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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
27.09.2016 Pioggia di fuoco su Aleppo: bombardamenti criminali di Assad, Russia, Iran - l'Occidente tace
Analisi di Bernard-Henri Lévy, Daniele Raineri

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Bernard-Henri Lévy - Daniele Raineri
Titolo: «L'Europa salvi il suo onore impedendo la fine di Aleppo - Ora ad Aleppo la Russia ha scelto di applicare il 'modello Grozny'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/09/2016, a pag. 32, con il titolo "L'Europa salvi il suo onore impedendo la fine di Aleppo", l'analisi di Bernard-Henri Lévy; dal FOGLIO, a pag. 1-4, con il titolo "Ora ad Aleppo la Russia ha scelto di applicare il 'modello Grozny' ", l'analisi di Daniele Raineri.

Se l'Occidente continuerà a permettere i bombardamenti sui civili di Aleppo compiuti dal sanguinario dittatore Assad e da Russia e Iran suoi alleati, come sottolinea Lévy, non solo perderemo la guerra, ma anche l'onore. Copyright Winston Churchill.
Si può dire che i successori di Assad potrebbero essere anche peggio, come si è visto in Libia nel dopo Gheddafi.

Ecco gli articoli:

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Aleppo distrutta

CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy: "L'Europa salvi il suo onore impedendo la fine di Aleppo"

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Bernard-Henri Lévy

Bisogna fermare il massacro di Aleppo. Bisogna arrestare ad ogni costo i bombardamenti massicci, sconsiderati, indiscriminati (o, peggio, «discriminati», poiché prendono di mira principalmente i civili, i convogli umanitari e gli ospedali) che sono ricominciati ancora più intensi ad Aleppo. Nei giorni — o piuttosto nelle ore e quasi nei minuti che seguono — bisogna dire basta al diluvio di fuoco, di bombe a grappolo e al fosforo, ai barili di cloro sganciati a bassa quota sugli ultimi quartieri orientali della città controllati dai ribelli. Bisogna esprimere, e udire, la collera di uomini e donne liberi, la loro nausea di fronte alle immagini, riprese dai rari testimoni ancora sul posto, di bambini con i corpi devastati e ustionati; di feriti amputati, per mancanza di farmaci, da chirurghi ridotti allo stremo e anche loro massacrati; di donne falciate da una bomba mentre — come a Sarajevo ventitré anni fa — facevano la coda per comprare yogurt; di volontari che scavano fra le rovine alla ricerca di sopravvissuti, e colpiti a loro volta; di persone ormai prive di forza, sopravvissute fra immondizie e rifiuti, che dicono addio alla vita.

Bisogna spegnere le colonne di fuoco e di fumo. Dissolvere le nuvole di gas infiammabile sprigionato dalle nuove armi, diabolicamente sofisticate, di cui si servono gli assassini. Bisogna farlo, poiché possiamo farlo. Lo possiamo perché i colpevoli di questa carneficina cui si aggiunge un urbanicidio; i colpevoli dei crimini di guerra su vasta scala, e dell’assassinio di una città che fu la seconda della Siria, la più cosmopolita e la più meravigliosamente viva; i colpevoli dei probabili crimini contro l’umanità e della distruzione di una grande città iscritta nel patrimonio mondiale dell’umanità, sono chiaramente identificati; e del resto essi stessi non fanno nulla per nascondersi.

Parliamo beninteso del regime di Damasco, che da un bel pezzo avremmo dovuto cominciare a trattare come a suo tempo avevamo trattato quello di Gheddafi. Ma anche dei suoi padrini iraniani e soprattutto russi che, da cinque anni, hanno sistematicamente bloccato ogni velleità di risoluzione proveniente dalle Nazioni Unite; e che con i loro aerei, in un certo numero di circostanze debitamente documentate, hanno partecipato in maniera diretta alla guerra massiccia contro i civili; e che sembrano sempre più chiaramente decisi ad applicare alla Siria la parola d’ordine sperimentata in Cecenia, quella di «dare la caccia fin nei cessi» a coloro che il ministro Lavrov chiama di nuovo terroristi. A partire da questo, il dilemma è semplice.

