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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
14.01.2015 Ghetto di Venezia, la storia di Armin T. Wegner, rileggere i classici oggi
Commenti di Elena Loewenthal, Gian Antonio Stella, Alessandra Farkas intervista Harold Bloom

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Elena Loewenthal - Gian Antonio Stella - Alessandra Farkas
Titolo: «Venezia si prepara ai 500 anni del primo ghetto degli ebrei - Wegner, il Lawrence degli armeni - Dio è un personaggio letterario»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 14/01/2015, a pag. 25, con il titolo "Venezia si prepara ai 500 anni del primo ghetto degli ebrei", il commento di Elena Loewenthal; dal CORRIERE della SERA, a pag. 45, con il titolo "Wegner, il Lawrence degli armeni", il commento di Gian Antonio Stella; dalla LETTURA del Corriere della Sera di domenica 11 gennaio, a pag. 20-21, con il titolo "Dio è un personaggio letterario", l'intervista di Alessandra Farkas a Harold Bloom.


Il Ghetto di Venezia

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Elena Loewenthal: "Venezia si prepara ai 500 anni del primo ghetto degli ebrei"


Elena Loewenthal

Compirà cinquecento anni l’anno prossimo e per una ricorrenza così importante ci si sta preparando con largo anticipo. Anche perché il mezzo millennio del ghetto di Venezia non è soltanto l’anniversario di un luogo particolare di una città unica al mondo o di un monumento rilevante. E’ il tracciato di una storia che è stata la rara, forse unica combinazione di un destino privato e universale. Che riguarda un gruppo ristretto di persone, con le loro storie, ma che è diventato ben presto il simbolo di una condizione comune, nella varietà di luoghi e momenti.

Perché «ghetto» è diventata una parola iconica, che con sei lettere descrive in modo straordinariamente esaustivo l’emarginazione, la segregazione, il rifiuto dell’altro. Ma nasce qui, fra queste calli, subito oltre la riva orientale del rio di Cannaregio, poco dopo l’inconfondibile ponte delle Guglie. Dalle fondamenta del canale ancora non si vede, non c’è nulla che indichi la particolarità del luogo. Bisogna cercarlo, il sottoportego che conduce all’interno, dopo un buio e angusto passaggio: lì un tempo c’era il cancello, che da sera a mattina restava chiuso e di giorno ed era sorvegliato da delle guardie che gli ebrei erano costretti a pagare. E a cercare bene, a guardare con attenzione, si riconoscono ancora i cardini del cancello.
Chissà se comincerà di lì, da quei cardini così carichi di significato e non solo per la comunità ebraica di Venezia, il restauro del ghetto per il quale la stilista Diane Von Fürstenberg ha stanziato qualche settimana fa ben dodici milioni di dollari. L’obiettivo non è quello di una conservazione puramente museale di questo posto unico al mondo, ma di trasformarlo in un centro culturale vivo.
A incominciare dal riallestimento del piccolo museo che si affaccia sul campo del Ghetto Nuovo, che in realtà è la zona più antica del ghetto: una grande e ariosa piazza - la seconda della città dopo San Marco - dove subito salta all’occhio l’altezza degli edifici. Perché gli ebrei non potevano espandersi in larghezza, sulla laguna, e dunque di fronte all’incremento della popolazione l’unica alternativa era quella di alzare un piano o due in più.
Di qui, da questo grande «campo» dove ora, oltre all’ingresso del museo, ci sono botteghe e un bar, c’è l’edificio della casa di riposo della comunità ebraica e c’è un monumento in memoria delle vittime dello sterminio, tutto è cominciato il 29 marzo del 1516, quando un decreto del doge ordina di concentrare tutti gli ebrei della città in questa zona periferica dove c’era una vecchia fonderia - gheto o geto, per l’appunto. L’obiettivo è duplice: esercitare un controllo serrato della comunità ed emarginare i «perfidi» ebrei. Erano necessari all’economia della città, con i loro commerci, ma andavano tenuti distanti e separati dai cristiani, perché la loro stessa presenza (magari radicata da secoli) li offendeva.
I lavori di restauro e di riqualificazione ad opera del «Venetian Heritage Council», un’organizzazione creata all’uopo, hanno un obiettivo che va al di là della storia ebraica: «Siamo tutti responsabili di fronte al dovere di assicurare che le generazioni future abbiano accesso a queste storie», spiega Von Fürstenberg. A maggior ragione quando ci si trova di fronte alla congenita fragilità di Venezia, e più che mai fra le mura del ghetto - luogo concepito per dare agli ebrei stessi e al resto del mondo la cifra della loro sgradita provvisorietà. Qui ci sono infatti cinque «schole», cioè sinagoghe, una più bella dell’altra. Ma tutte nascoste dietro facciate indistinguibili, perché agli ebrei era fatto divieto di marcare i loro luoghi di preghiera con segni esteriori, per non «offendere» la sensibilità cristiana. La schola tedesca e quella Canton sono di rito ashkenazita, la levantina e la spagnola sono sefardite, e poi c’è l’italiana: è lo specchio della natura multietnica di questo luogo dove convivevano – non sempre pacificamente… - ebrei di origini e culture diverse.
I restauri saranno discreti e rispettosi, con l’obiettivo più di rivitalizzare che di preservare, «Abbiamo scelto questo progetto non perché sia ebraico, ma perché il ghetto è una parte cruciale del patrimonio culturale di Venezia, e noi vogliamo una Venezia migliore» spiega Toto Bergamo Rossi, l’International Relations Advisor del «Venetian Heritage», organizzazione no profit per la salvaguardia di Venezia. L’obiettivo più ampio è quello di trasformare il turismo globale nella città, restituendo Venezia alla propria storia, dentro e fuori dal ghetto: basta al viavai mordi e fuggi in laguna, che uccide la città e non lascia niente in chi ci passa.
Così come il ghetto, tutta Venezia ha bisogno di narrazione («Abbiamo bisogno di un intervento importante, per trasformare questo museo in un luogo capace di raccontare la nostra storia», spiega Shaul Bassi, direttore del Centro Veneziano di Studi Ebraici Internazionali), di uno sguardo che sappia cogliere quello che c’è oltre piazza San Marco: in fondo, come quella degli ebrei, anche la vita della città è una coraggiosa e improba sfida al tempo che passa.

