domenica 19 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Corriere della Sera - Il Foglio - Italia Oggi Rassegna Stampa
19.06.2014 Iraq: la strategia dello 'Stato islamico'
Reportage di Lorenzo Cremonesi, analisi di Mattia Ferraresi, Domenico Quirico

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - Italia Oggi
Autore: Lorenzo Cremonesi - Guido Olimpio - Mattia Ferraresi - Francesco Amicone
Titolo: «Assalto alla raffineria - I jihadisti hanno le liste, se c'è il tuo nome, ti sparano - Quei 30 dell'Isis: la rete in Italia -La trimestrale dello Stato islamico - Bin Laden sembra un dilettante rispetto agli eserciti mossi da Isil»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/06/2014, a pag. 14, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo "Assalto alla raffineria. Da Bagdad forze speciali. E' guerra per il petrolio", a pag. 15 l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo "I jihadisti hanno le liste, se c'è il tuo nome, ti sparano" e l'articolo di Guido Olimpio dal titolo "Quei 30 dell'Isis: la rete in Italia".
Dal FOGLIO, a pag. 1, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo "La trimestrale dello Stato islamico" e da ITALIA OGGI l'intervista di Francesco Amicone a Domenico Quirico, ripresa dal sito TEMPI.IT , dal titolo "Bin Laden sembra un dilettante rispetto agli eserciti mossi da Isil"

ISIL raids Turkish consulate in Mosul, kidnaps 49 with consul
Terroristi dello 'Stato islamico'

Di seguito, gli articoli:

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi -  Assalto alla raffineria. Da Bagdad forze speciali. E' guerra per il petrolio


Lorenzo Cremonesi

ERBIL Melanconico e paradossale il ritorno delle code di auto ai benzinai. Accadeva ai tempi della guerra del 1991 e dopo l'attacco anglo-americano del 2003. Ma per gli iracheni l'incubo della crisi energetica pareva ormai una cosa del passato, da dimenticare con il nuovo benessere. E invece l'intensificarsi dei combattimenti nell'ultima settimana ha gradualmente riproposto scenari tristemente noti. Ieri a Erbil, nel cuore delle zone curde, le file di auto alle pompe di benzina erano sorvegliate con attenzione dalla polizia. Le autorità hanno già dichiarato che chiunque venga preso a vendere sul mercato nero subirà multe salatissime e sei mesi di carcere. Stessa scena a Bagdad, dove però il mercato nero già fiorisce indisturbato e il caos interno non vede alcuna contromisura di polizia. Specie nel nord della capitale, può essere necessario attendere sei ore prima di poter fare il pieno. E molti benzinai segnalano il tutto esaurito. Uno dei problemi più gravi per gli sfollati che fuggono dalle zone di combattimento a Tikrit, Baqouba e Tel Afar è proprio la carenza di carburante. Presso Mosul i ragazzini vendono un litro di benzina per 3.000 dinari, contro i 500 ufficiali. A fare precipitare la situazione è stato l'attacco delle milizie sunnite contro la raffineria di Baiji, circa 250 chilometri a nord della capitale e considerata tra le più grandi del Paese. Dopo una lunga serie di notizie contraddittorie negli ultimi tre giorni, ieri le milizie sunnite hanno diffuso diversi video dei loro guerriglieri tra le strutture della raffineria. A Bagdad i, portavoce del governo di Nouri al Maliki negano, dal posto confermano però la fuga di tecnici, operai e soldati dal perimetro dell'impianto. Ma la zona resta contesa e al centro di feroci combattimenti. Nel pomeriggio sono arrivate le teste di cuoio, il flor flore delle milizie sciite. Maliki chiede ufficialmente l'intervento dell'aviazione americana e contemporaneamente annuncia in tv che la vittoria è vicina. «Abbiamo iniziato la controffensiva. Daremo una dura lezione ai nostri nemici», continua il premier aggiungendo che le truppe del suo governo starebbero riprendendo anche la cittadina di Tel Afar. Baiji resta comunque ferma e le conseguenze sono catastrofiche per questo che è potenzialmente il quinto Paese produttore di greggio al mondo. Baiji raffina oltre un quarto del fabbisogno quotidiano nazionale, pari a circa 170.000 barili di benzina e prodotti affini. Al ministero dell'Energia hanno già avvisato che i danni causati nell'ultima settimana obbligheranno ad importare circa 300.000 barili al giorno per fare fronte alla domanda interna. Davvero assurdo: dal nord al sud i giacimenti attuali si stima contengano 140 miliardi di barili di greggio, capaci di generare ricchezza per almeno 158 anni. Oro nero gettato alle ortiche. Il ministero del Petrolio ultimamente aveva tentato di riprendere la produzione a pieno regime. Nel 2002, sotto il giogo delle sanzioni internazionali, le quote neppure arrivavano alla media di 1,5 milioni di barili al giorno. Oleodotti rugginosi, sfiducia delle «Sette Sorelle», mancanza di tecnici erano tra i fattori principali che rallentavano la ripresa La terrificante guerra settaria tra sciiti e sunniti del 2005-7 aveva contribuito al blocco. Ma poi Maliki aveva puntato sulla ripresa. A Bagdad si sognava di arrivare a vendere 13 milioni di barili al giorno, sollevando l'inquietudine dell'Opec e soprattutto di Arabia Saudita e Kuwait. Con il tempo quegli obbiettivi si sono rivelati utopici. Pure, nel 2013 le quote sono arrivate a una media giomaliera di 2,4 milioni, che ha garantito alle casse dello Stato 89 miliardi di dollari. E lo scorso febbraio veniva annunciato il risultato di 2,8 milioni quotidiani, con la speranza di arrivare a 3,4 entro la fine del 2014. Cresceva certo il risentimento verso i curdi, che intanto avevano aperto il loro oleodotto diretto con la Turchia e già vendevano 400.000 barili quotidiani, tutto sommato però la ricchezza della produzione dei pozzi nel sud prometteva bene. Ma adesso sono proprio le immagini dei militanti sunniti che cantano vittoria brandendo i Kalashnikov sullo sfondo dei giganteschi container di Baiji a gettare una pesante ipoteca sull'industria petrolifera. Per ora non vengono toccati i pozzi dell'Eni a Kurna, tra Bassora e Nassiriya. Tuttavia BP, Exxon Mobil, Shell e altre compagnie straniere stanno pianificando la partenza dei loro tecnici dal sud del Paese. Anche per il gigante italiano potrebbe arrivare il momento di compiere passi simili.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi - I jihadisti hanno le liste, se c'è il tuo nome, ti sparano

