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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Corriere della Sera - Il Giornale Rassegna Stampa
07.01.2013 Siria, ovvero la distrazione delle democrazie occidentali
commenti di Maurizio Molinari, Domenico Quirico, Lorenzo Cremonesi. Cronache di Viviana Mazza, Rolla Scolari

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - Il Giornale
Autore: Maurizio Molinari - Domenico Quirico - Viviana Mazza - Rolla Scolari
Titolo: «I guerrieri stanchi di Aleppo non credono più alla vittoria - La guerra confessionale e fratricida del finto laico Bashar Assad - Parla Assad: 'Sconfiggerò i pupazzi dell'Occidente' - Israele si sente accerchiato e alza un altro muro»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 07/01/2013, a pag. 1-22, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " La pericolosa distrazione occidentale ", a pag. 1-2, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " I guerrieri stanchi di Aleppo non credono più alla vittoria ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 10, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo " Parla Assad: «Sconfiggerò i pupazzi dell'Occidente»", a pag. 26, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " La guerra confessionale e fratricida del finto laico Bashar Assad ". Dal GIORNALE, a pag. 12, l'articolo di Rolla Scolari dal titolo " Israele si sente accerchiato e alza un altro muro ".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " La pericolosa distrazione occidentale "


Maurizio Molinari
          Hugo Chavez

L’ ostinazione di Bashar Assad a difendere con le armi un regime in decomposizione e l’aggravamento delle condizioni di salute di Hugo Chavez trasformano Siria e Venezuela in micce di crisi internazionali di assai più vaste dimensioni, destinate a mettere a dura prova un Occidente ancora intento a sanare le ferite economiche.

Dal palco del Teatro dell’Opera di Damasco Assad ha difeso la sanguinosa repressione della rivolta popolare iniziata 21 mesi fa.
Lo ha fatto ignorando le oltre 60 mila vittime e rifiutando ogni dialogo con le forze dell’opposizione, sebbene controllino gran parte di Aleppo, la seconda città della Siria, e perfino alcuni quartieri della periferia della stessa capitale. Gli osanna della folla dei fedelissimi al discorso del Raiss hanno aggiunto un tocco di macabro alla celebrazione di ciò che resta dell’onnipotente Baath. Luogo, simbologia e contenuti del discorso di Assad suggeriscono la determinazione a guidare le ultime truppe - ovvero la minoranza alawita che controlla oltre l’80 per cento degli apparati di sicurezza - in una guerra senza tregua contro i ribelli «marionette dell’Occidente». Forte dei rifornimenti militari di Teheran, della protezione diplomatica di Mosca e Pechino, e degli arsenali chimici accumulati dagli Anni Settanta, Assad è convinto di poter resistere a tempo indeterminato all’assedio dei ribelli siriani e delle sanzioni internazionali. Anche al prezzo di ridurre la sua patria in un cumulo di macerie. Ciò comporta il rischio reale che la guerra civile in Siria inneschi un conflitto regionale, portando le nazioni arabe e la Turchia a intervenire a sostegno della rivolta e l’Iran a fare altrettanto per proteggere Assad. Come suggerisce Jeffrey White, ex analista di intelligence del Pentagono sul Medio Oriente, non si può escludere che proprio questo scenario da «Apocalisse regionale» sia il reale obiettivo di Bashar Assad, sperando di poterlo sfruttare per uscire dall’angolo in cui si trova.

Se la miccia siriana può infiammare il Medio Oriente, quella venezuelana può paralizzare il secondo produttore di greggio dell’Opec dopo l’Arabia Saudita. E in tempi assai più brevi perché nel caso in cui il 10 gennaio Hugo Chavez dovesse essere impossibilitato a prestare giuramento a causa della grave malattia che lo ha colpito, si verrà a creare un corto circuito istituzionale. I duellanti sono Diosdado Cabello, legittimato a sostituirlo in quanto presidente del Parlamento, e Nicolas Maduro, il vicepresidente che Chavez ha indicato come suo erede dall’ospedale di Cuba dove si trova in fin di vita. Lo scontro di potere fra i «Boligarchi» - sintesi fra gerarchi e bolivariani - è destinato ad anticipare l’eventuale nuova sfida elettorale con l’opposizione guidata da Henrique Capriles. Ecco perché Moses Naim, politologo della Fondazione Carnegie, prevede un dopo-Chavez segnato da «faide chaviste» fra gruppi di potere dotati di denaro e armi, suggerendo che il Venezuela possa diventare uno «Stato fallito» nel bel mezzo dell’emisfero occidentale, con conseguenze prevedibili sul prezzo del greggio.