CORRIERE della SERA - Gian Antonio Stella: "Wegner, il Lawrence degli armeni"


Gian Antonio Stella                       Armin T. Wegner

«Mai come in questi giorni ho sentito vicino a me distinto il frusciare della morte, il suo silenzio, il suo freddo sorriso, e spesso mi chiedo: posso io ancora vivere? Ho ancora il diritto di respirare, di fare progetti per anni futuri così fantasticamente irreali, quando attorno a me c’è un abisso di occhi di morti?» Era disperato Armin Wegner, quel 29 marzo 1916 in cui scrisse alla madre da Bagdad quella lettera in cui raccontava l’orrore per il genocidio armeno. Il mondo intero gli era caduto addosso. Solo pochi mesi prima, il 2 novembre, «sotto il caldo sole d’autunno» a Istanbul, aveva travolto i genitori con l’incontenibile entusiasmo per l’avventura che sognava di vivere come infermiere tra le truppe germaniche alleate dei turchi contro l’Impero russo. Una eccitazione dannunziana: «Dormirò con i soldati turchi e mi ciberò di rifiuti come un ratto (…). Ho il remo della mia vita in mano». Era un giovanotto sulla trentina, Armin. Bello, rampollo di una famiglia di rigide tradizioni prussiane, amato dalle donne, fascinoso con quella divisa della Croce Rossa tedesca e la kefiah bianca che gli dava un’aria esotica alla Lawrence d’Arabia. Quella feroce pulizia etnica, compiuta sotto i suoi occhi, lo sconvolse. E lo spinse a diventare, con le sue lettere, le sue denunce, le sue foto sconvolgenti di deportazioni, marce nel deserto, scheletri di bimbi fatti morire di fame sotto le mura di Aleppo, foto proibite «pena la morte», il principale testimone del genocidio. Rientrato in patria, nel gennaio 1919 pubblicò La via senza ritorno e tentò di scuotere lo stesso presidente Usa Woodrow Wilson scrivendogli sul «Berliner Tageblatt» una possente lettera aperta dove, facendosi intendere pure dai compatrioti tedeschi distratti verso i massacri commessi dall’alleato turco, invocava una patria per quei cristiani sradicati dall’Anatolia «perché a nessun popolo della terra è mai toccata un’ingiustizia quale quella toccata agli Armeni»: «I villaggi furono bruciati, le case saccheggiate, le chiese distrutte o trasformate in moschee, il bestiame rubato; si tolse loro l’asino e il carro, si strappò il pane dalle mani, i bambini dalle braccia, l’oro dai capelli e dalla bocca. Funzionari, ufficiali, soldati e pastori, gareggiando nel loro selvaggio delirio di sangue, trascinavano fuori dalle scuole ragazze orfane per il loro bestiale piacere…». Il tutto senza che l’Europa cristiana, a partire dalla «sua» Germania avesse un sussulto: «Signor presidente, salvi Lei l’onore dell’Europa!» Era un uomo libero. Così libero, come scrive Anna Maria Samuelli nel libro Armin T. Wegner e gli armeni in Anatolia, 1915 (Guerini e Associati, 1996), che visitando Mosca nel 1927 finì per mettersi contro sia i comunisti, che secondo lui avevano tradito ogni ideale socialista, sia i nazisti, che lo marchiarono come un «intellettuale bolscevico, traditore