Stanchi, assetati, disorientati, tanti tra gli sfollati che fuggono le zone dei combattimenti verso nord letteralmente non sanno più dove andare. Se ne incontra un rivolo incessante sulla strada che dalla regione curda di Erbil conduce verso Mosul, in questo momento la città più importante caduta nelle mani della rivolta sunnita. Le loro storie sono diverse di caso in caso, talvolta contraddittorie. Ma una narrativa ha il sopravvento: per lo più non fuggono per timore dei gruppuscoli fondamentalisti legati allo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante, ma piuttosto paventano di restare coinvolti nell'offensiva lanciata dall'esercito del premier sciita Nouri al Maliki. «I miliziani sunniti sono arrivati a Mosul. Ma a noi civili quasi non ci guardano. Sono a caccia della polizia e del regime. Il fatto positivo è che finalmente hanno tolto quei maledetti posti di blocco militari che da anni ci avvelenavano la vita», racconta Abbas Thamer, un operaio 31enne arrivato tra le poche tende di Khazer, il piccolo campo organizzato dall'Onu e diverse associazioni non governative a metà strada tra Mosul ed Erbil, ma già nelle regione controllata dai peshmerga, la forza militare dell'enclave autonoma curda. Marzio Babille, responsabile di Unicef (l'agenzia Onu per l'infanzia) al momento nelle zone curde, ricorda che gli sfollati «dovrebbero essere poco meno di 500.000» nel settentrione iracheno. «Si muovono in continuazione, cercano di evitare si stare nei campi. Difficile censirli», specifica. I più spaventati visti ieri pomeriggio arrivavano diretti da Tel Afar, la città tra Mosul e il confine siriano, persa dai governativi tre giorni fa e dove adesso infuria la battaglia. «Il problema maggiore è rappresentato dai bombardamenti aerei Le bombe cadono anche nel centro della zona urbana, non si può viaggiare. Forti scontri avvengono nella zona dell'aeroporto. Le forze di Dash (come qui chiamano gli estremisti sunniti che operano anche in Siria, ndr.) sono asserragliati tra le case. Ma l'aviazione di Maliki spara in modo indiscriminato. lo ho nove figli. Con mia moglie abbiamo preferito prendere il nostro furgone e fuggire», spiega Mohammad Abbas, 4o anni, mostrando l'interno del veicolo gremito di bambini piccoli. Valige, coperte, bottiglie d'acqua donate dall'Unicef e riserve di cibo legate nel bagagliaio e alla rinfusa sul tetto. 11 caldo del pomeriggio trasforma l'abitacolo in un forno. Diversa però è la storia di Ahmad Youssef Farraj, poliziotto zgenne dagli occhi ancora dilatati dalla paura «I terroristi sunniti sono ben armati e ancora meglio organizzati. Dispongono di liste con i nostri nomi. Hanno ucciso a sangue freddo due miei fratelli che erano militari. A un mio amico poliziotto hanno tagliato la testa per la strada. Ti fermano, controllano la tua carta di identità e se trovano il tuo nome ti sparano sul posto. Mia madre ha detto che erano venuti a casa nostra per catturarmi. Ho dovuto scappare nei campi per evitare le strade uscendo da Mosul. Ora la mia speranza è raggiungere l'aeroporto di Erbil e prendere l'aereo per Bagdad. Via terra è impossibile». Una famiglia di turcomanni racconta di avere avuto esperienze molto diverse. Alcuni militanti sunniti avrebbero minacciato le ragazze che non indossano il velo. Ma altri, all'apparenza baathisti che richiamano le forze armate del vecchio regime di Saddam Hussein, hanno messo uomini di sentinella alle chiese. Sembra stiano anche cercando di regolare la carenza di benzina: ogni automobilista ha diritto a so litri. Alcuni parlano di uffici pubblici e scuole aperte. Ma altri denunciano rapine alle banche e la totale impunità per i gruppi di ragazzi armati, più ladroni che rivoluzionari.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio -  Quei 30 dell'Isis: la rete in Italia 


