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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - la Repubblica Rassegna Stampa
18.09.2014 Sarà guerra globale all'Isis?
Cronache e analisi di Massimo Gaggi, Guido Olimpio, Renzo Guolo

Testata:Corriere della Sera - la Repubblica
Autore: Massimo Gaggi - Guido Olimpio - Renzo Guolo
Titolo: «'La battaglia contro l'Isis non è soltanto l'America' - Slogan e minacce, il 'mini-kolossal' con regia del Califfo - La strana alleanza contro il califfato»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/09/2014, a pag. 17, con il titolo "La battaglia contro l'Isis non è soltanto l'America", la cronaca di Massimo Gaggi; con il titolo "Slogan e minacce, il 'mini-kolossal' con regia del Califfo", l'articolo di Guido Olimpio; da REPUBBLICA, a pag. 38, con il titolo "La strana alleanza contro il califfato", l'analisi di Renzo Guolo.

Sottolineiamo con piacere il mutamento di registro di Guolo, che segue l'editoriale di Ezio Mauro del 05/09/2014, che ha segnato una svolta nella linea editoriale di Repubblica. Per rileggere l' analisi di Ezio Mauro http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=4&sez=120&id=55164


"La guerra è appena cominciata", avverte il video dell'Isis Fiamme di guerra

 

Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi: "La battaglia contro l'Isis non è soltanto l'America"


Massimo Gaggi

Il guerriero riluttante guiderà l’attacco della coalizione contro l’Isis ma non manderà altre truppe Usa a combattere in Iraq e Siria. E non perché è spaventato dal video minaccioso messo in rete dai propagandisti del «califfato» poche ore dopo la testimonianza al Congresso nella quale il generale Dempsey aveva ipotizzato un cambio di rotta di Washington sull’uso delle truppe di terra, ma perché, come scrivono gli analisti di Stratfor, un massiccio impegno americano rischia di spingere i popoli e le potenze della regione, dall’Arabia Saudita alla Turchia, a restare a guardare. Per questo ieri, parlando a Tampa, in Florida, ai militari di CentCom, il comando militare Usa per l’Asia centrale e il Medio Oriente che è la «cabina di regia» degli attacchi aerei contro l’Isis, Barack Obama ha sostenuto con molta determinazione che «questa non è una battaglia che l’America combatterà da sola: non faremo in Iraq il lavoro che spetta agli iracheni», e ha sottolineato che sono già oltre 40 i Paesi che hanno offerto assistenza nella lotta contro l’Isis in Iraq e Siria. Non sarebbe corretto parlare di smentita al capo di Stato maggiore perché Martin Dempsey, rispondendo a domande incalzanti dei parlamentari, l’altro ieri si era limitato a dire che, se la strategia appena lanciata non funzionerà e le cose si metteranno male, tornerà alla Casa Bianca con altre proposte, compresa quella di usare truppe in combattimento. Ma è evidente l’intenzione del presidente di raffreddare la temperatura anche sul piano del linguaggio: il Pentagono, il suo stesso portavoce Josh Earnest, e alla fine anche il segretario di Stato, John Kerry, hanno cominciato a usare il termine «guerra» per descrivere l’offensiva decisa dalla Casa Bianca, mentre Obama ha continuato anche ieri a definirla una «strategia antiterrorismo». Dunque, proprio mentre va nel comando di Tampa per discutere col generale Lloyd Austin, capo di CentCom, i prossimi attacchi della «fase due del conflitto», quella dell’appoggio esplicito ai combattenti di terra che sfidano l’Isis, Obama sottolinea che tutti devono fare la loro parte: «L’iniziativa spetta a noi perché siamo gli unici capaci di mobilitare grandi forze, di costruire coalizioni, gli unici con le risorse e la tecnologia. Quando succede qualcosa nel mondo, un uragano, un terremoto, un conflitto, chiamano sempre noi, anche quando non ci amano. E noi ci mobilitiamo come stiamo facendo, ad esempio, per Ebola, mandando tremila nostri uomini in Liberia. Ma ognuno ha il suo ruolo: per questo stiamo dedicando queste settimane alla costruzione della coalizione che deve eliminare la minaccia dell’Isis». In un discorso molto patriottico in un hangar della base di Tampa, il presidente ha ringraziato i militari che aveva davanti per le missioni che hanno svolto nel mondo, ma ha anche promesso che non metterà la loro vita ulteriormente in pericolo sul campo di battaglia: «I soldati che abbiamo appena inviato in Iraq dovranno offrire supporto alle truppe combattenti locali, non sostituirle». Obama aggiunge che è proprio per raggiungere questi obiettivi che «stiamo dedicando queste settimane alla costruzione di una coalizione» ampia e con impegni chiari. Ed elenca puntigliosamente i contributi dei francesi e degli inglesi «che stanno già volando con noi sull’Iraq», mentre a terra l’Arabia Saudita ha accettato di ospitare i campi nei quali verranno addestrati 5.400 combattenti siriani dei gruppi sunniti «moderati», Australia e Canada manderanno anche loro consiglieri militari in Iraq. Cita anche la Germania che ha offerto paracadutisti come istruttori. Insomma, grande enfasi sullo sforzo collettivo perché «la storia ci ha insegnato che, quando interveniamo noi americani, se i popoli locali non combattono per il loro destino, appena noi ci ritiriamo tutto torna come prima». Sullo sfondo sembra di intravedere la preoccupata analisi del presidente del centro di analisi strategiche Stratfor , George Friedman, ripresa ieri dal New York Times : l’interesse americano ad affrontare il problema dell’Isis e a evitare catastrofi in Medio Oriente non significa che «gli equilibri in quell’area debbano essere mantenuti direttamente dagli Stati Uniti. Turchia, Iran e Arabia Saudita hanno molti più interessi in gioco di Washington. Devono rimboccarsi le maniche. Ma se si convincono che gli Usa terranno la situazione sotto controllo, è razionale per loro tirarsi indietro e stare a guardare».

