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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Il Giornale Rassegna Stampa
20.04.2015 Barconi della Morte: 'Bisogna impedire le partenze': la soluzione dell'Australia
Federica Mogherini intervistata da Marco Zatterin, commento di Elisa Serafini

Testata:La Stampa - Il Giornale
Autore: Marco Zatterin - Elisa Serafini
Titolo: «'Bisogna impedire che i barconi partano' - L'Australia insegna: militarizzare i mari»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/04/2015, a pag. 5, con il titolo "Bisogna impedire che i barconi partano", l'intervista di Marco Zatterin a Federica Mogherini; dal GIORNALE, a pag. 4, con il titolo "L'Australia insegna: militarizzare i mari", il commento di Elisa Serafini.

E' la prima volta che Federica Mogherini esprime un'idea intelligente. Se non ha ricevuto un suggerimento da qualcun altro, si può sperare forse in un suo rinsavimento (almeno per quanto riguarda i barconi della morte).
Alla sua affermazione/domanda c'è già la risposta: basta guardare a quanto fatto dall' Australia, un Paese civile senza discriminazioni e con molti immigrati, come dimostra l'articolo di Elisa Serafini sul Giornale.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Marco Zatterin: "Bisogna impedire che i barconi partano"


Marco Zatterin                    Federica Mogherini

«I soccorsi hanno funzionato, l’organizzazione è stata esemplare e l’Europa dovrebbe ringraziare l’Italia, ma quest’ultima tragedia dimostra che il problema delle migrazioni e delle loro vittime si risolve solo agendo alla radice, cioè impedendo che i barconi partano». Federica Mogherini parla senza quasi prendere fiato, sta correndo a prendere un aereo per Lussemburgo dove stamane condurrà la riunione dei ministri degli Esteri europei. E’ stata una giornata frenetica per l’alto rappresentante della Politica estera Ue, spesa a cercare soluzioni e tentare di cucire il consenso in un’Europa in cui il silenzio di certi capitali - Berlino, ad esempio - è apparso agli osservatori davvero assordante.

Nessuno può dire di essere stupito per il nuovo massacro nel Mediterraneo, vero?
«Macché. Non è un fulmine a ciel sereno, sarebbe paradossale essere sorpresi».

Eppure i Ventotto non hanno reagito con la stessa enfasi.
«E’ il motivo per cui abbiamo deciso di aprire il Consiglio Esteri con l’immigrazione. C’è bisogno che tutti si assumano le proprie responsabilità politiche e operative, e voglio anche augurarmi un vertice europeo straordinario che faccia lo stesso. Davanti a numeri che stanno assumendo proporzioni gigantesche, e una regolarità di flussi che ormai è una tendenza acclarata, occorre una presa di coscienza e l’affermazione di una posizione politica chiara e determinata».

Lei lo dice da tempo. Non è bastato, non ancora.
«Non è per caso se da mesi abbiamo intensificato il lavoro sia sul versante Interni che su quello Esteri. Il dramma dimostra che non si tratta solo di “Search and rescue” perché i soccorsi erano sul posto. La sfida è combattere e prevenire l’azione di un sistema di organizzazioni criminali complesse che lucrano trafficando esseri umani. Siamo circondati da conflitti e non abbiamo la bacchetta magica. Ma un cambio di passo è possibile e necessario. L’emergenza richiede maggiore consapevolezza».

In pratica, cosa vuol dire?
«Vuol dire investimenti, dunque più risorse per i salvataggi in mare, di cui troppi pochi sostengono lo peso. Vuol dire solidarietà nell’accoglienza, dunque l’esigenza di essere coerenti con le lacrime che si versano davanti ai morti. Vuol dire imporre un approccio pienamente europeo che tutti gli stati devono far proprio, cominciando col condividere informazioni e azioni su chi traffica di uomini e donne».

Se non portate a casa risultati concreti, sarà inevitabile che la gente pensi che l’Europa è inutile.
«Non sta succedendo. Capisco la frustrazione degli italiani per l’ennesima disgrazia, come italiana la provo anch’io. Però si delinea anche una crescente convinzione che solo attraverso una strategia unitaria europea si possano cambiare le cose».

Non si ha l’impressione che in tutti i paesi europei la consapevolezza sia la stessa.
«Questa sciagura è l’ennesimo campanello d’allarme che suona nelle capitali. L’Unione è stata fondata sul rispetto della persona e della vita umana. Non possiamo andare in giro per il mondo promuovendo i diritti umani e poi non comportarci coerentemente quando tocca a noi».

Benissimo. Ma cosa si può fare, subito e concretamente?
«In primo luogo occorre essere chiari e ammettere che gli interventi più efficaci sono quelli del medio periodo. Purtroppo. Tuttavia si può agire subito per contrastare i trafficanti, bloccando i loro finanziamenti e seguendone i movimenti, condividendo l’Intelligence così come si è cominciato a fare con l’antiterrorismo. Adesso è l’ora».