Guido Olimpio


Trenta volontari sono partiti dall'Italia per  unirsi ai ribelli in Siria. E otto di loro sono morti negli scontri contro il regime di Damasco. Tra loro il convertito genovese Giuliano Delnevo. I numeri forniti dal ministro dell'Interno Aifano sono solo un segmento di un fenomeno più ampio che coinvolge alcune aree del nostro Paese, specie nel nord. L'Europol ha stimato in oltre 3 mila i jihadisti arrivati in territorio siriano dal nostro continente, porzione di un movimento a livello planetario. Sono infatti dozzine le nazionalità rappresentate nello schieramento islamista che si oppone a Assad. Trecento i tedeschi, cinquecento i britannici. Poche settimane fa la notizia dell'attacco suicida condotto da un americano. Un giovane di origine palestinese cresciuto in Florida e trasformatisi in «martire» della rivoluzione. In un'operazione parallela ha agito un maldiviano. E potremmo continuare all'infinito citando francesi, lussemburghesi, scandinavi o chi volete voi. Finché i combattenti restano in Siria o in Iraq il problema è relativo. I guai — secondo le analisi dei servizi di sicurezza occidentali —possóno nascere se i militanti rientrano in patria con brutte intenzioni. La maggior parte ha come obiettivo i regimi arabi, però non trattandosi di una realtà coesa c'è spazio per chi è pronto a colpire anche in Europa. Uno scenario che si è già materializzato in Belgio. Un estremista dell'Isis, la fazione che agisce tra Siria e Iraq, ha ucciso 4 persone nel museo ebraico di Bruxelles. Probabilmente un'iniziativa solitaria ma letale. In questi mesi le polizie dell'Unione europea non si sono stancate di sottolineare il pericolo, rappresentato da elementi con ottimo addestramento, inseriti in una realtà internazionale. In Siria non solo si sono fatti le ossa come guerriglieri ma hanno stabilito rapporti che potrebbero diventare utili un giorno, nel caso vogliano cercare altri bersagli. Al tempo stesso tl grande flusso di aspiranti mujahedin offre agli 007 la possibilità di infiltrarsi in una filiera non sempre ermetica. E questo concede un piccolo vantaggio a chi deve monitorare la spola tra le aree di riposo o reclutamento e quelle dove agiscono.

