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Il Giornale - L'Unità Rassegna Stampa
25.07.2014 Finisce la presidenza di Shimon Peres, inizia quella di Reuven Rivlin
Analisi di Fiamma Nirenstein, David Meghnagi

Testata:Il Giornale - L'Unità
Autore: Fiamma Nirenstein - David Meghnagi
Titolo: «Arrivederci a Peres presidente di pace. Inizia l'era di Rivlin - Shimon Peres, che voleva la pace e non una tregua»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 25/07/2014, a pag. 12, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo "Arrivederci a Peres presidente di pace. Inizia l'era di Rivlin" e dall'UNITA', a pag. 6, l'articolo di David Meghnagi dal titolo " Shimon Peres, che voleva la pace e non una tregua" .

Di seguito, gli articoli:
President Shimon Peres and his would-be successor Reuven Rivlin in the Knesset in 2011 (Photo credit: GPO/Amos Ben Gershom/Flash90)
Shimon Peres e Reuven Rivlin


Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein:  " Arrivederci a Peres presidente di pace. Inizia l'era di Rivlin"


Fiamma Nirenstein


Arrivederci Shimon Peres, grande propulsore della pace sempre in tempo di guerra, ragazzo e monumento di 91 anni, che ieri è uscito dal modesto palazzo gerusalemitano del presidente della Repubblica concludendo il settenato. Il discorso di addio era pieno di echi della guerra che assedia le mura della Knessset, tutto il contrario di ciò che egli avrebbe voluto. Perché mai, ha chiesto quasi costretto, mentre disegnava in modo elegante, classico, la sua vita e la sua visione del mondo di sionista socialista, perché, ha detto come un bambino che d'improvviso veda crollare la sua torre di dadi colorati, ci sparano da Gaza, quando l'abbiamo sgomberata fino all'ultimo israeliano, fino all'ultimo soldato, perché ci odiano? Con tanto lavoro, pure a questo Peres non ha trovato risposta. Alla Knesset, duante la cerimonia quieta mentre fuori tuonano i cannoni, Peres ha dato il benvenuto a Reuben Rivlin, nuovo presidente. Ha riempito la sala dei suoi ricordi di ragazzino bielorusso di 11 anni, quando nel kibbutz socialista Alumot era un pastore. Là si formò la sua fedeltà a quella terra arida, a farla fiorire, a difenderla dall'aggressione araba. Peres ha parlato del miracolo di costruire la forza, la cultura, la tradizione di un Paese nuovo dopo la Shoah, uno sforzo sovrumano. Ha vissuto tutte le avventure possibili di Israele, diventando un simbolo universale di pace. Ma è anche l'uomo che ha organizzato per Ben Gurion la costruzione dell'impianto di Dimona, che ha diretto il ministero della Difesa, che ha promosso le migliori tecnologie; l'uomo che ieri ha attaccato il consiglio per i diritti umani chiedendogli come si fa a sostenere i «diritti degli assassini» contro quelli «di noi che vogliamo soltanto sopravvivere». Ha coperto tutti i compiti possibili, ministro, primo ministro, presidente. Il suo sforzo di promuovere il processo di pace a tutti i costi, il suo Nobel per la Pace insieme a Rabin e Arafat sono sembrati uno sberleffo della storia. Ma Peres, spesso in contrasto col suo primo ministro Netanyahu, gli ha fornito un magnifico ambasciatore di Israele da vero patriota. Ieri ha detto che adesso resta un «semplice cittadino» «innamorato di Israele». Alla seconda definizione possiamo credere, la prima non è vera. Sentiremo ancora parlare di lui.