 
Un fotogramma dell'ultimo video rilasciato dall'Isis

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio: "Slogan e minacce, il 'mini-kolossal' con regia del Califfo"


Guido Olimpio

Gli insorti iracheni sono stati dei precursori nell’uso dei video. All’inizio dell’invasione Usa, nel 2003, avevano «scoperto» che c’era una grande richiesta e, allora, disponendo di poco materiale infilavano spezzoni tratti da film di guerra in mezzo ai filmati dei loro attentati. Un gap presto colmato dal gran numero di attacchi registrati con i telefonini. Molto tempo è passato da quei giorni. Tredici anni dopo gli eredi di Al Zarqawi hanno migliorato la produzione. L’ultimo clip, diffuso dallo Al Hayat Media Center, braccio propagandistico dell’Isis, è la sintesi perfetta. Un clip di 52 secondi, montato con scene di agguati, uccisioni, esplosioni. Le sole parole sono quelle del presidente Obama, tratte da un recente discorso: «Le truppe combattenti americane non torneranno in Iraq». Il filmato, intitolato Fiamme di guerra , è come un trailer hollywoodiano che si chiude con la scritta «prossimamente», la stessa che appare negli spot per i film in uscita. Un annuncio che vuole essere una minaccia rivolta agli Usa. Il video è in linea con quelli fin qui realizzati dai seguaci del Califfo, Abu Bakr Al Baghdadi. Alcuni brevi, come le esecuzioni degli ostaggi. Altri molto più lunghi e articolati. L’intelligence Usa sospetta che il dipartimento propaganda dell’Isis sia guidato da un americano d’origine siriana, Ahmad Abousamra, che ha partecipato prima alla rivolta in Iraq e poi è passato con i militanti estremisti. I video sono comunque usati da tutte le formazioni. Quelle siriane ne hanno solo esteso la diffusione per raccogliere fondi e reclutare. Il gruppo Al Nusra (qaedista) ha di recente postato un filmato che ha illustrato, passo per passo, l’attacco a una base del regime. Per sfondare le linee i ribelli impiegano 4 veicoli bomba, due dei quali affidati a kamikaze. Su due mezzi, radiocomandati, hanno anche piazzato delle videocamere che ne hanno registrato l’avanzata spedendo le immagini in tempo reale al computer degli insorti. Altre telecamere hanno seguito da varie angolazioni l’assalto e poi le esplosioni. Un clip destinato all’interno del movimento ma anche con una proiezione esterna. Per quei sostenitori che vivono in Medio Oriente o in Occidente, magari individui che non hanno legami strutturali con le fazioni, anche se ne vorrebbero far parte. Alcuni possono trasformarsi in «lupi solitari», terroristi che si auto-indottrinano, cercano di realizzare ordigni con elementi reperibili sul mercato civile e passano alla fase operativa. Quello che è avvenuto con le bombe alla maratona di Boston. Proprio questo tipo di ordigni, realizzati con polvere nera e pentole a pressione nella cucina di casa, sono consigliati dall’Isis ai propri simpatizzanti in Occidente. Il capo della polizia di New York, Bill Bratton, ha affermato che il movimento, attraverso i forum su Internet, ha invitato i seguaci a colpire luoghi turistici. Tra questi Times Square, uno dei luoghi simbolo della città. È evidente che la minaccia è seria, ma al tempo stesso la copertura dedicata a quello che «potrebbero» fare i terroristi rischia di favorire il piano del Califfo.


Un altro fotogramma tratto dal video

 

REPUBBLICA - Renzo Guolo: "La strana allenanza contro il califfato"


Renzo Guolo

La coalizione dei venticinque contro lo Stato Islamico, che ha fatto la sua prima uscita al vertice di Parigi lunedì, ha un evidente lato debole: quello rappresentato dal lato sunnita dell’alleanza. Ciascuno dei Paesi della Mezzaluna che vi aderisce, ritiene la creatura di Al Baghdadi una minaccia da debellare ma entra nella coalizione con obiettivi che possono indebolirne la coesione. I sauditi, che con i jihadisti hanno a lungo flirtato in funzione di opposizione all’asse sciita, sono consapevoli che la proclamazione del Califfato mette in discussione innanzitutto la loro rivendicata leadership religiosa sul mondo islamico. E, dunque, hanno un oggettivo interesse a combatterlo. Anche arginando i flussi di denaro che attraverso donazioni di privati e “ong” sono affluiti nelle ricche casse dell’organizzazione del Califfo nero. Non per questo rinunciano a perseguire una strategia che metta in difficoltà gli odiati sciiti, peraltro al governo a Bagdad e, nella loro propaggine iraniana e libanese, unici stivali sul terreno impegnati a contenere le bande jihadiste. I turchi continuano a voler rovesciare Assad e dare profondità strategica alla loro svolta neottomana ma vedono come fumo negli occhi il rafforzamento di un Kurdistan armato e, di fatto, indipendente nel nord dell’Iraq, destinato a fare da magnete per i curdi turchi; inoltre il governo di Ankara simpatizza con i Fratelli Musulmani siriani, osteggiati da sauditi e egiziani. La strategia islamonazionalista di Erdogan, pur sempre alla guida di un Paese Nato, è visibile anche nella scelta di concedere agli americani l’uso della base di Incirlik per operazioni umanitarie ma non militari, obbligando i top gun a stelle e strisce a trasferirsi in Iraq. I qatarini, impegnati in uno duro scontro con i sauditi nel Consiglio di Cooperazione del Golfo per il loro sostegno ai Fratelli Musulmani, intendono evitare che la campagna mesopotamica rafforzi il ruolo di Ryad nella regione. Quanto agli egiziani, invisi ai turchi ma forti dell’alleanza con i sauditi, sono decisi a cogliere l’occasione per mettere fuori gioco qualsiasi organizzazione islamista, anche quelle non jihadiste come i Fratelli Musulmani, già schiacciati in riva al Nilo. Quando sarà il momento di scegliere chi finanziare, chi sostene- re, queste differenze emergeranno clamorosamente. Vi sono, poi, altri nodi che non si possono sciogliere gordianamente. Per essere sconfitto lo Stato Islamico deve essere battuto su due fronti, iracheno e siriano. In Iraq la coalizione punta sulla capacità inclusiva del nuovo governo. Ma l’esecutivo di Bagdad resta pur sempre dominato da sciiti che guardano con diffidenza al ruolo dei sunniti locali e, soprattutto, a quello del loro sponsor regionale. Nessuna scelta che possa mettere in discussione il ruolo degli sciiti nella regione, e dunque anche degli iraniani, verrà fatta dal governo di Bagdad. Ma questa opzione confligge con la strategia dei sauditi. In Siria viene privilegiata l’opposizione non islamista, la stessa che solo qualche mese fa la Casa Bianca dipingeva come un coacervo di litigiosi “commercianti e farmacisti” destinato alla sconfitta. Ma se sauditi e egiziani premono perché la Fratellanza sia esclusa da ogni aiuto, turchi e qatarini la sosterranno, riproponendo quelle divisioni sul terreno che hanno contribuito alla mancata caduta di Assad. Quanto all’annunciata campagna di bombardamenti è stata, prevedibilmente, denunciata da Damasco e dagli iraniani, oltre che dai russi, che formalmente della coalizione vasta fanno parte ma invocano l’ombrello del Consiglio di Sicurezza per far sentire il loro peso, come un’aggressione. I raid contro l’Is potrebbero essere accettati dagli alleati della Siria solo se la contropartita è l’abbandono della pregiudiziale anti-Assad, invece ribadita da Obama. Anche perché il contenimento sul campo dello Stato Islamico, almeno sino a oggi, è opera, oltre che dei curdi, del regime siriano, degli Hezbollah libanesi e dell’Iran. Non ci sarà nessun cedimento su Assad se un inconfessabile scambio politico non prevederà l’uscita di scena dell’autocrate alauita all’interno della più complessa partita del riconoscimento del ruolo di potenza regionale iraniano, visto come il diavolo dai wahhabiti di Ryad. Nell’impazzito puzzle mediorientale, la tessera problematica è, dunque, data dal fatto che l’alleanza contro lo Stato Islamico è formata da governi, e dai loro sponsor regionali, reciprocamente ostili. Chi vorrà ignorarlo, in nome del principio di realpolitik “il nemico del mio nemico è mio amico”, rischia di trovarsi poi di fronte a amare sorprese.

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