Il FOGLIO - Mattia Ferraresi - La trimestrale dello Stato islamico


Mattia Ferraresi

New York. Ieri gli estremisti dell’Isis hanno conquistato la più grande raffineria dell’Iraq, a Baiji, a metà strada fra Mosul e Baghdad. La settimana scorsa i miliziani del gruppo sunnita che sta estendendo il suo controllo su vaste aree del paese hanno circondato l’impianto che rifornisce di prodotti petroliferi raffinati undici province irachene, e ieri mattina hanno piegato la resistenza delle guardie armate e dell’esercito iracheno, sostenuto anche dalle forze aeree. L’esercito offre una versione opposta degli eventi, sostendendo che la raffineria, obiettivo strategico cruciale nel contesto della guerriglia dell’Isis, “è sotto il controllo delle forze di sicurezza”. Tutte le notizie che arrivano dall’Iraq dicono il contrario. I lavoratori dell’impianto, compresi una cinquantina di stranieri impiegati da multinazionali occidentali, sono stati allontanati, alcune cirsterne sono in fiamme, molte guardie sono scappate o si sono arrese ai terroristi dell’Isis, che hanno fatto almeno 70 prigionieri fra gli uomini in divisa. L’Isis aveva già preso possesso della centrale elettrica della città, che dà energia a tutto il nord del paese, e ora completa l’opera strategica assicurandosi un gigante capace di raffinare i 310 mila barili di petrolio che vengono estratti nell’Iraq settentrionale. La presa di Baiji è parte di una strategia di finanziamento della macchina terroristica che l’Isis sta implementando con precisione industriale. Quando i terroristi sunniti hanno imposto le loro insegne nere su Mosul commettendo violenze indicibili hanno contemporanemante svuotato la banca centrale della città, impossessandosi dell’equivalente di 425 milioni di dollari. L’International Business Times dice che hanno preso anche una quantità imprecisata di lingotti d’oro, diventando nel giro di poche ore “la forza terroristica più ricca del mondo”. Questo senza contare i mezzi e le armi – molte di fabbricazione americana – che sono stati sequestrati all’esercito regolare che si è disperso sotto i colpi del gruppo sunnita. La cura con cui l’Isis si sta occupando di racimolare fondi e materie prime non deve stupire. Da almeno due anni, e forse anche di più, Isis pubblica “al Naba”, “il report”, minuto resoconto annuale delle attività del gruppo terroristico: città conquistate, numero di martiri, attacchi suicidi, prigionieri, operazioni di varia natura, territori controllati, infedeli convertiti, combattenti arruolati, mezzi a disposizione e strategie finanziarie. Al Naba è l’incrocio fra una review strategica e la trimestrale di un’azienda, con tanto di grafici e schemi riassuntivi. Nigel Inkster, ex funzionaro dei servizi segreti inglesi, ha detto al Financial Times: “Producono report quasi come fossero un’azienda, se ne deduce la struttura, la pianficazione e la strategia”. Secondo il documento, nel 2013 Isis ha condotto 10 mila operazioni, fra cui un migliaio di esecuzioni o incursioni mirate e almeno 4 mila ordigni esplosivi contro sciiti e soldati regolari; il dettaglio delle vittime non è specificato, ma non è difficile intuire che che Isis è responsabile di una parte consistente degli 8 mila civili uccisi lo scorso anno in Iraq. Alla fine dell’anno Isis poteva contare su 15 mila guerriglieri, 12 mila dei quali non vengono nè dall’Iraq né dalla Siria, e un fondo cassa di oltre 13 milioni di dollari. Il primo ministro iracheno, Nouri al Maliki, accusa l’Arabia Saudita di finanziare il gruppo, ma stando ad al Naba i sostegni finanziari arrivano dai furti e dalle fonti di risorse conquistate (come la raffineria di Baiji) affiancate da rapimenti, estorsioni, racket, traffici illeciti e altre tattiche “più comunemente associate alla mafia che all’estremismo islamico”, come ha scritto Yochi Dreazen sulla rivista Foreign Policy. A Mosul i militanti di Isis hanno messo in piedi una rete di estorsioni e gabelle; nella città siriana di Tal Abyad controllano raffinerie e contrabbandano gasolio in Turchia, con affari da decine di milioni di dollari al mese; impongono pedaggi sui servizi nei territori controllati. Questa “mafia-jihad” permette al gruppo di essere economicamente indipendente dai grandi finanziatori dei paesi del Golfo che sponsorizzano il terrorismo sunnita. “Una parte dei fondi arriva dall’estero, ma non è nulla in confronto al loro sistema di autofinanziamento”, ha detto un funzionario del controterrorismo americano a Foreign Policy. E i finanziatori esteri più attivi al momento provengono dalla Malesia e dall’Indonesia più che dalla galassia saudita. Che il business model terroristico stia funzionando lo dimostrano le armi e gli equipaggiamenti avanzati che i terroristi hanno a dispozione, messi in bella mostra nei video di propaganda con immagini di alta qualità rispetto alla produzione jihadista classica e molto spesso creati per un’audience occidentale. Jessica Lewis, direttore dell Institute for the Study of War, spiega che “l’organizzazione si muove come un esercito e ha ambizioni di costruire uno stato”. Le tecniche mafiose non sono estranee al fondamentalismo islamico, piuttosto fanno leva su interpretazioni della sharia che permettono di impiegare il “bottino di guerra” per finanziare la guerra santa. Si tratta di trovare un accordo sulla definizione di “bottino di guerra”. Il giurista arabo Ahmad ibn Naqib al Misri nel testo classico “La fiducia del viaggiatore” spiega che le risorse sottratte a un nemico ucciso in battaglia possono essere legittimamente usate per la causa islamica; ai non musulmani si possono imporre gabelle per qualunque scopo, mentre un musulmano può essere tassato per finanziare il jihad. Al Misri elenca fra le forme legittime di finanziamento anche il riscatto per un rapimento e l’estorsione, pratica documentata anche in ambito sciita, fra i miliziani di Hezbollah.