dei valori nazionali tedeschi». Libero e tedesco, tedesco e libero. Lo dimostrano una struggente mostra fotografica appena aperta alla Biblioteca Marciana di Venezia, i riconoscimenti ricevuti come «Giusto» da armeni ed ebrei, il libro che uscirà verso la fine di aprile da Mondadori scritto da Gabriele Nissim, lo scrittore presidente di «Gariwo, la foresta dei Giusti», che ricerca in tutto il mondo i Giusti di tutti i genocidi. Aveva fegato, Armin Wegner. Al punto che, dopo la serrata antiebraica del 1933, osò scrivere una lettera a Hitler, recapitata alla Casa Bruna di Monaco (la ricevuta fu firmata da Martin Bormann) supplicandolo di proteggere la minoranza ebraica: «Se la Germania è diventata grande nel mondo, a ciò hanno contribuito anche gli ebrei». E giù un elenco, che iniziava con Albert Einstein e proseguiva con altri grandi ebrei tedeschi, imprenditori e intellettuali e olimpionici e giuristi e ricordava i dodicimila ebrei morti in guerra: come poteva la Germania «togliere ai loro genitori, figli, fratelli, nipoti, alle loro donne e sorelle ciò che si sono meritati nel corso di generazioni, il diritto a una patria e un focolare?» Montò il sangue alla testa, ai nazisti, nel leggere quella lettera che pareva irridere al Führer («Lei è mal consigliato!») e già prevedeva tutto: «Con la tenacità che ha permesso a questo popolo di diventare antico, gli ebrei riusciranno a superare anche questo pericolo — ma la vergogna e la sciagura che a causa di ciò si abbatterà sulla Germania non saranno dimenticate per lungo tempo! Infatti, su chi cadrà un giorno lo stesso colpo che ora si vuole assestare agli ebrei se non su noi stessi?» Conclusione: «Non come amico degli ebrei, ma come amico dei tedeschi, come rampollo di una famiglia prussiana in questi giorni, quando tutti rimangono muti, io non voglio tacere più a lungo di fronte ai pericoli che incombono sulla Germania». Fino all’appello disperato: «Protegga la Germania proteggendo gli ebrei!». Fu sbattuto in galera, Armin Wegner, per quella lettera straordinaria. Pestato. Frustato a sangue. Torturato. Trasferito in un lager e poi un altro e un altro ancora. Costretto infine ad andarsene in esilio. Inghilterra, Palestina con la prima moglie ebrea Lola Landau e infine a Positano, Stromboli e Roma dove sarebbe morto quasi sconosciuto nel 1978: «La Germania mi ha preso tutto: la mia casa, il mio successo, la mia libertà, il mio lavoro, i miei amici, la mia casa natale e tutto quanto avevo di più caro. In ultimo la Germania mi ha tolto mia moglie; e questo è il paese che io continuo ad amare, nonostante tutto!». Non tornò più a vivere nella patria che l’aveva tradito, Wegner. Mai più. Neppure dopo il 1965 quando, nel cinquantenario del genocidio armeno, la nuova Germania di Ludwig Erhard e Willy Brandt lo riscoprì e gli tributò una serie di onorificenze. Meno importanti, per lui, di quelle ricevute dagli armeni e dagli ebrei, che riconoscono in lui l’esempio di un uomo che salvò un pezzetto dell’onore tedesco.