Considerando la posizione che gli Stati Uniti assunsero tre anni fa, quando il presidente Barack Obama scelse misteriosamente di non sanzionare il superamento, da parte di Bashar al-Assad, della «linea rossa», che pure egli stesso aveva tracciato e che proibiva il ricorso alle armi chimiche, c’è da temere che il dilemma si imponga soprattutto, per non dire soltanto, all’Europa. O noi decidiamo di agire; di definire a nostra volta una linea rossa prevedendo, in caso venga oltrepassata, un aggravamento delle sanzioni contro una Russia ritenuta direttamente responsabile dei crimini commessi dal suo vassallo siriano. E prendiamo al più presto l’iniziativa di avviare un negoziato e di fare pressione ispirandoci al «formato normanno» — che il presidente Hollande e la cancelliera Merkel inventarono, tre anni fa, per limitare la guerra in Ucraina e che, di fatto, riuscì a limitarla — costringendo così l’aggressore a venire a patti. Oppure non facciamo nulla; accettiamo, come nel paragone che ha fatto l’ambasciatore di Francia all’Onu, François Delattre, una nuova Sarajevo; ci assumiamo il rischio di una Guernica araba con squadriglie russe nel ruolo, secondo le debite proporzioni, della legione Condor tedesca nel cielo della Spagna repubblicana nel 1936. E allora, a dir poco, perderemo l’onore: secondo una celebre formula, non solo avremo scelto il disonore, ma la crescita fino all’estremo di tutti i pericoli del momento, a cominciare da quello di un drammatico ingrossamento del fiume di rifugiati di cui non si ricorda mai abbastanza che provengono, soprattutto, dalla Siria e che sono il risultato diretto del non-intervento del mondo in una guerra totale, senza precedenti da lungo tempo, e che offende la coscienza.

Siamo a questo punto. Aleppo assediata, stremata, che non si arrende e muore in piedi. Aleppo sfinita, oltraggiata, costretta a battersi e che dispera di suscitare la compassione del mondo. Aleppo, la nostra vergogna, il nostro crimine per rinuncia, la nostra umiliazione davanti alla forza bruta, il nostro consenso al peggio. Aleppo che non chiama più. Aleppo che muore e ci maledice. E una Europa in prima linea che, fosse solo a causa, ripeto, della pressione alle sue frontiere di un popolo che non è stata capace di proteggere e che le chiederà di accoglierlo, si gioca ora il proprio avvenire e una parte della propria identità. Sarà, Aleppo, la sua agonia? O riuscirà invece a riprendersi, a risollevarsi e a qualificarsi? Anche questo è il dilemma. (traduzione di Daniela Maggioni)

IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Ora ad Aleppo la Russia ha scelto di applicare il 'modello Grozny' "

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Daniele Raineri

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Vladimir Putin con il dittatore siriano Assad

Roma. Fino al 19 settembre il governo russo aveva due strade possibili davanti a sé per affrontare la questione siriana. La prima era proseguire nei negoziati laboriosissimi e ormai arrivati all’ottavo mese con l’Amministrazione americana, in modo da trovare una road map – senza una scadenza precisa – per arrivare alla pace. Punto di partenza di questa scelta: la tesi che non esiste una soluzione militare in Siria, nessuna parte ha le forze per prevalere davvero sull’altra, se non troviamo un qualche tipo di compromesso le fazioni in campo sono capaci di scannarsi per i prossimi anni (decenni?) senza giungere a una conclusione chiara. Nel recente passato la Russia ha creduto un poco anche a questa possibilità, a tal punto da chiedere al presidente siriano Bashar el Assad di non tenere le elezioni parlamentari a fine aprile e da simulare a fine marzo un ritiro degli aerei dalla Siria – come a dire: il grosso del nostro compito militare l’abbiamo fatto, ora tocca al lavoro politico, tocca ai negoziatori, bisogna agire più di fino.

Potremmo chiamare questa strada “modello Ginevra”, dal nome della città svizzera dove il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e il segretario di stato americano, John Kerry, si sono incontrati tante volte nella speranza di replicare il successo del deal atomico con l’Iran (il deal fu un successo, se funzionerà come promesso è ancora da vedere). La seconda strada davanti ai russi era invece di gettare tutto il peso della propria forza militare dalla parte del presidente siriano Assad per assisterlo nella missione, da lui stesso annunciata, di riprendere il controllo su tutta la Siria “shibr shibr”, che in arabo vuol dire: pollice per pollice. Il punto di partenza di questa scelta è l’opposto di quello precedente: in Siria non esiste la soluzione pacifica, esiste soltanto la soluzione militare, costi quel che costi – che pur essendo chiamata “militare” tocca centinaia di migliaia di civili.

Potremmo chiamare questa seconda opzione “modello Grozny”, dal nome della capitale della Repubblica Cecena che fu ridotta in macerie nei dieci anni di guerra tra la Russia e i separatisti. Fino al 19 settembre, si diceva, esistevano per la Russia entrambe le possibilità. Quel giorno il bombardamento contro il primo convoglio di camion della Mezzaluna rossa autorizzato a portare aiuti verso Aleppo ha segnato uno spartiacque. Il modello Ginevra è stato abbandonato, ora è in vigore il modello Grozny, che predica una strategia della terra bruciata contro la parte est di Aleppo, stretta d’assedio insieme ai duecentomila civili che contiene (quarantamila secondo il governo siriano, che vuole abbassare la quantità di aiuti negoziata con le Nazioni Unite; duecentomila secondo i russi; trecentomila secondo il Wall Street Journal).

