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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
20.11.2015 Il terrorismo palestinese è gemello di quello di Parigi
Analisi di Fiamma Nirenstein, Maurizio0 Molinari, David Carretta; Francesco Battistini intervista Nahum Barnea

Testata:Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari - Francesco Battistini - David Carretta
Titolo: «Il terrorismo dei coltelli gemello diverso dell'Isis - Convivere con il terrore, l'esempio di Tel Aviv - 'L'Isis ha più successo in Belgio che in Palestina. Qui la crisi è politica' - Il Dolphinarium e il Bataclan»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 20/11/2015, a pag. 8, con il titolo "Il terrorismo dei coltelli gemello diverso dell'Isis", il commento di Fiamma Nirenstein; dalla STAMPA, a pag. 2, con il titolo "Convivere con il terrore, l'esempio di Tel Aviv", il commento di Maurizio Molinari; dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, con il titolo "L'Isis ha più successo in Belgio che in Palestina. Qui la crisi è politica", l'intervista di Francesco Battistini a Nahum Barnea; dal FOGLIO, a pag. I, con il titolo "Il Dolphinarium e il Bataclan", l'analisi di David Carretta.

Ecco gli articoli:

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La scena dell'attacco di ieri a Alon Shvut

IL GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "Il terrorismo dei coltelli gemello diverso dell'Isis"

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Fiamma Nirenstein

Ieri Israele ha avuto altri 4 uccisi per terrore. Uno stillicidio, un'ondata di terrorismo parallelo a quello di Parigi prosegue la continua tortura che nelle ultime settimane ha fatto 18 morti, 350 feriti e 1500 episodi di terrore nella strade di Gerusalemme e in tutta Israele fra accoltellamenti, spari, esplosioni, uso delle auto per travolgere i passanti. Oggi si aggiungono alla lista altre quattro persone, due pugnalate all'ingresso di una sinagoga nello scenario metropolitano di Tel Aviv, l'altro nel Gush Etzion, uno di 25 anni e uno di 50, 10 i feriti. L'assoluta casualità degli attacchi risulta lampante se si guarda all'immensa differenza fra gli obiettivi prescelti: gente di Tel Aviv che va alla sinagoga per la preghiera serale, e due automobilisti fermi in coda vicino a Alon Shvut, nei Territori del Gush Etzion.

Agli attentatori non interessava affatto l'identità dei loro obiettivi, perchè questo è il terrorismo: basta che siano ebrei, come ai terroristi di Parigi bastava che fossero francesi. Ebrei, cristiani, imperialisti, oppressori, corrotti occidentali. Gli uccisi sono per il terrorista, esattamente come a Parigi, o a Londra, o a Madrid o a Tolosa e Bruxelles, segnali piantati nella terra del suo piano di dominazione che, nella prima fase, si esprime nella confusione che riesce a seminare, nella gente che perde fiducia nel potere costituito e resta a casa avvilito nella sua vita quotidiana, per poi sfociare nella seconda fase, quella della compiuta dominazione, nel caso di Israele nella cacciata del popolo ebraico; nel caso dell'Occidente intero in spazi sempre più vasti per il Califfato.

Per l'uomo del Daesh, o Isis, gli attentati, dal Canada alla Francia, già delimitano i confini dello Stato islamico, così come per i palestinesi gli attentati sul territorio israeliano lo destinano a entrare alla fine a far parte del dominio islamico. Israele ha messo due giorni fa fuori legge il Movimento Islamico del nord dello sceicco Ra'ad Salah, ne ha tagliati i finanziamenti e chiuse le sedi, una mossa che Netanyahu ha accompagnato con rassicurazioni ai musulmani di rispetto e accettazione: ma la decisione del Gabinetto israeliano è quella di non consentire che un'organizzazione contigua al terrorismo sia libera di spargere il suo seme. Ultimamente l'Isis, in un video postato lunedì, ha lanciato una campagna in cui incita i palestinesi a attaccare ovunque gli israeliani mentre in ben sei video i loro predicatori invitano a uccidere gli infedeli sullo sfondo delle immagini degli attacchi coi coltelli. Un video intitolato «Restituite il terrorismo agli ebrei» rispecchia il tipico atteggiamento per cui qui Israele, là gli occidentali, vengono accusati delle «colpe» che causano il terrorismo che si rovescia su di loro.