L’entità dei rischi portati dall’autunno degli autocrati di Damasco e Caracas pone la più difficile delle sfide ad un Occidente che, negli Stati Uniti come in Europa, è ancora alle prese con la crisi economica e finanziaria, sperando che il 2013 possa essere l’anno del rilancio della crescita. La distrazione delle democrazie è pericolosa perché dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ogni volta che una dittatura è implosa o è stata abbattuta, è stato l’Occidente a compiere un passo avanti, contribuendo alla ricostruzione. A volte cogliendo successi importanti, come nella Germania post-nazista e nella Polonia post-comunista, altre andando incontro a scivoloni e contraddizioni, come nella Libia del dopo-Gheddafi o nell’Egitto del dopoMubarak, ma comunque aiutando a superare la fase del dispotismo. Se le democrazie, paralizzate dai timori di una nuova recessione, dovessero scegliere la passività davanti agli sconvolgimenti in atto in Siria e Venezuela il risultato sarebbe un domino di instabilità internazionale destinato a moltiplicare il caos oppure a giovare agli interessi delle grandi potenze rivali: la Russia in cerca di riscatti strategici e la Cina bisognosa di materie prime.

La STAMPA - Domenico Quirico : " I guerrieri stanchi di Aleppo non credono più alla vittoria "


Domenico Quirico                 Ribelli ad Aleppo

Ecco, inizia sempre così: l’aria d’improvviso è immobile e sembra gonfia di elettricità statica, come prima di una tempesta elettrica. Kaiss me l’ha detto: «Attento, sarà dopo il carro armato distrutto...». Un grande rimbombo sulla destra, a non più di cinquanta metri, la prima bomba erompe in una vampata di fuoco rosso e fumo nero e si gonfia di questa terra grassa e molle di nebbia.
L’onda sonora penetra nelle orecchie negli occhi, nel cervello e sbatacchia il corpo in un violento tremore; e poi terra ovunque che ricade. «Siamo fortunati, con la nebbia così fitta gli aerei non verranno...». E invece dalla base aerea del regime, pigramente, ci stanno inquadrando: prima i cannoni dei tank, poi i mortai. Non hanno fretta; prima o poi... I ragazzi intorno a me, scuri di terra, si alzano come statue animatesi all’improvviso. Ridono, aspettando le altre bombe che verranno. Sono giovani e per loro è una prova di virilità dinanzi al pericolo. Ridono perché la morte tutto intorno li avvolge ogni giorno, da quasi un anno, in un caldo abbraccio.

Qui in Siria non ci sono retrovie, non ci sono luoghi sicuri in cui riposarsi dopo la battaglia, non ci sono giorni di bonaccia per cessare di essere soldati e ribelli e tornare ragazzi, magari tesi e rabbiosi, ma ragazzi, buttar via l’uniforme, e togliersi di dosso anche la guerra, ridere, scherzare. Oggi bisogna prendere questa base aerea di Taftanaz, nella regione di Idlib, feudo sunnita dove i combattenti sono ormai in grande maggioranza islamisti, siriani e del Jihad: i loro gruppi si chiamano Al Nusra, Al Farouk, Arahr al Sham, una sigla che non avevo mai udito. I folli di dio che hanno preso il controllo della rivoluzione, che sognano l’emirato siriano da cui cambieranno la carta del Vicino Oriente, e del mondo, il nostro incubo.

Siamo a venti chilometri a sud ovest di Aleppo: Aleppo dove si combatte la battaglia decisiva: se vinceranno i ribelli, il regime di Assad cadrà; altrimenti, perduta anche l’unica grande città cui sono avvinghiati disperatamente, si andrà verso la spartizione del Paese. Proprio da questa base partono gli elicotteri che massacrano la città martire. Ecco perché da tre giorni, ostinatamente, i guerriglieri stringono il cerchio attorno alla pista e ai bunker da cui i soldati continuano a lanciare zampate sanguinose. Bisogna prenderla, farla tacere a tutti i costi. Ma domani sarà un altro aeroporto, un altro quartiere di città, un altro villaggio: ancora e ancora, senza fine. La Siria: un posto del mondo, vicino vicinissimo alla nostra cieca indifferenza, dove una generazione è senza età. La sua vita dura un giorno: nascono all’alba, diventano adulti e muoiono la sera. Anche se sopravvivono, sono già vecchi.

