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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
12.05.2015 La Turchia sostiene lo Stato Islamico, il generale Haftar in risposta bombarda una nave turca
Cronaca di Francesco Battistini, analisi di Marta Ottaviani

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Francesco Battistini - Marta Ottaviani
Titolo: «Il generale Haftar bombarda una nave turca 'amica di Isis' - La partita di Erdogan per tornare arbitro del Medio Oriente»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 12/05/2015, a pag. 8, con il titolo "Il generale Haftar bombarda una nave turca 'amica di Isis' ", la cronaca di Francesco Battistini; dalla STAMPA, a pag. 4, con il titolo "La partita di Erdogan per tornare arbitro del Medio Oriente", l'analisi di Marta Ottaviani.

Ecco gli articoli:


Il 'sultano' turco Erdogan sostiene lo Stato Islamico

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini: "Il generale Haftar bombarda una nave turca'amica di Isis' "

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Francesco Battistini

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Il generale Haftar

Proprio adesso. Mentre l’Onu si chiede come fermare i barconi degli scafisti, ecco il generale Haftar rispondere come sa: bombardando le navi di chi aiuta, dice lui, gl’islamisti. Il capo militare di Tobruk l’aveva ripetuto solo qualche giorno fa — «abbiamo le prove che la Turchia arma le milizie di Tripoli» —, domenica sera ha cercato di dimostrarne la flagranza. Cannonate dalla costa sul cargo turco Tuna-1, che batteva bandiera delle Isole Cook, veniva dalla Spagna e portava diversi container: di razzi destinati al Califfato di Derna, è sicuro Haftar; «mattoni di cartongesso» per i cantieri di Tobruk, garantisce Ankara. La nave ha fatto appena in tempo a lanciare un Sos, raccolto da greci, maltesi e francesi.

Dopo dieci minuti, racconta il comandante Unal Balici, sono piovute le bombe di due attacchi aerei: ucciso il terzo ufficiale, feriti i marinai turchi, georgiani, azeri e parte della stiva che fumava ancora ieri sera, quando la Tuna-1 navigava verso il porto egeo di Fethiye scortata dalle motovedette turche. Sono bombe che imbarazzano un po’ tutti. E certo non rendono più semplice l’azione Ue per frenare i barconi dei migranti. Per ora la reazione di Ankara è insolitamente contenuta, considerata la propaganda politica che di solito soffia su incendi simili: ci si limita a una protesta formale e a «maledire chi ha realizzato l’attacco spregevole», evitando di fare nomi; ci si rivolge all’Onu e all’Organizzazione marittima internazionale, minacciando azioni legali di risarcimento.

Il governo di Tobruk — che è riconosciuto dalla comunità internazionale e in febbraio ha interrotto ogni rapporto con Turchia, Qatar, Sudan e quanti appoggino la Fratellanza musulmana di Tripoli — si giustifica così: «La nave era in acque costiere a 10 miglia da Derna e ha proseguito, nonostante i colpi d’avvertimento». «La rotta era Tobruk — replicano i turchi — e comunque stavamo ancora a 13 miglia, in acque internazionali». In gennaio, le bombe erano toccate a una petroliera greca che Haftar pensava trafficasse oro nero di contrabbando.

Due settimane fa invece, a sorpresa, una cisterna maltese era riuscita a entrare addirittura nella rada di Derna, città che il generale tiene sotto assedio da mesi, senza che venisse sparato un solo colpo: è possibile che il precedente abbia indotto pure i turchi a provarci. La guerra civile libica sta diventando sempre più una guerra anche navale. Dai migranti alle armi, tutto è usato: il nuovo premier tripolino Al Gweil chiede aiuto all’Ue nella lotta agli scafisti, «perché siamo noi a controllare l’85 per cento della Libia e abbiamo bisogno di sostegno reale, non di chiacchiere, contro il ricercato Haftar»; da Tobruk, spinti dall’Egitto, avvertono come non si possano lasciare 1.770 km di coste libiche agl’islamisti «che hanno spodestato il governo legittimamente eletto, tollerando l’Isis a Derna».

L’Onu aprirà un’inchiesta internazionale, per quel che serve. Un obbiettivo, il bombardamento dei turchi l’ha già raggiunto: in Libia non sbarca più nessuno. Che non sbarchino dalla Libia, è tutta un’altra faccenda.

LA STAMPA - Marta Ottaviani:  "La partita di Erdogan per tornare arbitro del Medio Oriente"

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Marta Ottaviani

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Recep Tayyip Erdogan

Un Paese che sta giocando su troppi tavoli e che, anche nella crisi libica, sta dimostrando tutta la sua ambiguità, con i rischi che ne conseguono. La Turchia, membro della Nato e da sempre ritenuto una cerniera naturale fra Oriente e Occidente è una delle poche nazioni che sostiene il governo islamico di Tripoli. Un sostegno che, secondo molti analisti, non è dettato solo da motivazioni ideologiche, ma anche di convenienza. Dal 2009 la Turchia ha avviato una politica estera sempre meno aderente a quella degli Stati Uniti e dell’Unione europea, all’insegna, solo teorica, del buon vicinato con i Paesi che un tempo facevano parte dell’Impero Ottomano, motivo per cui si è parlato spesso di neo ottomanesimo turco. La Libia è stato proprio uno di quei Paesi, insieme con la Siria, dove la posizione della Mezzaluna si è smarcata con maggiore decisione da quella della comunità internazionale.

Ricchi appalti nel settore edile
Ankara decise di partecipare all’azione militare del 2011 con un ruolo interlocutorio, ossia limitandosi a svolgere funzioni di pattugliamento e di soccorso. Una scelta fatta per non indispettire i Fratelli Musulmani, che oggi guidano il governo a Tripoli e ai quali l’ex premier, attuale presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, ha sempre dimostrato vicinanza. La fedeltà turca è stata ben ricompensata. Dopo la caduta di Muammar Gheddafi, infatti, la Mezzaluna è riuscita a mantenere gran parte degli appalti, calcolati in miliardi di dollari e soprattutto nel settore edile, che Erdogan era riuscito ad assicurarsi durante le due visite nel Paese, quando ancora intratteneva rapporti di personale amicizia con il dittatore.

Ambiguità con gli islamisti
Ankara è quindi in una posizione ambigua non solo per la comunità internazionale, ma anche per le diverse anime che compongono la Libia e che vedono la Turchia come una nazione sempre più presente sul territorio nazionale, ma alleata con la parte sbagliata.

Da almeno tre anni la Turchia è nell’occhio del ciclone per le scelte operate in politica estera. La Mezzaluna al momento non ha rappresentanze diplomatiche in diversi Paesi chiave della regione, fra cui l’Egitto, Israele, la Siria e proprio la Libia. Nonostante i risultati della sua esuberanza diplomatica le si siano spesso rivoltati contro e cresca la diffidenza da parte della comunità internazionale, la Turchia non ha perso il sogno di diventare un grande player regionale in grado di contrapporsi a Il Cairo. Un progetto che il presidente Erdogan sta portando avanti non senza rischi per la stabilità del Mediterraneo, stringendo una molto chiacchierata alleanza con il Qatar e rendendosi sempre più protagonista della guerra fra sciiti e sunniti.

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