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La Stampa-Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.02.2013 Tunisia: la seconda primavera araba non verrà
Cronache e Commenti di Domenico Quirico, Lorenzo Cremonesi

Testata:La Stampa-Corriere della Sera
Autore: Domenico Quirico-Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Fra lacrimogeni e preghiere la Tunisia seppellisce Balaid e la sua Primavera-Noi islamici non siamo diavoli. E quei laici non sono martiri»

Sulla situazione in Tunisia, riprendiamo oggi, 09/02/2013,  dalla STAMPA l'articolo di Domenico Quirico, a pag.12 e dal CORRIERE della SERA l'intervista a Rashid Ghannouchi di Lorenzo Cremonesi a pag.16

La Stampa-Domenico Quirico: " Fra lacrimogeni e preghiere la Tunisia seppellisce Balaid e la sua Primavera"

Funerali d Chokrii Belaid                      Domenico Quirico                    

Dal nostro inviato:
Lo sanno tutti che razza di egoisti sono i morti. Non ci sono che loro al mondo, tutti gli altri non contano. Vogliono che siamo lì, ai loro ordini, ci obbligano a ricordare che cosa hanno fatto e perché sono morti. Provatevi a dir no a un morto, vi si rivolterà contro come un cane arrabbiato, e vi morderà e vi strapperà le vesti. I regimi polizieschi, le tirannidi dovrebbero chiuderli nelle casse con i ferri ai polsi, quelli che hanno ammazzato, e far seguire i funerali dai loro sgherri per proteggersi dalla rabbia di quei cadaveri: perché hanno una forza terribile, i morti, e possono spezzare i ferri, e rompere la cassa e buttarsi fuori a gridare chi sono: ad accusare, e presentare il conto.

A questo pensavo seguendo il corteo, immenso, che ha accompagnato al cimitero Chokri Belaid, oppositore tunisino, rivoluzionario comunista, ammazzato da un sicario due anni dopo una sfiorita Primavera. L’ho seguito per i due chilometri che separano la casa del padre, nel povero quartiere di Jebel Jelloud, dal grande cimitero sulla collina dietro l’ospedale militare. Era all’inizio solo una folla povera e smunta che seguiva la bara piangendo e imprecando, e le donne si strappavano i capelli, si ficcavano le unghie nel viso e alzavano gli occhi al cielo ululando. Tante: le donne non possono seguire i funerali dentro il cimitero, ma ieri era un funerale speciale.

Dalle case gli altri si affacciavano agitando le braccia e gridando ed era tutto un piangere e un maledire il partito islamista e il suo capo, Ghannouchi, il vecchio burattinaio. Per questa gente non ci sono dubbi: è il fascismo islamico il mandante del delitto. «Ghannouchi assassino». Tutti piangevano perché in Tunisia un lutto è un lutto comune; non di uno, di pochi o di molti, ma di tutti, e il dolore di ciascuno è il dolore di tutta la città. Non c’è dolore privato a Jebel Jellud, la montagna delle pelli, né miseria privata, tutti soffrono e piangono l’uno per l’altro e non c’è angoscia disastro fame delitto che questo popolo buono, infelice e generoso non consideri un comune patrimonio di lacrime.

Il quartiere dove Chokri Belaid è nato è un quartiere povero, le case sono piccole scatole di cemento a cui hanno aggiunto stanze e piani, spesso lasciati a metà con la fine dei soldi. Le strade, sotto la pioggia, erano torrenti di fango in cui il funerale sguazzava inzaccherandosi.

Non l’aveva mai vista una folla così alle manifestazioni del Fronte democratico, Chokri: quando si batteva contro Ben Ali né quando fustigava, con parole di fuoco, i «nuovi tiranni» di Ennahdha, la versione locale dell’islamismo conservatore che ha sfruttato le primavere arabe. C’erano le belle signore, le borghesi svelate, e le beghine che avevano votato il partito islamista, i soldati in alta uniforme e i teppisti di quartiere, gli avvocati in toga e gli «intermediari», i trafficanti che hanno trovato sotto Ennahdha una greppia come quella dell’età d’oro di Ben Ali. Non c’erano uomini del governo, né i barbuti, gli islamisti. Che i parenti avevano minacciato. Forse non sarebbe piaciuto, questo, a Chokri che diceva: «Possiamo vivere tutti insieme e piantare cento fiori e cento gelsomini».