E nel Mediterraneo?
«Bisogna rafforzare Triton. Più fondi e mezzi. Anche se, come abbiamo detto, la vera questione è come impedire che partano, pertanto sono cruciali gli accordi con i paesi terzi. E certo una stabilizzazione del quadro Libia è la via di uscita; senza, è tutto più difficile».

Una volta che sono arrivati, che ne facciamo?
«Dobbiamo essere più razionali nelle politiche di accoglienza, c’è una cattiva proporzione nei numeri di paesi come la Germania e di altri come l’Italia. Si impone una diversa e ampia solidarietà interna»

Ci risiamo con la spaccatura Nord contro Sud?
«Sarebbe meglio evitare letture semplificate secondo cui il Sud è consapevole e il Nord no. Ci sono storie e attitudini diverse. La presidenza lettone lavora bene, per dirne una. Io credo che ci si stia muovendo e vedo una volontà politica diffusa di accelerare».

IL GIORNALE - Elisa Serafini:  "L'Australia insegna: militarizzare i mari"

Il fenomeno migratorio è un elemento che si è presentato con costanza e regolarità nella storia. In alcuni periodi si è manifestato come fenomeno poco gradito, e per questo strettamente regolamentato, in altri si è rivelato necessario e persino indispensabile per valorizzare e arricchire alcune tra le più importanti economie del nostro mondo, come ad esempio gli Stati Uniti e l'Australia. Ma sono proprio questi paesi, cresciuti grazie all'immigrazione, a impartire oggi un'utile lezione sul fenomeno.

Distanti per storia e cultura da impostazioni ideologiche, legate al pensiero politico, o alla religione, queste «nuove» nazioni si trovano oggi ad affrontare come un nemico, ciò che un tempo aveva portato alla loro nascita. L'Australia è un Paese ricco, dotato di abbondanti risorse naturali e di un sistema molto favorevole alla creazione d'impresa: queste lontane terre, sono da sempre meta e desiderio di migliaia di aspiranti immigrati. Molti di questi possono entrare regolarmente, grazie ad un sistema relativamente flessibile che permette a cittadini di alcuni paesi, di vivere in Australia per un periodo limitato di tempo, tale da permettere la ricerca di un lavoro. Alla scadenza del visto, però, non esistono eccezioni. Senza uno «sponsor», quindi un'azienda che proponga un contratto di lavoro, l'immigrato è espulso dal continente, senza deroghe. Questa misura si applica all'italiano, così come al cittadino del Regno Unito, o della Corea del Sud. L'Australia, come ogni economia in crescita, ha bisogno dell'immigrazione, ma alle sue condizioni.

Altri Paesi, da cui potrebbero provenire immigrati meno qualificati, o più distanti culturalmente - anche questo fattore è oggetto di considerazione - devono invece contare su accordi più restrittivi. Ma come emigrano i cosiddetti disperati, ovvero chi non può contare su un Paese di nascita «amico» del governo australiano? Anche lì, come in Italia, il fenomeno degli sbarchi è stato ampiamente diffuso. Fino a un giorno: quello dell'insediamento del governo di centrodestra di Tony Abbott, che grazie ad una nuova politica di «tolleranza zero», ha di fatto eliminato i costosi e pericolosi sbarchi dalle acque australiane.
Abbott ha istituito nel 2013, un sistema di protezione militare, denominato Osb, e ribattezzato «Stop the Boats». Il sistema può contare sull'impiego di navi militari impegnate a pattugliare senza sosta le acque a rischio infiltrazione. In sinergia con la strategia militare, il governo ha infine diffuso, un'efficace campagna di comunicazione dal titolo «No Way», ovvero «impossibile». Con video e manifesti tradotti e diffusi nelle lingue più sensibili: arabo, indonesiano, indiano eccetera. I risultati non si sono fatti attendere. In un anno è stata registrata una riduzione del 90 per cento degli sbarchi: 207 nel 2013, contro i 2629 dell'anno precedente.

Il video, diffuso in tutti i Paesi a rischio, presenta il messaggio di un alto grado militare delle forze armate Australiane: «Qualsiasi imbarcazione irregolare verrà espulsa militarmente. Il provvedimento si applica a tutti: famiglie, bambini, minori non accompagnati. Non venite in Australia senza un visto. Non ascoltate chi vi dirà che si può fare. Queste persone vogliono i vostri soldi, e vi metteranno in pericolo». Un messaggio e una politica migratoria che non lasciano spazio ad alcun compromesso, lontani anni luce da quanto intrapreso da un governo che, fino a ora, sembra si sia limitato a ignorare il fenomeno. E così continuerà a fare. Fino al prossimo sbarco, fino alle prossime vittime.

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