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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
22.01.2013 A Diabaly, dove l'Occidente è riuscito a scacciare gli islamisti
reportage di Domenico Quirico, Massimo Alberizzi

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Domenico Quirico - Massimo Alberizzi
Titolo: «Mali, l’imam anti Al Qaeda che ha difeso la sua moschea - Diabaly, le macerie della battaglia»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 22/01/2013, a pag. 17, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Mali, l’imam anti Al Qaeda che ha difeso la sua moschea ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'articolo di Massimo Alberizzi dal titolo " Diabaly, le macerie della battaglia ".


Leggiamo in un articolo (che non riportiamo) pubblicato su Libero di oggi che Amnesty denuncia le violenze commesse dagli alleati di Parigi in Mali.
La cosa non stupisce. Amnesty è sempre attentissima a denunciare qualunque passo falso delle democrazie occidentali e altrettanto pronta a chiudere un occhio di fronte alle violazioni dei terroristi islamici.

 Ecco i pezzi:

La STAMPA - Domenico Quirico : " Mali, l’imam anti Al Qaeda che ha difeso la sua moschea "


Domenico Quirico

Anche coloro che sposano Dio possono adagiarsi nell’abitudine, è un matrimonio meschino come tutti gli altri. Non Kumina Kerou, il vecchio imam di Diabaly, città appena liberata dai jihadisti. Mi ha ricordato antichi parroci delle nostre campagne di un tempo, condannati alla fede da un giudice implacabile nello steso modo in cui un giudice condanna al carcere. Sono andato a trovarlo nella sua casa di fango secco. Le mogli e i figli fanno mucchio nel cortile, nel suo bel bubu azzurro li guarda seduto su una stuoia, aspetta il momento di andare per la seconda preghiera del giorno. Anche la sua moschea è fatta di fango secco; come per un miracolo lì le mosche non osano assalire. Mi dice, come se stesse consegnandomi un oggetto prezioso, che la mia visita lo rende verso di me un eterno debitore. Parliamo di Dio, di terre in cui i messia muoiono in carcere e risorgono dalla morte, in cui si dice che le mura crollano al tocco di unghie santificate da un po’ di polvere sacra. Martedì gli uomini della jihad, gli invasori della città, sono andati nella moschea, a pregare: c’era poca gente, gli uomini chiusi in casa per la paura, le donne tutte fuggite nei villaggi vicini dopo che i folli di Dio avevano cacciato a fucilate i soldati.

«Dopo il primo appello alla preghiera ho fatto una pausa, come è d’uso. Allora uno di quegli uomini ha chiesto da alta voce se c’era qualcuno che parlava francese e poteva fare da interprete. Non parlavano come noi bambara. Hanno annunciato che non bisognava più fare tre appelli alla preghiera, che ora c’era una nuova legge più giusta e uno bastava. Io non li ho ascoltati e tutti hanno pregato una seconda volta. Anche loro. Allora hanno appoggiato un mitra davanti a me. Senza dire nulla. Ho pregato ancora, sono andati via, senza aspettare la benedizione finale». Uno di quegli uomini era Abu Zeid, l’emiro di Timbuctù, assassino metodico e spiritato. Il vecchio iman settantenne di questa città di fango lo ha sfidato. Era il giorno che viene per ogni uomo di provare la propria forza, di discendere in se stessi, di farvi silenzio. Ha vinto.

L’imam è uno degli eroi sconosciuti di Diabaly. I jihaidisti, tuareg e arabi del Nord, ma anche algerini libici mauritani, sono stati cacciati dagli elicotteri francesi. Notte dopo notte per quattro giorni hanno dato la caccia per le vie ai pick-up dei jihadisti, nascosti nei vicoli occultati invano sotto gli alberi; li hanno trasformati, a uno a uno, in relitti calcinati. Tra i ribelli è scoppiata il dissenso: che fare? fuggire o restare e morire? La maggioranza era per ritirarsi. Alla fine anche gli irriducibili hanno rubato un camion ai locali, hanno caricato i cadaveri, e sono fuggiti verso Nord.

