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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
13.09.2016 Siria: esiste una soluzione possibile?
Commenti di Guido Olimpio, Maurizio Molinari, Bret Stephens

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Guido Olimpio - Maurizio Molinari - Bret Stephens
Titolo: «Assad nella città simbolo della rivolta: 'Riconquisteremo tutta la Siria' - Serve un nuovo assetto strategico per il medio oriente - Serve un modello Balcani»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/09/2016, a pag. 12, con il titolo "Assad nella città simbolo della rivolta: 'Riconquisteremo tutta la Siria' ", il commento di Guido Olimpio; dal FOGLIO, a pag. III, con il titolo "Serve un nuovo assetto strategico per il medio oriente", il commento di Maurizio Molinari; con il titolo "Serve un modello Balcani", il commento di Bret Stephens.

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Il sanguinario dittatore Assad portato in spalle da Putin

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio: "Assad nella città simbolo della rivolta: 'Riconquisteremo tutta la Siria'  "

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Guido Olimpio

La storia del Medio Oriente è piena di tregue concordate e poi violate. Dunque alla fine contano i fatti. La regola vale per il cessate il fuoco entrato in vigore alle 18 italiane in Siria ma subito seguito da segnalazioni di combattimenti e sortite contrastanti. La prova di come la prospettive restino difficili è arrivato proprio ieri. Il presidente siriano Bashar Assad è uscito dal suo palazzo bunker per visitare Daraya, sobborgo appena riconquistato dalla sua milizia. Un paesaggio spettrale, con case ed edifici ridotti in rovine dalle cannonate, non diverso da quello di altri centri devastati dalla tattica della terra bruciata. Il raìs ha pregato nella moschea e ha pronunciato parole tutt’altro che morbide: ha affermato che riconquisterà tutti i territori del paese oggi in mano al nemico. Una promessa che va ovviamente contro l’idea che la pausa delle ostilità possa portare alla pace definitiva. «Siamo qui per sostituire la finta libertà che hanno cercato di vendervi all’inizio della crisi con una vera libertà — ha detto —. Non la libertà sostenuta dai dollari».

La posizione del leader non è certo nuova, ma era stata contenuta da quella di Mosca, scudo indispensabile del regime, che ha idee diverse. Secondo i russi i lealisti devono badare a tenere il controllo delle città e di alcune zone importanti, lasciando il resto all’opposizione in quanto sarebbe troppo costose (e impossibile) riprendere la totalità del paese. Almeno nel breve. E per il futuro il Cremlino pensa magari ad altri scenari. La tregua di 7 giorni dovrebbe essere infatti l’inizio di un percorso. Intanto devono cessare i raid aerei in alcuni settori, così come verranno aperti dei corridoi umanitari. Quindi Usa e Russia potranno lanciare incursioni coordinate contro le fazioni estreme, dall’Isis ai seguaci di Jabhat Fatah al Sham, nuova denominazione dei qaedisti di al Nusra. Una mossa per separare la componente radicale dal resto. Una volta riuscito questo ci sarebbe spazio per un negoziato con una probabile transizione politica.

Il punto è che Assad, spalleggiato dall’Iran, non ha alcuna voglia di lasciare il potere e il Cremlino non ha alcuna fretta. Su questo si inseriscono le paure degli oppositori. Non si fidano delle grandi potenze, le distinzioni delle diplomazie in buoni e cattivi non trovano corrispondenza sul terreno, contano le vittime civili provocate dai governativi negli ultimi giorni. Così la vigilia è stata marcata da annunci e contro-annunci. Parte dell’Esercito libero siriano, componente moderata della resistenza, ha risposto positivamente. L’alleanza curdo-araba anche. Gli islamisti di Ahrar al Sham hanno espresso un giudizio negativo. Hezbollah e Iran, alleati del regime, hanno dato il loro assenso. Confusione a Washington. Il segretario di Stato Kerry ha sostenuto che Assad potrà colpire i qaedisti, cosa poi smentita dai suoi collaboratori a conferma di un piano che si presta a interpretazioni e dunque incerto. Come la tregua.