ITALIA OGGI - Francesco Amicone - Laden sembra un dilettante rispetto agli eserciti mossi da Isil 


Domenico Quirico

«E' terribile e pericolosa l'avanzata verso Baghdad dei jihadisti dell'Isil (Stato islamico dell'Iraq e del Levante). Dimostrano di essere realmente capaci di instaurare il califfato islamico, un vero e proprio stato al centro del Medio Oriente», osserva Domenico Quirico, reporter della Stampa. Quirico è stato, per 125 giorni, nelle mani dei fanatici islamici con la bandiera nera in Siria, gli stessi che, avanzando dal nord dell'Iraq, ora si trovano quasi alle porte della capitale. Quirico spiega che le preoccupazioni dell'Occidente non dovrebbero venire dal «rimescolamento iracheno ma dalla saldatura jihadista tra Siria e Iraq, conseguenza della guerra siriana».
Domanda. Quirico, lei è convinto che i jihadisti dell'Isil siano realmente in grado di mantenere il controllo del territorio che stanno conquistando a nord dell'Iraq? Risposta. Sì. Hanno dimostrato che il loro è un progetto assai serio. Il califfato non è il frutto della visione di un imam svitato che arringa in una moschea, ma una strategia che l'Occidente non riesce a capire. Da una parte è la creazione di un vero e proprio stato fondato sulle regole dell'islam più radicale, dall'altra una base logistica per sfidare gli stati islamici confinanti (che loro definiscono traditori) e poi affrontare l'Occidente. Non hanno paura del confronto militare diretto e confermano di avere anche la capacità di porci una sfida globale.
D. Sfida globale? Il territorio controllato dai jihadisti è pur sempre uno spicchio di terra.
R. Esiste un progetto globale che muove l'islam radicale. La sfida è globale perché non è lanciata solo dall'Isil ma da tutti gli affiliati jihadisti in grado di muoversi e combattere dal Sub-Sahara alla Mesopotamia. Sono stati capaci di conquistare Timbuctu, a migliaia di chilometri dall'Iraq. Ora assediano la capitale di uno stato che possiede un esercito regolare, ben equipaggiato.
D. Si pub ancora parlare di terroristi di Al Qaeda?
R. Ormai siamo di fronte a un pericolo completamente diverso. Non è più l'Al Qaeda di Bin Laden. Quella era una rete di terrorismo sparsa sul pianeta. Bin Laden era sempre ospite di qualche paese, in Afghanistan, in Pakistan. Contrattava con i governi, dipendeva da loro. Il livello di sfida di quella rete terroristica riguardava polizie, questure. La nuova Al Qaeda, per così dire, ha alzato il livello del confronto e i suoi obiettivi. Non siamo più di fronte a cellule di terroristi, clan, brigate, ma a eserciti che si muovono dal Sahara alla Mesopotamia.
D. Quando è avvenuta questa trasformazione?
R. Già due anni fa, nel mio libro sulle primavere arabe, spiegai (non come storico o analista, ma come giornalista che ha avuto testimonianze dirette) che Al Qaeda fosse pronta a usare le rivoluzioni contro i tiranni per trasformare le proprie strategie. Purtroppo l'Occidente ha ignorato il pericolo, perché sottovaluta i jihadisti.
D. Li sottovaluta?
R. Non li capisce. Non riesce a comprendere che loro non hanno interessi economici o politici. A muovere la storia infatti non c'è solo questo: c'è anche la religione. I jihadisti, con la loro bandiera nera, seguono gli ordini di un Dio crudele, sanguinario, battagliero. Bisogna rendersi conto di questo. Purtroppo gli occidentali, e gli americani per primi, non vogliono rendersene conto. Dovunque siano andati, in questi anni, si sono limitati a insediare i loro maggiordomi, senza pensare alle conseguenze. Gli americani si affidano alle persone sbagliate, per calcolo, per interessi, ignorando il disordine che creano. E inevitabile che a quel disordine qualcuno porrà rimedio. E in Iraq ci stanno pensando proprio i jihadisti.
Tempi.it

Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera, Foglio e Italia Oggi, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it
lettere@ilfoglio.it
italiaoggi@class.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT