nazisti e costretti a seguirla, per scampare alla morte, fino in Svizzera, territorio all’epoca neutrale, dove troveranno la salvezza: «Volevo girare un film - spiega la regista - che mi desse la possibilità di spiegare ai bambini che cosa succedeva in quel periodo senza spaventarli troppo. Mi interessava che lo vedessero famiglie al completo, che i più piccoli non si annoiassero e che quelle immagini suscitassero degli interrogativi». L’aspetto più impressionante, osserva Lola Doillon, è che «durante la riprese continuavo a vedere tg con profughi siriani e bambini in fuga come nel mio film. Vuol dire che a distanza di 70 anni succedono le stesse cose, quindi è importante raccontarle».

Argomenti tabù
Se Fanny ha potuto narrare in prima persona la sua storia, Ernest Lossa è stato tacitato per sempre, insieme a quei 5mila bambini che trovarono la morte in Germania, prima della fine del conflitto: «Fino agli Anni ‘80 - osserva il regista di Nebbia in agosto - il tema della psichiatria all’epoca del Nazional Socialismo era un tabù, poco trattato anche in ambito cinematografico. Credo, invece, che dovremmo rifletterc per capire meglio il modo con cui definiamo oggi la normalità, ricordando che i criteri della disabilità sono casuali e opinabili e che non dovremmo parlare di inadeguatezza, ma piuttosto di diversità da proteggere e sostenere».

L’opposizione alla «bonifica interna alla società tedesca», primo passo verso la Shoah, non fu, fa notare Marcello Pezzetti, forte come avrebbe dovuto. Né da parte della Chiesa, né da parte dei medici che, proprio come il dottor Veithausen, agirono spesso «non tanto per rispettare gli ordini, ma perché volevano sentirsi parte dell’ingranaggio».

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