“Fare terra bruciata” è una strategia che passa per la distruzione di qualsiasi struttura che ancora permette la sopravvivenza ad Aleppo est: ospedali, centrali idriche, centri di primo soccorso, case. Da venerdì a domenica c’è stata un’applicazione pura – quindi spietata – di questo concetto. Testimoni oculari raccontano “la peggiore ondata di bombardamenti indiscriminati contro Aleppo in cinque anni di guerra”. Secondo il negoziatore delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura, le bombe hanno ucciso 213 persone. In un ospedale, dice il New York Times, metà dei 67 feriti erano bambini. Gli aerei hanno preso di mira per primi i soccorritori, inclusi i cosiddetti Elmetti bianchi, i volontari di un servizio civile d’emergenza che si occupa di tirare fuori sopravvissuti e cadaveri dalla macerie: “L’effetto è stato immediato, scrive il New York Times, ora quando la gente resta sotto i detriti non arriva più nessuno”.

Da Aleppo i testimoni spiegano che in questi giorni i russi usano anche bombe del tipo “bunker buster”, disegnate per tutt’altri generi di scenari, per distruggere i bunker costruiti in cemento armato da eserciti nemici. Le bunker buster sono ordigni più pesanti del solito che prima di esplodere penetrano in profondità nel terreno e sono – per fare un esempio – il tipo di arma che gli aerei americani userebbero in un ipotetico raid contro le installazioni nucleari in Iran. Lo scoppio apre crateri colossali in mezzo ai palazzi e genera un’onda d’urto che gli abitanti di Aleppo descrivono come “una scossa di terremoto”.

Il Times di Londra scrive che alcune unità russe sparano sui quartieri a est di Aleppo con un sistema d’arma che si chiama Tos-1 ed è l’arma incendiaria più efficiente in circolazione. Lancia razzi cosiddetti termobarici che funzionano così: il razzo arriva in prossimità del bersaglio, crea una nuvola spray di benzina e aria altamente infiammabile e la incendia in una sola, larga vampata. Quanto può resistere la popolazione civile che non è ancora fuggita, sottoposta a queste condizioni? Si diceva modello Grozny, quindi, che è un nome che richiama subito alla mente le devastazioni della guerra cecena. In realtà sarebbe più corretto dire che i russi stanno aiutando il presidente siriano Assad a implementare il “modello Daraya”. Daraya è un sobborgo della capitale Damasco, a circa otto chilometri dal centro: per cinque anni ha resistito a una serie di bombardamenti intensa, ad attacchi di terra e a un assedio che rendeva l’arrivo dei beni di prima necessità, come cibo e medicinali, molto difficile. Ad agosto Daraya ha capitolato, i quattromila abitanti si sono divisi: settecento hanno scelto di essere trasferiti su alcuni autobus verdi e ancora con le loro armi verso la regione di Idlib, su al nord, fuori dal controllo del governo; gli altri hanno accettato di essere risistemati altrove, sotto il controllo del governo.

Qualche giorno fa, in occasione della festa islamica di Eid al Adha, il presidente Assad ha fatto una passeggiata nel centro di Daraya ripresa ampiamente da tutti i media di stato per il suo valore simbolico: alla fine, era il messaggio, ho vinto io. Come scrive Anne Barnard, corrispondente americana del New York Times che spesso lavora in Siria nelle aree controllate dal regime, ora il modello è applicato ad Aleppo: “Rendi la vita intollerabile e la morte probabile. Apri una via d’uscita o offri un accordo a chi scappa o si arrende. Lascia che la gente fluisca all’esterno. Uccidi chiunque resta. Ripeti, fino a quando la città deserta è tua”.

A giudicare dall’intensità delle operazioni di questi giorni, la Russia e la Siria hanno in mente un piano “assedia e fai capitolare” anche per la seconda città del paese, e dal punto di vista militare si tratta del piano più ambizioso che abbiano mai provato. Dal punto di vista umanitario, creerà altre centinaia di migliaia di profughi – ma non è detto che questo, nella politica russo-siriana, sia uno svantaggio. I profughi sono attratti dall’occidente e hanno un effetto destabilizzante sui governi ospiti. Il problema per l’establishment assadista di Damasco è che Daraya misura pochi chilometri quadrati e ha resistito per anni a pochi chilometri, con soli quattromila abitanti.

Aleppo è in una categoria differente. Senza contare che vale per la seconda città della Siria quello che una fonte israeliana disse al Foglio qualche tempo fa a proposito di Gaza: “Potremmo anche riprendere la Striscia, e dopo cosa faremmo? Quanti uomini dovremmo impegnare per tenerla sotto controllo?”. Poco a nord di Aleppo, con meno fragore, va avanti un piano che darà forma alla regione negli anni a venire. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan – che ha preso una grande porzione di nord della Siria grazie all’operazione “Scudo dell’Eufrate” –, sta spostando di nuovo in Siria i profughi siriani che per anni sono stati in Turchia. Si tratta di una moltitudine che nutre poche simpatie per il governo Assad. Per ora l’effetto non si vede, perché tra siriani di ritorno e territorio governativo c’è ancora una striscia occupata dallo Stato islamico. Ma prima o poi il Califfato si ritirerà anche da quella zona.

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