Si calcola per altro che nelle file del Daesh si annidino circa 200 palestinesi, la loro presenza è maggiore a Gaza mentre nell'West Bank gran parte dei palestinesi lo rifiuta, ma di sicuro l'uso sconsiderato anche da parte dell'Autonomia Palestinese della bugia che Israele vuole occupare la Moschea di Al Aqsa ispira l'islamismo che porta i giovani al terrore. L'ondata dei coltelli è un tentativo di imitare l'Isis e le sue decapitazioni; l'attacco a luoghi sacri agli ebrei, come l'incendio alla tomba di Giuseppe mima altri attacchi ai vari luoghi sacri. Israele è abituata a rispondere al terrorismo sin dagli anni '20, ben prima che esistesse il problema dei territori. Il mondo invece non è abituato a prendersi cura del terrore in Israele, che è sempre stato lasciato solo a fronteggiarlo mentre invece si adoperava a fare muro per tutti quanti.

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Convivere con il terrore, l'esempio di Tel Aviv"

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Maurizio Molinari

Controlli hi-tech, massiccia presenza di sicurezza ma soprattutto capacità dei cittadini di rispondere agli attacchi: è la formula con cui Tel Aviv, la metropoli dello Stato ebraico, si difende dall’Intifada dei coltelli così come avvenuto dalle precedenti ondate di attentati. Per comprendere di cosa si tratta bisogna guardare a quanto avvenuto ieri al «Panorama Building» quando un palestinese di 24 anni, arrivato da Hebron, ha iniziato ad accoltellare i fedeli davanti una sinagoga.

Uno dei feriti più gravi ha trovato la forza di chiudere la porta della sinagoga, impedendo al killer di entrare. Nel corridoio intanto un vigile è accorso ed ha ferito l’attentatore, consegnandolo agli agenti. La capacità dei singoli di reagire, spesso d’istinto, al pericolo nasce dal fatto che Israele ha un esercito di leva dove ogni uomo serve per tre anni - ed ogni donna per due - continuando dopo ad essere richiamati come riservisti. Ciò significa che gran parte della popolazione è in grado di difendersi, con armi o meno, ed inoltre è addestrata dagli ufficiali - come scrivono Dan Senor e Saul Singer nel libro «Start Up Nation» - a «pensare con la propria testa» adattando l’addestramento alla situazione contingente.

Capacità di reagire
Questo spiega l’estrema duttilità dei civili nell’adottare rimedi alle differenti minacce: quando durante la Seconda Intifada Hamas bersagliava i bus con i kamikaze a Tel Aviv molti andavano a lavorare in bicicletta, o accompagnavano i figli a scuola in auto, così come oggi davanti al pericolo dei coltelli si fa incetta di spray al pepe e zainetti per proteggersi e reagire, guadagnando minuti che possono implicare la sopravvivenza.

Sicurezza hi-tech
Il tutto in un apparato di sicurezza nazionale che ha rafforzato una doppia natura: la sorveglianza hi-tech di gran parte del Paese con un sistema integrato digitale, ancora in gran parte top secret, che fa ampio uso di droni e sensori, e la presenza nelle strade di soldati e guardie per esercitare un effetto-deterrenza contro i terroristi.
Anche i civili credono molto nella deterrenza: per questo da settembre è aumentato il numero delle persone che mostrano la pistola ai fianchi. Per il premier Benjamin Netanyahu gli attacchi palestinesi - ieri hanno fatto 5 vittime - nascono da «un Islam estremista che è lo stesso autore del massacro di Parigi» e contro questo «stesso terrore» il «modello Tel Aviv» consiste in un ruolo attivo dei cittadini nella difesa collettiva.

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini: "L'Isis ha più successo in Belgio che in Palestina. Qui la crisi è politica"

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Francesco Battistini

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Nahum Barnea

«Sono appena arrivato da Parigi e da Bruxelles, passando per Roma. Ho viaggiato per un’Europa in grande affanno e appena arrivato qui, ecco altri morti…». Nahum Barnea è il più famoso giornalista israeliano, il più adatto a fare paragoni tra noi e loro: perse un figlio in un attentato di Hamas, non ha mai perso lucidità nel guardare dentro la notte. «La sfida è molto grande. Dovete affrontare questioni enormi: controllare le frontiere, migliorare la sicurezza interna, rivedere i controlli su migrazioni e minoranze. Una cosa complicata».