LA LETTURA-CORRIERE della SERA - Alessandra Farkas: "Dio è un personaggio letterario"

"i corrispettivi ebraici di Shakespeare e Dante sono Kafka e Marcel Proust, e poi i grandi talenti yiddish. Ecco perchè conoscere come pensa Harold Bloom è importante". Complimenti a Alessandra Farkas, che termina con questo articolo la collaborazione al Corriere quale corrispondende da New York.


Alessandra Farkas               Harold Bloom

Harold Bloom si era raccomandato di entrare senza suonare il campanello né bussare. Ora ci aspetta in sala da pranzo, trasformata nell’ennesima stanza di lettura stracolma di libri, quadri e sculture (la maggior parte della celebre suocera artista Dina Melicov), tutto assorto in Dialogue on Poetry and Literary Aphorisms di Friedrich Schlegel, mentre la moglie Jeanne prende il tè con un’amica nella cucina lì accanto, dove un orsacchiotto con il cappellino degli Yankee accovacciato sul lavandino tradisce le preferenze sportive della casa. In giro non c’è ombra di apparecchi televisivi; solo una vecchia radio color caffé trasmette senza interruzione musica classica: Mozart, Bach, Vivaldi. Davanti a lui il candelabro cabalistico con la mano di Miriam, i resti del pranzo («mangi troppo», lo ammonisce Jeanne) e un’orchidea viola. Una delle tante che affollano l’edificio marrone in stile coloniale sulla Linden Street, dove tutte le settimane 24 studenti di Yale si riuniscono per seguire i corsi del più venerato, controverso e leggendario tra i critici letterari viventi, autore di bestseller internazionali come Il Canone Occidentale e Come si legge un libro (e perché) , editi in Italia da Rizzoli. «Casa mia è diventata un college, io una facoltà», scherza senza sorridere Bloom, Sterling Professor of the Humanities and English a Yale, il più alto rango accademico conferito dall’ateneo fondato nel 1701. «La salute non mi permette di recarmi al campus dove insegno da 60 anni. Ma non mi sono dato per vinto e ho appena terminato i miei ultimi due corsi chez moi : uno Shakespeare and the Canon: Histories, Comedies and Poems (Shakespeare e il canone: storie, commedie e poesie), l’altro Art of Reading a Poem (L’arte di leggere una poesia)».

Come si svolgono le lezioni a casa sua? «Ci riuniamo attorno a questo tavolo o in salotto e analizziamo un giorno l’ Amleto e il Re Lear ; un altro giorno la poesia di Wallace Stevens e Hart Crane. Dirigo due gruppi di discussione, ciascuno di 12 studenti internazionali tra i 20 e i 23 anni. Ma ricevo troppe domande di iscrizione e sono costretto a una rigida selezione».

Che requisiti bisogna avere per accedere alla sua torre d’avorio? «Gli studenti debbono scrivere due saggi: il primo su Shakespeare o la poesia, il secondo autobiografico. Mia moglie e io li leggiamo insieme alla mia fedele assistente e insieme cerchiamo di fare la scelta giusta. Posso garantirle però che l’amore per i classici e la poesia è molto grande nella gioventù di oggi. Chi viene qui è alla ricerca di un approccio tradizionale e di valori letterari ed estetici lontani da ideologie o idiozie come appartenenza etnica, genere, orientamento sessuale e classe sociale».

Quest’anno verrà pubblicato il suo nuovo libro sui «dàimon», che nella filosofia greca erano gli esseri superiori a metà strada fra il divino e l’umano. «È un saggio di 528 pagine in uscita a maggio. S’intitola The Daemon Knows: Literary Greatness and the American Sublime ed esamina i 12 scrittori americani più vitali, dotati di un’intensità demonica che consente loro di elevarsi verso il sovrasensibile: Walt Whitman, Herman Melville, Ralph Waldo Emerson, Emily Dickinson, Nathaniel Hawthorne, Henry James, Mark Twain, Robert Frost, Wallace Stevens, T.S. Eliot, William Faulkner e Hart Crane. In Italia sarà pubblicato da Rizzoli, come probabilmente anche gli altri miei due nuovi libri: Knowing Shakespeare , in uscita ad aprile, e The Emergence of Voice , subito dopo».