Osservateli. Basta che inizino i combattimenti e tutto sparisce in loro, resta una sola cosa: sopravvivere. Non sono più ragazzi. Hanno ucciso e visto morire. L’udito si acuisce, come nei gatti, gli occhi diventano capaci di rilevare il minimo movimento, sanno quando rimanere sdraiati e quando devono sfilare in uno spazio aperto, si orientano senza errori al semplice suono di una mitragliatrice che spara.

Nessuno di loro è riuscito a spiegarmelo. Sanno quando abbassarsi un attimo prima che il proiettile esploda. Guardate Kaiss, studente in marketing: un giorno ha lasciato le sue cose in un posto sicuro, è uscito dalla caserma e via, è diventato rivoluzionario e disertore. A ogni esplosione strizza gli occhi, in quel modo benevolo che hanno i ragazzi, tendendo un po’ fuori il capo e annuendo di piacere, come se a ogni scoppio si sentisse più vivo. Seguendo in battaglia i ribelli siriani, ad Aleppo e ora qui, ho maturato la certezza che in guerra l’uomo non ha solo cinque sensi, ma sei, sette, dei tentacoli che spuntano e germogliano nel combattimento. E lo aiutano a sopravvivere.

Ora dalla base hanno aggiustato il tiro, il rimbombo e lo spicinio delle esplosioni riprende; non pigri, questa volta, ma smaniosi, queruli, dall’intonazione quasi interrogativa. Corriamo verso un bosco di ulivi, opache sagome nella nebbia. Non abbiamo sentito il sibilo di partenza, eppure percepiamo la granata in volo, ogni cellula del nostro corpo lo sa e si moltiplica in mille particelle, diventa un universo di paura e di attenzione, la vita parla in noi e solo lei ci salva. È per questo che è impossibile forse descriverla, chi non è stato in battaglia non ha i sensi per sentirla.

Al riparo degli ulivi i ragazzi delle squadre d’assalto, le nere divise degli islamisti, freneticamente con picconi e vanghette scavano una trincea. Adesso che siamo vicini i soldati fanno schiamazzare le mitragliatrici, ci cercano nella nebbia un po’ a casaccio. Ieri, senza la nebbia, ho visto lo scenario posizioni della battaglia, dorsi di pietra bianca delineantesi sullo sfondo del cielo, versanti brulli e cuspidi fitte di pini hanno l’aspetto dolce di un grembo di donna dove non sarebbe forse triste neanche morire. Qualche volta il campo di battaglia è idillico. Sembra che la natura, malgrado gli sforzi inauditi degli uomini per farla cooperare ai loro piani di strage, voglia dare una prova tangibile della sua indifferenza, della sua maestosa neutralità, ricordar loro l’immutabile trionfante bellezza e libertà del mondo e della vita. I ribelli che erano con me guardavano la loro terra, nessuno dubita che, qualunque sia lo sforzo necessario, si impadroniranno di quella base che hanno visto rosseggiare nel gran sole calante. È come se, contemplandola dall’osservatorio, l’avessero attirata per gli occhi in loro, impossessandosene fermamente.

Un elicottero si è alzato in volo, gira lentamente in mezzo alla nebbia, carico di razzi, cercando un varco in quell’opacità per sgravarsi di morte. Mi hanno raccontato che il comandante della base è stato ucciso, che molti soldati, un centinaio, hanno disertato. Ma quando ho chiesto di incontrarli ho ricevuto risposte vaghe. In Occidente circola l’idea che il regime sia agonizzante, e la rivolta, anche senza aiuti, avanzi ormai inesorabile verso la vittoria. Ogni volta che vengo in Siria ho l’impressione contraria. Pensavo di andare a Idlib, la città a sud di Aleppo, liberata, si era detto. È totalmente nelle mani degli uomini di Assad.

Dopo aver passato la frontiera turca ad Antiochia, sono venuto in un piccolo campo dell’Armata libera a Atmeh, poche tende bianche sulla cima della montagna spazzata dall’inverno. Dormo in una tomba paleocristiana, III secolo mi dicono, alcuni gradini, poi tre anguste navate scavate armoniosamente nella roccia, i ragazzi mi hanno mostrato una piccola, antica lampada a olio in terracotta che hanno trovato quando l’hanno trasformata in rifugio. Il loro campo sorge in quello che, sotto l’impero di Roma, era un cimitero della antica comunità cristiana. Nella tomba il freddo è meno terribile, una piccola batteria dopo le cinque regala un’ora di tremolante penombra bianca.