Quanta gente per uno che aveva rimediato l’un per cento alle elezioni: per lui le bandiere tunisine e quelle con il pugno chiuso, l’Internazionale e l’inno nazionale. Il popolo è fatto così, riconosce tardi i suoi eroi. «Io non mi interesso di politica, non sono di nessun partito, ma da noi una cosa così non era mai accaduta, uno ucciso in strada, ucciso per le sue parole». L’uomo parlava e piangeva.

Come camminavano con eleganza in quei sudici vicoli, tra quella plebe miseranda, i borghesi tunisini, con la disinvoltura che hanno solo i ricchi nel Terzo mondo. Nessuno come loro può muoversi con tanta libera e sorridente grazia tra la gente sudicia e affamata, infelice. Non è colpa loro se i tunisini soffrono, era colpa di Ben Ali, e adesso di quei forsennati Ennhada. L’ipocrisia: un veleno sottile.

È stato un funerale con i lanci di lacrimogeni, la guerriglia, la gente che piangeva perfino nel cortile della moschea, e le auto bruciate a sporcare il cielo attorno al cimitero. Belaid avrebbe detto che la rivoluzione è una frittata che non si può fare se non spezzando le uova. Ma a lanciare pietre erano solo adolescenti la cui unica ideologia è il marchio (contraffatto) di Dolce&Gabbana: troppo poco per una rivoluzione.

Ieri a Tunisi si alternavano sole e raffiche violente di pioggia, «il matrimonio dei lupi», dicono gli arabi. Soffiava dal mare il chiaro vento di greco e un odore fresco di sale tagliava ogni tanto l’aria fetida dei vicoli. Hanno impiegato più di quattro ore per restituire pietosamente Chokri alla terra, lo hanno spremuto, esibito, esposto su un camion militare presidiato da soldati armati, quel povero cadavere assassinato. Il cimitero di Tunisi è una collina per metà verde e per metà bianca; è la parte delle tombe tutte eguali, che salgono e rodono quel che resta del bosco e avanzano verso il mausoleo di Sidi Bel Hassan, un santo vissuto tre secoli fa. Gli zeloti volevano cacciarlo via, lo ha difeso l’umile pietà della gente.

All’arrivo del corteo la folla in lunghe onde si allungava e si ritraeva, avvolta dal fumo dei lacrimogeni e delle auto incendiate. La bara si è arrampicata sulla collina, mille volte ha rischiato di rovesciarsi a terra sotto l’urto della gente, coloro che la reggevano erano ercoli ormai sfigurati e stravolti. Quando è sceso nella fossa è risuonato il grido «Allah è grande», e hanno recitato la fatiha, il primo versetto del Corano. Forse l’avrebbe voluto, anche se era ateo. Forse avrebbe amato di più un altro slogan: «Né Qatar, né Stati Uniti».

Dopo il funerale, in centro, ho capito perché quando ho chiesto a un amico che insegna all’università se ci sarebbe stata una seconda rivoluzione dopo il delitto, è scoppiato in un riso amaro: «Ma come è possibile se non abbiamo fatto nemmeno la prima?». Attorno al ministero dell’Interno gruppetti di ragazzini, i «casseur», cercavano di radunarsi, raccoglievano pietre insultavano i poliziotti. È osservando i poliziotti che capisci che nulla in Tunisia, in realtà, è cambiato. Sono gli stessi che si occupavano degli oppositori sotto Ben Ali, l’inchiesta sui morti del 2011 è rimasta vuota, non c’è stata riforma delle forze di sicurezza e della legislazione. Eppure gli islamisti erano le loro vittime di allora. Dopo una carica, hanno preso un ragazzino, quindici anni non di più. Un «casseur», forse. Ma lo hanno pestato per un centinaio di metri in tre, quattro: pugni in faccia, calci, bastonate, trascinandolo per i capelli come una bestia. Un ragazzino. Due anni fa nei giorni della Primavera, ho visto le stesse scene.

In strada sono andati solo i teppistelli delle banlieues, gli altri sonotornati a casa. Ora torna la politica con un primo ministro Jebali, islamista, che vuole dissolvere il governo contro il suo stesso partito per far spazio a «tecnici» (guidati sempre da lui): messinscena, «décor», i soliti piccoli maneggi, ancor più urtanti e buffoneschi. La seconda Primavera non verrà.

Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi:" Noi islamici non siamo diavoli. E quei laici non sono martiri"

Rashid Ghannouchi                      Lorenzo Cremonesi

DAL NOSTRO INVIATO
TUNISI — «Ghannouchi assassino, Ennahda ha ucciso il nostro leader», gridava la folla al funerale di Chokri Belaid. Lei signor Rachid Ghannouchi, leader di Ennahda, il partito religioso che domina la coalizione di governo, cosa risponde? «Che è una provocazione!», reagisce d'impeto senza nascondere un motto di stizza. Ma subito si ricompone. E, nell'ora di intervista, si dilunga in un'analisi volta anche a tener conto delle preoccupazioni europee per il degenerare delle «primavere arabe».
La moglie di Belaid la indica addirittura come diretto responsabile della sua morte.
«Prima di tutto voglio dire che condanno fermamente questo assassinio, senza riserve. Credo che i responsabili vadano cercati tra le forze controrivoluzionarie, magari aiutate da elementi mandati da potenze straniere interessate a boicottare la grande novità dell'esperimento democratico tunisino seguito alla caduta del dittatore Ben Ali due anni fa, che si basa sulla convivenza pacifica tra laici e islamici».
E quali sarebbero questi poteri occulti interessati a destabilizzare la Tunisia? Può indicarli con chiarezza?
«Preferisco non entrare nei dettagli. Però voi europei, specialmente i Paesi affacciati sul Mediterraneo, dovreste essere interessati alla stabilità della Tunisia. Se il nostro Paese cade ne baratro dello scontro interno anche voi ne fate le spese. Per questo motivo rifiuto le indebite ingerenze del ministro degli Esteri francese, il quale ha criticato le nostre componenti religiose per la morte di Belaid».
La Tunisia laica ritiene che Ennahda protegga e addirittura alimenti gli estremisti salafiti. Che ne pensa?
«Ci sono state anche vittime nel campo religioso. Non solo vittime del fronte laico. Coloro che cercano di destabilizzare il Paese non guardano in faccia a nessuno. La nostra polizia ha chiuso 500 salafiti in carcere. C'è chi semplifica troppo. Belaid viene ormai descritto come una sorta di santo martire per la difesa della laicità. E io come una specie di Satana che incarna il male assoluto».
Perché Belaid non è stato protetto dalla polizia quando ha denunciato più volte di essere minacciato di morte?
«Questa domanda va posta a polizia e ministro degli Interni, che milita in Ennahda è vero, ma prima di tutto rappresenta lo Stato. Se ci sono stati errori si aprirà un'inchiesta e qualcuno pagherà. Ma non va dimenticato che siamo ancora in un periodo di transizione. In Egitto, Libia, Siria, Yemen va molto peggio. Tutto sommato la Tunisia resta un'oasi di convivenza pacifica. Inoltre da noi resta in voga una diffusa cultura della protesta. La gente scende in piazza per nulla. Siamo passati dall'acquiescenza passiva che imperava ai tempi della dittatura alla mobilitazione iperattiva. Dobbiamo abituarci a vivere nel nuovo clima di libertà».
Le donne tunisine videro un grande momento di emancipazione ai tempi del vecchio presidente Bourguiba. Lo accetta?
«Alla fine lo abbiamo accettato. Ennahda non lo mette in dubbio. Lo so che gruppi di estremisti religiosi hanno cercato di imporre alle studentesse di coprirsi la testa. Ma fa parte del dibattito interno tra laici e religiosi. Non lo posso impedire, a meno che non emergano prove che vi è stata violenza».
E' in atto una guerra per l'identità della Tunisia?
«Direi piuttosto che assistiamo a una normale sfida per il controllo del potere, mascherata spesso sotto l'etichetta della guerra di civiltà tra islamici e laici».
Ennahda ha rifiutato l'iniziativa del premier Jebali di sciogliere il governo per elezioni anticipate. Il vostro partito appare diviso. Lei con chi sta?
«Ne dobbiamo discutere nelle prossime ore. Se messo in minoranza, Jebali forse dovrà dimettersi. Io devo ancora valutare. Si era previsto di completare la costituzione nelle prossime settimane e andare al voto entro la fine dell'estate».

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