Nel marzo scorso il «New York Times» ha dedicato due articoli al ventesimo anniversario del suo «Canone». «Li ho letti con disgusto. Soprattutto quello, atroce, dell’anglo-indiano Pankaj Mishra: un idiota, uno dei tanti prodotti dell’ affirmative action , che ha osato paragonare il mio libro a La chiusura della mente americana di Allan Bloom e Lo scontro delle civiltà di Samuel P. Huntington. Il secondo articolo era firmato da Daniel Mendelsohn, un intelligente classicista di Princeton che però ha similmente travisato le mie tesi. Ecco perché non leggo più né il “New York Times” né la “New York Review of Books” e preferisco passare il mio tempo in compagnia delle grandi opere immortali».

Non è contento che a vent’anni dalla pubblicazione il suo «Canone» continui a infiammare tanto gli animi? «Continuerà a farlo ben dopo la mia morte, così come pure Shakespeare. L’invenzione dell’uomo e Come si legge un libro (e perché) . Ma anche se sono sempre in testa alle vendite di Amazon, non sono certo quelli i miei tre libri preferiti. Il terzo è addirittura un manuale per principianti mentre Il Canone occidentale contiene ancora quella maledetta lista estortami dagli editori e scritta di getto in due ore, costringendomi a lasciar fuori tanti grandi».

È vero che nelle università americane le sue teorie stanno tornando di moda? «Il mondo accademico Usa non mi ha mai perdonato le critiche rivoltegli a partire dalla fine degli anni Settanta, quando giurai di scrivere solo per quello che Samuel Johnson chiamava “il comune lettore” e mai più per l’università. Oggi ricevo email e telefonate da tutto il mondo. Gente pervasa da una repulsione profonda contro il neostoricismo, lo pseudo-marxismo e lo pseudo-femminismo, ma anche docenti universitari tedeschi, polacchi, francesi».

Che cosa le dicono? «Che la mia battaglia è la loro e mi esortano ad andare avanti. Non ce n’è bisogno perché lo farei comunque anche se sono stanco delle polemiche e avrei dovuto ascoltare il mio amico John Hollander, il grande poeta e critico scomparso l’anno scorso, che citando Samuel Johnson mi ripeteva: “Harold, smettila di sbraitare contro i vanagloriosi”. Aveva ragione. Ho speso troppo tempo in sciocchi litigi, bruciando tanta energia che avrei potuto impiegare nello studio».

In un’intervista al «Corriere» del 2009 si lamentò del «Nobel per idioti». È cambiato qualcosa da allora? «L’ultimo è andato a un romanziere francese che nessuno conosce (Patrick Modiano, ndr ). Ho cercato di leggerlo ma non vi ho trovato nulla. Il Nobel è politico e per questo continua a ignorare l’America. Gli svedesi sono socialdemocratici mentre gli Usa sono una plutocrazia, un’oligarchia, una teocrazia».

Che cosa pensa della letteratura americana contemporanea? «Philip Roth ha abbandonato la penna. Dopo Meridiano di sangue e Underworld Cormac McCarthy e Don DeLillo si sono arenati e anche Thomas Pynchon, il migliore dei quattro, ha scritto il suo ultimo capolavoro, Mason & Dixon , nel 1997».

E gli scrittori nell’era di Obama? «Amo Tony Kushner, soprattutto Angels in America e in particolare la parte seconda intitolata Perestroika . Stimo Denis Johnson, autore di Jesus’ Son : uno dei suoi notevolissimi libri. Mi piace anche Michael Chabon: un tipo affascinante. Ma non ho abbastanza tempo per leggere tutto ciò che mi mandano gli editori, montagne e montagne di libri. Oggi continuo a seguire le novità di poesia in tutte le lingue, ma ho rinunciato a fare lo stesso con la prosa».

Avrà pure letto «Il cardellino» di Donna Tartt? «Non ho mai sentito parlare di questo libro»

Quali sono i grandi poeti di oggi? «Dopo la morte di A. R. Ammons e James Merrill, il miglior poeta vivente in tutte le lingue è John Ashbery. Amo leggere Rosanna Warren, poetessa finissima figlia di Robert Penn Warren, il Poet Laureate mio amico fino alla morte. E Peter Cole, autore di The Invention of Influence di cui ho curato la prefazione, un poeta straordinario che vive tra Yale e Israele ed è un’autorità in materia di traduzione della poesia ebraica medievale. Ho passato il capodanno con lui e sua moglie Adina Hoffman, talentuosa scrittrice di non fiction».