Netanyahu paragona il terrore di Parigi e quello in Israele… «Troppo conveniente dirlo, perché sia anche vero. C’è qualche legame fra situazioni così drammatiche. E io non voglio giustificare chi spara sui civili a Parigi o a Gush Etzion. Ma le radici di quel che vediamo qui affondano nel conflitto israelo-palestinese, non a Saint Denis. Netanyahu non può sottrarsi alla responsabilità di proteggere il popolo e il Paese, esportandola all’estero. Quel che ora affrontiamo in Israele è anche il prodotto d’uno sviluppo politico. Non è solo Isis. L’Isis è uno strato dell’emergenza. Ma solo uno».

A Parigi lei ha respirato una sinistra aria che conosce bene… «Sedevo con amici e parlavamo di come il terrorismo minacci la gente che vuole avere una vita normale. Noi la chiamiamo sicurezza personale; i francesi, piacere della vita. Ma è la stessa cosa: svegliarsi la mattina e volere una spremuta, andare a scuola, concentrarsi sul lavoro e la sera distrarsi a un caffè. Gli attacchi a Parigi, completamente ciechi di fronte all’identità e alle storie delle vittime, hanno tolto questa quotidianità. In gennaio gli obbiettivi erano “Charlie Hebdo” o un supermarket ebraico: crimini odiosi, ma avevano un significato. Stavolta nessuno può chiamarsi fuori. Chiunque è un target. A Parigi uno viene ucciso indipendentemente da quel che pensa di Hollande o delle bombe su Raqqa. Questa sensazione di paura, gli israeliani la provano da sempre: nessuno è al sicuro. Il terrorismo più efficace è quello cieco che crea terrore cieco. Chi sparava a Parigi se ne fregava della Palestina. E se l’Isis fosse qui, le prime vittime sarebbero i palestinesi».

Però ci sarebbero almeno 200 palestinesi affiliati all’Isis. «L’Isis ha più successo in Belgio che in Palestina. Puoi anche dire che c’è un legame con la Baader Meinhof o con le Brigate rosse: il terrorismo è terrorismo. Ma non credo ci sia un’attrazione forte. Gli amici d’uno dei terroristi di Parigi mi hanno detto che era solo un piccolo delinquente, viveva spacciando droga e bevendo alcol, altro che buon musulmano. Questi ragazzi non sanno niente di religione, come non sanno niente di Palestina. Vogliono una vita radicale, una qualunque, credere nella distruzione».

Il capo degli 007 tedeschi ha detto che, a combattere il terrorismo, bisogna imparare dagli israeliani. In che cosa? «Negli aspetti tecnici della guerra globale. Informatori, controllo web, intercettazioni. Noi siamo in una situazione migliore. Un obbiettivo meno centrale, con paure più limitate. Ma il problema ora sono gli accoltellamenti. Non è facile bloccare uno che si sveglia la mattina e decide d’ammazzare».

Netanyahu ha messo fuori legge il Movimento islamico d’Israele: in questa situazione, non era meglio aspettare? «Questo movimento è davvero pessimo. Ha instillato molto veleno nella società araba, ma anche israeliana. Ha danneggiato la nostra vita pubblica. Ha fatto propaganda estremista che ha creato altri estremismi. Non so se dichiararli illegali sia stata la scelta migliore, perché questo potrebbe dare loro più consensi. Però se mi chiedi: sono pericolosi? Io rispondo: sì. Proprio come quelli che vanno in giro ad accoltellare e a sparare».

IL FOGLIO - David Carretta: "Il Dolphinarium e il Bataclan"

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David Carretta

Bruxelles. Il 13 novembre 2015 a Parigi sarà per gli europei quel che è stato il 1° giugno 2001 a Tel Aviv per gli israeliani? “Questa notte ho sognato che la mia donna di servizio si presentava a casa con il velo e si faceva esplodere”, mi ha detto ieri un’amica, spiegandomi di essere rimasta scioccata dalla notizia di una attentatrice suicida belga che si è fatta esplodere durante il blitz di Saint-Denis di mercoledì, nel quale è stato ucciso l’organizzatore degli attacchi a Parigi, Abdelhamid Abaaoud. “Ho paura”, ha sintetizzato un ragazzo, mentre suonano le sirene di un furgone della polizia che trasporta un detenuto verso il tribunale di Bruxelles. “Ho detto ai miei figli di non prendere più autobus e metropolitana”, mi ha raccontato una mamma di fronte ai soldati col mitra che presidiano la stazione della metro di Schuman, su cui si affacciano i palazzi delle principali istituzioni dell’Unione europea.

Sono parole simili a quelle che mi erano state dette da una mamma franco-israeliana sulla terrazza di casa sua a Tel Aviv nel 2002, a un anno e mezzo dall’inizio della Seconda Intifada: “Non prendo più gli autobus. Non dormo più la notte per il timore di ricevere una telefonata dalla polizia, quando mio figlio esce la sera. E ho il terrore di chiamarlo, perché ho paura che non risponda al telefono. Lo aspetto sveglia, fino a quando non sento la porta di casa aprirsi. L’attentato alla discoteca del Dolphinarium ha cambiato tutto”. Dal 28 settembre del 2000, giorno della visita di Ariel Sharon al Monte del Tempio che servì da pretesto per la rivolta dei palestinesi, all’8 gennaio del 2005, quando al summit di Sharm el Sheikh il neoeletto presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen dichiarò la fine della violenza, sono stati compiuti circa 150 attacchi contro Israele. Più di mille israeliani sono morti per mano di attentatori palestinesi.

E’ difficile incontrare una persona in Israele che non abbia un parente o un amico tra le vittime (morti o feriti) della Seconda Intifada. Ma l’attentato al Dolphinarium è quello che ha segnato più profondamente la psicologia degli israeliani. L’estate è appena iniziata. La sera del 1° giugno 2001, all’entrata della discoteca sul lungomare di Tel Aviv si affollano giovani e giovanissimi, in gran parte immigrati dalla Russia. In fila c’è anche il ventiduenne palestinese Saeed Hotari, che alcuni scambiano per un ebreo ortodosso sefardita, ma in realtà è inviato da Hamas. Ha in mano un tamburo e inizia a ripetere in ebraico “qualcosa sta per accadere”. Alle 23 e 27 fa esplodere la sua bomba: il tamburo era stato riempito di chiodi e pezzi di metallo. L’allora ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, sente l’esplosione dal suo albergo a poche centinaia di metri e corre a vedere, mentre il lungomare di Tel Aviv si trasforma in un ingorgo di ambulanze.

Diciassette persone muoiono sul colpo, altre quattro nei giorni successivi. La vittima più giovane ha 14 anni, quella più anziana 32. Il numero di feriti supera il centinaio, in gran parte ragazzini che erano andati “solo” a ballare. Come i giovani al concerto degli Eagles of Death Metal al Bataclan. “Non voglio cambiare la mia voglia di vivere” “In quel momento abbiamo perso l’innocenza”, mi diceva la mamma franco-israeliana nel 2002. La Seconda Intifada fino ad allora era stata considerata una specie di “evoluzione tecnologica” della Prima Intifada: le bombe avevano preso il posto dei sassi ma – almeno per l’opinione pubblica progressista fedele al Labur o al Meretz – era parte di un lungo conflitto, che si sarebbe potuto risolvere attraverso i negoziati: il processo di Oslo, la soluzione dei due stati, il dialogo con palestinesi ragionevoli avrebbero messo fine alla violenza.