IL FOGLIO - Maurizio Molinari: "Serve un nuovo assetto strategico per il medio oriente"

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Maurizio Molinari

La soluzione della guerra civile in Siria, iniziata nel 2011, passa attraverso l’accordo fra i paesi della regione che sostengono i principali contendenti. Ovvero, l’Iran alleato del regime di Bashar el Assad e il blocco sunnita, guidato da Arabia Saudita e Turchia, alleato dei principali gruppi anti regime. Poiché la Russia è l’unica potenza non regionale presente sul terreno con proprie truppe e in grado di dialogare con efficacia su entrambi i fronti, è un tassello cruciale delle possibile intesa. Da qui la conclusione sul fatto che un accordo sulla Siria potrà esserci solo in presenza di un patto sul nuovo assetto strategico dell’intero medio oriente.

La necessità di eliminare lo Stato islamico e di dare una risposta alle istanze indipendentiste curde sono due ulteriori elementi di un mosaico tutto da costruire. L’esistenza di intese non pubbliche di Israele con Mosca da un lato e Riad dall’altro suggerisce quanto esteso può essere il riassetto strategico. L’occidente potrà avere voce in capitolo su tale scenario se il successore di Barack Obama, che si insedierà il 20 gennaio 2017, riuscirà a riguadagnare in fretta almeno parte della credibilità politica degli Stati Uniti. Insomma, ciò che distingue la guerra siriana è di essere decisiva nel ridefinire gli equilibri di forza di lungo termine nella regione che va da Suez al Bosforo, fino a Hormuz. E come avviene in simili casi in assenza di accordi, vi saranno conflitti più estesi.

IL FOGLIO - Bret Stephens: "Serve un modello Balcani"

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Bret Stephens

A oggi, ci sono state 17 iniziative di pace per la Siria in meno di cinque anni. Il risultato è quasi cinque milioni di rifugiati, circa otto milioni di profughi interni e 400 mila morti. Perché il presidente Barack Obama pensa che un nuovo accordo per il cessate il fuoco dovrebbe riuscire dove tutti i precedenti hanno fallito? La mia idea è che non ci riuscirà, ma ancora una volta un gesto diplomatico è tutto quello che ti resta quando hai abbandonato la possibilità di usare la leva militare. Barack Obama lascerà la Casa Bianca tra pochi mesi, e la nuova Amministrazione avrà bisogno di una propria politica siriana. Il primo e fondamentale passo sarà rinunciare al “principio fondamentale” espresso l’anno scorso dal segretario di stato John Kerry e dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov che “la Siria dovrebbe essere un paese unito”.

La guerra in Siria è un affare complesso, che coinvolge quattro stati stranieri – la Russia, l’Iran, la Turchia e gli Stati Uniti – e almeno cinque grandi milizie non statali oltre al regime di Assad. Ma la guerra, alla radice, è uno scontro per il potere a somma zero. O Assad vince tutto o lo fanno i suoi oppositori. Il contrario di una vittoria assoluta in Siria è l’annichilamento assoluto. Come andare oltre la logica del mors tua vita mea? L’opzione migliore è dividere il paese. L’idea non è nuova, e i critici dicono che piani di divisione hanno già fallito, che tracciare i confini è un disastro, che i nuovi confini non risolveranno per forza le rivalità interne e anzi potrebbero aggravarle. Il punto della divisione non è risolvere tutti i problemi della Siria. E’ ridurli a dimensioni gestibili.

Un futuro stato alawita lungo la costa mediterranea della Siria potrebbe assicurare la sopravvivenza politica della dinastia Assad. Ma potrebbe essere una patria etnica sicura se ha le garanzie di sicurezza dei russi. Una zona curda, unita al Kurdistan iracheno, sarebbe vista come una minaccia dai turchi. Ma potrebbe essere un rifugio per i civili se difeso dall’aeronautica americana. Per quanto riguarda il resto della Siria, la pacificazione richiederebbe un intervento limitato ma deciso della Nato per cacciare lo Stato islamico dalle sue roccheforti, equipaggiare e aiutare l’Esercito libero siriano così da togliere l’assedio di Aleppo e marciare su Damasco, e unirsi all’Arabia Saudita, all’Egitto e agli Emirati Arabi Uniti per installare una forza di stabilizzazione araba a lungo termine. Nel 1990 il mondo era alle prese con una spirale d’orrore nei Balcani. Gli Stati Uniti intervennero con la forza militare e gli alleati locali per ottenere dei risultati politici decisivi. Quella che un tempo era la Yugoslavia erano diventati sette stati separati. Il successo della politica estera di Clinton potrebbe essere il modello per il suo successore.

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