«Io non ho avuto paura. La terra e il cielo sono eguali per la morte, io sono qui per fare del bene, io, non loro, ho Dio al mio fianco». L’imam ha imparato a non perdersi nel regno del Male, com’è facile in questa guerra confusa. Gli uomini di Abu Zeid non sono stati violenti, hanno tentato sottilmente di lusingare e convincere: «Siamo venuti per batterci contro americani e francesi, siamo buoni musulmani come voi, soldati della jihad. Resteremo qui due mesi, allora sarete tutti islamisti come noi…».

Abbiamo incontrato altri eroi, senza armi, nelle vie di Diabaly dove i soldati francesi frugano eventuali trappole esplosive. Daniel Konaté è il pastore protestante, veglia su cento fedeli, c’è anche un pugno di cattolici qui, ma non ci sono preti. Gli islamisti lo hanno cercato subito alla chiesa in fondo a un vicolo gonfio di immondizie: per ucciderlo. Adesso, le mani giunte, guarda le immagini di Gesù strappate, i libri sacri gettati a terra e calpestati, il povero spazio devastato, come quello della piccola chiesa cattolica. «Mi sono nascosto, un fedele è corso qui a annunciarmi che arrivavano, rischiando la vita. Noi cristiani non siamo mai stati molestati, facciamo la festa, insieme preghiamo Dio».

Anche l’implacabile Abu Zeid è un uomo che prega: ne ho seguito le tracce nella città che ha tenuto per una settimana. Ecco il covile dove era nascosto il suo comando. Sono rimaste alcune casse di munizioni quasi piene, sacchi di riso strappati: e fogli di un Corano. Di fronte, la casa del traditore, Osman Haidara, un capitano dell’esercito, tuareg, uno di qui che ha disertato diventando jihadista. È stata la sua famiglia che ha dato le informazioni per entrare in città, per sorprendere i difensori. «È uno con la pelle chiara, non è uno di noi…». Ancora tracce di Abu Zeid, il campo militare dove aveva posto il primo comando, diventato troppo pericoloso quando i francesi hanno cominciato a bombardare; la piazza dove sono stati radunati gli abitanti per annunciare il verbo islamista e hanno distribuito denaro per aiutare chi aveva bisogno di cure mediche. Ma lui è rimasto mescolato agli altri combattenti, non si è rivelato: «Domani verrà il nostro grande emiro a annunciare l’avvento della sharia», hanno detto. Non ha avuto il tempo. Mi portano oltre il canale che gonfia i campi di riso. Ci sono due tumuli vicino all’acqua, sono le tombe di due soldati uccisi. I ribelli li hanno gettati nel canale, vietando alla gente di seppellirli. Ormai erano troppo decomposti per trasportarli al cimitero, li hanno composti lì. Non ho mai visto tomba più bella, fatta di zolle di terra dura e rami di spine, vicino alla strada: perché chi passa non dimentichi chi non ha avuto pietà.

CORRIERE della SERA - Massimo Alberizzi : " Diabaly, le macerie della battaglia"


Massimo Alberizzi

DIABALY — La battaglia dev'essere stata violentissima. Il centro di Diabaly è stato risparmiato ma l'accampamento dove i ribelli islamici avevano piazzato il loro quartier generale è completamente distrutto. Veicoli militari carbonizzati, palazzine sventrate, mozziconi di alberi sopravvissuti al fuoco, muri anneriti dalle esplosioni. E poi una rancida puzza di cadaveri dei quali però non c'è traccia: «Portati via prima dell'arrivo dei giornalisti», confessa un sergente maliano.
I segni della fuga sono evidenti. Un camion ha cercato di sfondare un muro nel tentativo di scappare ma è rimasto intrappolato a metà. E per correre a gambe levate molti dei fedeli di Allah hanno abbandonato gli stivaletti militari troppo pesanti e ingombranti. Un gesto simile a quello dell'etiope Abebe Bikila che alle Olimpiadi di Roma nel 1960 si tolse le scarpette a metà gara e vinse scalzo. I bombardamenti mirati degli elicotteri e degli aerei francesi hanno martellato le posizioni nemiche lunedì e martedì della scorsa settimana, ma l'accesso ai giornalisti è stato impedito fino a ieri pomeriggio. «Ancora stamattina — spiega un soldato maliano — ci sono stati scambi di colpi d'arma da fuoco».
La vita comunque è ripresa in pieno, forse perché i drappelli di soldati maliani dislocati in tutta la città rassicurano la popolazione. In centro un camion sta scaricando sacchi di cibo mentre, accanto al quartiere generale distrutto, in un misero campetto con tanto di porte con le reti strappate, alcuni ragazzini stanno giocando a pallone.
La città appare intatta, segno che non ci sono stati combattimenti per le strade. Lo conferma Adama Natme, un vecchietto con la barba bianca e un cappellino sdrucito in testa. Accanto la moglie (l'ultima), più giovane di una quarantina d'anni. «All'arrivo degli islamici l'avevo mandata via con i nostri tre figli — dice indicando la donna —. Io sono rimasto qui a guardia della casa». Fuori dalla sua porta ci sono tre veicoli carbonizzati: «Li hanno colpiti con gli elicotteri, ma i barbous (cioè i barbuti, parlando degli islamici, ndr) sono scappati prima». Secondo un gruppetto di militari, i ribelli si sono rifugiati nelle foresta di Ouagadou, una ventina di chilometri a nord, ma è anche possibile che abbiano raggiunto la Mauritania la cui frontiera, a Bassicolo, non è lontana. Ed è da lì che erano passati i fondamentalisti per conquistare Diabaly.
Solaiman è un giovane che curiosa accanto agli scheletri di due tecniche (camioncini che montano sul pianale di carico una mitragliatrice pesante) fulminate da una scarica di bombe. Ha una voglia matta di urlare la sua rabbia contro i fanatici islamici. «Poco prima che arrivassero — racconta — gli imam delle moschee hanno convocato i fedeli e ammonito la gente ad accoglierli con favore e affetto. Li hanno presentati come liberatori contro il malcostume e la corruzione. Una volta in città — ha continuato — gli uomini di Ansar Dine, di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) e del Movimento per l'Unità e la Jihad nell'Africa Occidentale che si erano mescolati tra loro, hanno tenuto comizi per spiegare con grande pacatezza che intendevano conquistare tutto il Mali per applicare la sharia, cioè la legge coranica. Ma noi conosciamo i loro trucchi: si presentano con in mano un dono e nell'altra un bastone».
Durante l'unica giornata in cui hanno governato in pace (i bombardamenti francesi sono cominciati il giorno successivo al loro arrivo in città), comunque, non hanno imposto nessuna delle misure draconiane di cui vanno fieri, come il velo totale o il bando del fumo. «Non hanno avuto tempo — precisa Soleiman —. Però dalle case dei loro amici rimasti in città, sono spuntati i mitra e le pistole, segno che l'arrivo dei ribelli era preparato, e c'era veramente qualcuno pronto ad accoglierli. I loro sostenitori in città ora non ci sono più. Sono scappati verso nord, probabilmente assieme ai ribelli».
Sulla strada che da Bamako porta a Diabaly si incrociano diversi convogli misti francesi/maliani: camionette, blindati porta truppe, veicoli armati con cannoncini. Sulle antenne e sulle carlinghe nessun segno di riconoscimento. Solo sul primo e l'ultimo della fila sventola il vessillo maliano insieme a quello francese. Nelle poche città e nei tanti villaggi che si incontrano invece le bandiere vengono esibite: nei negozi, davanti alle porte, appese ai pali delle luce. E poi sulle biciclette, sulle moto, sui camion, sulle automobili. E per strada i venditori di bandierine si sprecano. Se non ci fosse il dramma della guerra sembrerebbe di essere in uno stadio.

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