Esiste un corrispettivo ebraico di Shakespeare o Dante? «Franz Kafka. Marcel Proust, la cui madre era ebrea. E tra gli scrittori yiddish Chaim Grade. La letteratura yiddish annovera grandi talenti, da Sholem Aleichem e Mendele Mocher Sforim a I. L. Peretz e Sholem Asch. Nessuno li conosce? Certo: Hitler ha ucciso 6 milioni di ebrei, 5 milioni dei quali parlavano yiddish. Di questi 2 milioni erano bambini».

Chi è l’Harold Bloom di oggi? «Quando il presidente di Yale mi ha chiesto se sarei mai andato in pensione gli ho risposto: “Portami il prossimo Harold Bloom e darò subito le dimissioni”. Ma non l’ho ancora visto».

Secondo alcuni potrebbe essere James Wood del «New Yorker». «Chi? Quel giornalista osceno che mi ha attaccato in maniera feroce per pura invidia? Wood è un pigmeo, un nano, un pessimo romanziere e la prego di citarmi. Un tempo mi elogiava ma poi “ho offeso la sua cristianità” scrivendo un libro intitolato Gesù e Yahvè e da allora mi attacca anche se non ha rinunciato a imitarmi. Il vento verrà e se lo porterà via. Il più grande critico vivente oggi è il mio caro amico Angus Fletcher, autore dello splendido Allegory ».

Con il passare degli anni ha riscoperto la sua ebraicità? «Non l’ho mai perduta. Sono cresciuto parlando yiddish e ancora oggi sogno in quella lingua. La prima volta che ho sentito parlare inglese è stato in prima liceo. La mia è una sensibilità yiddish».

Si sente più pessimista rispetto al passato? «Sono solo più realista. Negli ultimi tempi la mia salute è molto cagionevole e sono stato più volte in ospedale. La morte incombe su di me, eppure i miei valori non sono cambiati. Credo ancora che la cultura ci umanizzi e se penso a quanti anni ho ancora davanti — tre, cinque al massimo — so che non c’è nulla di meglio che io possa fare che leggere e rileggere i classici».

Pensa mai alla vita dopo la morte? «Citerò Ralph Waldo Emerson: “Non c’è vita dopo la morte. Qui e adesso: sono tutto ciò che abbiamo”. Ne era convinto anche Amleto. Walt Whitman diceva che esisti finché una persona viva si ricorderà di te o di ciò che hai detto e scritto. Anche io vivrò fino a quando ci sarà qualcuno sulla Terra che si ricorderà di me o di un mio libro o teoria».

Crede in Dio? «Non credo in Yahvè, al quale ho peraltro dedicato diversi libri. Il culto occidentale di personaggi letterari chiamati Dio è molto pericoloso e ha creato una spirale infinita di guerre, massacri e violenza, tutti i giorni sotto i nostri occhi. Yahvè, Gesù e Allah sono pura fiction, né più né meno di Amleto, del Pellegrino di Dante o del Leopold Bloom di Joyce».

In quale Dio si identifica? «Sono uno gnostico ebreo allievo di Gershom Scholem e credo che la creazione e la caduta siano lo stesso evento e che in ognuno di noi c’è una scintilla, un soffio, un respiro, un frammento sepolto più in profondità della roccia, del Dio vero e alieno che è stato esiliato al di là degli spazi interstellari e che non possiamo raggiungere. Lo gnosticismo, come afferma il mio amico Moshe Idel, grande studioso di Kabbalah, è un’eresia ebraica».

Quale caratteristiche dovranno avere gli scrittori del futuro per essere grandi? «Devono conoscere Shakespeare e Dante, Montaigne e Balzac, Chaucer, Stendhal, Proust, Milton, Wordsworth, Calvino, Ungaretti e Leopardi. Debbono imparare le lingue. E se non sanno il greco antico e il latino leggano Omero, Pindaro e Virgilio in un’ottima traduzione. Il mio consiglio ai giovani è sempre lo stesso: leggete tanto e attentamente, con la mente e con il cuore».

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