L'UNITA' - David Meghnagi:  "Shimon Peres, che voleva la pace e non una tregua "


David Meghnagi

Gli ultimi giorni della sua presidenza Shimon Peres gli ha tarscorsi visitando le famiglie dei caduti, abbracciando le madri dei soldati, partecipando personalmente al lutto, seduto accanto ai genitori, in stanze "disadorne", come prescrive il rituale ebraico della Shibbah. In un Paese dove ogni persona che abbia un minimo di dignità, anche se contrario alla politica del suo governo, compie il servizio militare e fino ai quaranta è richiamato per quaranta giorni, i soldati sono i figli più cari, spesso i migliori, che compiono il loro dovere anche quando potrebbero evitarlo, sacrificando la loro vita per gli altri. A differenza che in altri Paesi anche democratici, in Israele non si finisce di fronte a una corte marziale se non si vuole vestire la divisa. La possibilità di evitare il servizio militare è molto ampia. Al punto che di recente si è dovuto introdurre per legge l'obbligo di un contributo alla difesa anche alle persone che per motivi religiosi hanno sino ad ora fruito del privilegio di essere esonerati dal servizio militare. Visitare le famiglie dei caduti non è solo un atto politico. E un atto morale dovuto, frutto di un sentire comune in un Paese tragico dove ogni madre convive con l'angoscia di dover essere lei a dare sepoltura ai figli e non viceversa, come dovrebbe essere in un mondo normale. Il gesto di Peres che abbraccia una madre in pianto e piange con lei per il figlio caduto non ha nulla di retorico. È anche il pianto di "un nonno" della nazione, piegato dal dolore che vede allontanarsi l'idea per cui ha maggiormente creduto e lottato negli ultimi tre decenni: la possibilità di una composizione politica del conflitto che oppone arabi e israeliani. Ideatore degli accordi di Oslo, tragicamente falliti, è anche colui che più di ogni altro ha fatto per lo sviluppo dell'industria israeliana degli armamenti e per la creazione del reattore nucleare di Dimona. Alla Luiss, dove negli anni Novanta gli fu consegnata la laurea honoris causa, invece di parlare del conflitto e della pace e dei futuri confini, citando Freud, parlò d'informatica e di bit, di robotica, di nanotecnologie. Rappresentante di una generazione che ha contribuito in modo decisivo alla nascita dello Stato, Peres incarna col pensiero e con l'azione una complessità irrisolta che nonostante le impossibilità cumulative, cui è andata incontro, non ha mai cessato di misurarsi con le sfide poste dal futuro. Il "pacifismo" di Peres, come del resto per i grandi scrittori israeliani, è la ricerca di una pace possibile e sostenibile in un'area del mondo segnata da un secolo di guerre. Dove è in gioco la sopravvivenza della nazione intera. Un'idea di pace consapevole dei rischi e dei pericoli. In molti guardarono illusoriamente al ritiro dal Libano come al ritorno di una condizione che avrebbe restituito a Israele il diritto di reagire in caso di attacco. Le cose si sono poi rivelate molto più complesse e difficili. Nonostante il diritto a reagire, nello scontro con Hezbollah prima e con Hamas dopo, gli israeliani sono diventati "colpevoli" per il fatto di difendersi contro un nemico che lancia indiscriminatamente missili contro i civili, utilizzando le popolazioni civili come scudi umani. Un accordo politico in realtà funziona se prevede gli esiti conclusivi. Se gli aspetti fondamentali di un contenzioso restano fuori dall'accordo generale, rimandati a una situazione successiva, il rischio è che gli accordi implodano, come è successo per gli accordi di Oslo, prima ancora di avere dato i risultati promessi. Per giungere alla pace non basta avere siglato accordi che definiscano i confini presenti e futuri. Ci vuole una visione condivisa del presente e del futuro che faccia da sfondo per il recupero del passato. Altrimenti rischia di essere solo una "hudna" coranica, una tregua per attaccare poi da posizioni più vantaggiose, come teorizzò Arafat all'indomani della firma di Oslo in una moschea a Sidney. Per utilizzare un'immagine di Amos Oz, israeliani e palestinesi sono condannati come divorziati a dividersi i pochi spazi a disposizione. Tocca alla cultura preparare il terreno, ma è la politica a doverne fissare i termini. Quanto allo Shalom biblico, cui aneliamo, è un'altra cosa. Appartiene a una condizione interiore dello spirito, a un qualcosa che há a che vedere con l'utopia messianica e non con la realtà della storia e della politica

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