Invece al Dolphinarium è cambiato tutto. A essere presi di mira non erano più i “coloni”, i giovani soldati di leva mentre rientravano per una licenza o le fermate degli autobus vicino alle caserme. Il bersaglio erano diventati gli innocenti più innocenti: giovani spensierati quindicenni, sedicenni, diciassettenni. E di Dolphinarium ne sono seguiti altri. Il 9 agosto 2001 15 persone muoiono in un attentato contro la pizzeria Sbarro di Gerusalemme. Il 9 marzo 2002 11 giovani saltano per aria al Café Moment di Gerusalemme. Il 31 marzo 2002 15 morti al ristorante Matza di Haifa. Il 31 luglio 2002 9 giovani vengono uccisi all’Università ebraica di Gerusalemme. Il 30 aprile 2003 un kamikaze con passaporto britannico di origine pachistana si fa esplodere al Mike’s Place di Tel Aviv provocando 3 morti. Il 9 settembre del 2003 7 persone vengono ammazzate al Café Hillel di Gerusalemme. Sabato 15 giugno 2002, con Marco Pannella, Yasha Reibman e altri compagni radicali, ero alla riapertura del Café Moment. Il locale è quasi deserto. Al bar, c’è un ragazzo scampato all’attentato di tre mesi prima che ha ricostruito il M o m e n t esattamente c o m ’ e r a : “Non voglio cambiare la mia voglia di vivere per paura della morte”, dice. Sembra Parigi sabato 14 novembre 2015: “#TousAuBistrot! #TousEnTerrasse!”, si legge su Twitter, affianco a foto di locali semideserti. Sembra di sentire Tony Blair dopo l’attacco a Londra del 7 luglio 2005: “They will never destroy our way of life”. Giusto, vero e domenica non rinuncerò al pranzo con i miei figli in un ristorante vicino al Museo ebraico di Bruxelles che, viste le sue vetrine, potrebbe tranquillamente essere crivellato da un kalashnikov. Salvo che Israele e gli israeliani sono profondamente cambiati, quando si sono accorti di avere di fronte un’ideologia totalitaria, che assassina in modo indiscriminato sulla base del principio “tutti gli ebrei devono essere gettati in mare”. Le mamme hanno paura per i figli che escono la sera. Chi può non prende l’autobus. Ariel Sharon si ritira da Gaza contro la volontà dei “suoi” settlers e avvia la costruzione della barriera di sicurezza (il famoso “muro” tanto deprecato dagli europei, che ha salvato migliaia di vite negli ultimi anni della Seconda Intifada) che di fatto sancisce dei confini con un eventuale futuro stato palestinese. Il Labor diventa irrilevante, con i suoi ex elettori che eleggono i “falchi” Ariel Sharon, Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu o votano i “falchetti” Isaac Herzog e Tzipi Livni. Martedì 18 giugno 2002, tre giorni dopo la riapertura del Café Moment, una bomba di Hamas uccide 19 persone su un bus all’incrocio di Patt a Gerusalemme.

Mercoledì 19 giugno 2002, ero nella città vecchia di Gerusalemme quando sento in lontananza un’esplosione: un attentatore si è fatto saltare per aria a una fermata dell’autobus alla Collina francese di Gerusalemme. Corro sul posto: 7 morti e 35 feriti. Registro per Radio Radicale le parole di condanna dell’allora sindaco Ehud Olmert. Racconto in diretta quel che è accaduto. Poi, fino a tarda sera, rimango a guardare inebetito la nuova normalità degli israeliani: cadaveri raccolti pezzo per pezzo, ma domani si va al lavoro, mentre il resto del mondo continua a pensare che “un po’ è colpa degli ebrei”. Una nuova normalità Oggi mi chiedo se gli europei comprendono che c’è una nuova normalità dopo Parigi: se noi ci sveglieremo dal lungo sonno, da cui gli israeliani si sono risvegliati il 1° giugno del 2001. Fino al Dolphinarium, in Israele ci si poteva illudere che il nichilismo di un attentatore suicida potesse avere come causa la liberazione palestinese. Fino al 13 novembre 2015 gli europei si sono illusi che i bersagli dell’ideologia totalitaria e assassina fossero “altri”, guardati spesso come colpevoli di qualche forma di ingiustizia.

L’11 settembre 2001 è l’imperialismo americano a essere colpito. Il 19 marzo 2014 alla scuola Ozar Hatorah di Tolosa, il 24 maggio dello stesso anno al Museo ebraico di Bruxelles, il 9 gennaio 2015 all’Hyper Cacher di Parigi sono gli ebrei complici di Israele a essere uccisi. Il 7 gennaio 2015 nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi e il 14 febbraio 2015 al Krudttønden cultural centre di Copenaghen è la stampa blasfema che si vuole sterminare. Il 13 novembre 2015, mentre 128 di noi vengono massacrati da un manipolo di piccoli Hitler, ci siamo resi conto che siamo tutti israeliani e parigini? Altrimenti, siamo tutti spacciati.

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