Ibrahim, i capelli ricci e un viso angelico che contrasta con gli occhi da uomo maturo, mette nella piccola stufa rametti di ulivo ancora con le foglie, piano, come se commettesse un sacrilegio. Li stanno potando, gli ulivi, giù nel vallone, prima che cada la neve e la leggera patina di ghiaccio che ogni mattina copre la terra si faccia ancora più spessa. Questi ragazzi sopravvivono qui, da settimane, da mesi. Non hanno la fede aspra del Jihad, vanno avanti nella ribellione con periodi di paura, di stanchezza, con una timida leggerezza di cuore. La notte sulla montagna vuol dire paura, con l’arrivo del tramonto senti che tutto in te si raffredda, si indurisce e si mette in guardia. Ti aspetti di tutto e sei pronto a tutto. Non c’è un fuocherello intorno, non un suono, non un movimento. Ti sovrasta un enorme cielo sconfinato, fino all’alba non c’è nessuno vicino a te, sei solo, anche se siete in dieci, cento, vi sentite soli. Non c’è vita intorno, sei tu la vita e il mondo nella Siria sconfinata e in guerra. Poi sulla montagna, laggiù verso la base, si accende un’esplosione, per un attimo svela le muraglie chiare come quella del nostro Carso. Poi scompare subito, in un orizzonte sbavato di nero. Qui tutto è passeggero, il tepore del fuoco, il silenzio, la vita

I ragazzi sono inchiodati dal fuoco nemico nella trincea tra gli ulivi. La nebbia cade giù forte come argento liquido, creando una pesante cortina su tutto. Un gruppo che attraversa di corsa gli spazi scoperti a destra, dall’altro lato del campo, si insinua tra i cespugli, ruscella verso il viottolo che porta al muro che circonda la base. Non c’è artiglieria per ribattere ai colpi, e se la nebbia si alza arriveranno i Mig da Homs per sarchiare il terreno intorno. E non basteranno le mitragliere montate sui camion per fermarli.

Siamo arrivati a quella fase del combattimento in cui ogni cosa sfugge al controllo, fase di incoscienza, di tensione e di esagerata sensibilità. Si sente che qualcosa di decisivo sta maturando: ma in che senso?

Parole allarmate arrivano da tutte le parti, circolano di fila in fila, tra gli urli i fischi gli schianti dei proiettili sempre più fitti. Le katibe, dall’altro lato dell’assalto, hanno subito perdite gravi, bisogna ritirarsi. I ragazzi rifluiscono piano verso il villaggio di Tatfanaz, raso al suolo dall’artiglieria, hanno sguardi senza luce. Tra tutte queste case morte erra qualche ribelle, sperduto come un cane senza padrone. L’assalto è fallito. In fondo è stata una giornata da poco, di quelle che se uno fa il diario non sa cosa scriverci e resta a lungo con la penna in mano e la pagina bianca; oppure deve ripetere le stesse cose, che c’era nebbia, faceva molto freddo, il nemico tirava bene... Un’altra giornata di guerra, in Siria. Siamo vivi, in fondo è quello che conta.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : "La guerra confessionale e fratricida del finto laico Bashar Assad"


Lorenzo Cremonesi

Non si muove di un centimetro Bashar Assad. Nessuna concessione alle forze ribelli, che anzi definisce «burattini dell'Occidente» infarciti di «idee terroristiche»; nessuna disponibilità ad un ritiro negoziato dalla scena politica e nessuna proposta nuova per uscire dalla spirale dei massacri. Nel discorso di ieri il presidente siriano si è dimostrato più inflessibile che mai. È sembrato persino in rotta di collisione con il governo di Mosca, suo alleato storico, che pure negli ultimi tempi non ha nascosto un certo scetticismo sulla sua capacità di resistere ai successi militari degli insorti.
Tanta intransigenza si spiega con l'evoluzione dello scontro in Siria scoppiato nel marzo 2011 sull'onda delle «primavere arabe». Sua caratteristica fondamentale è infatti che, dopo la repressione sanguinosa delle prime manifestazioni pacifiche, la protesta si è via via trasformata in guerra civile e infine in guerra di religione. In Siria si sta consumando ormai da molti mesi il capitolo più cruento del conflitto interislamico tra sciiti e sunniti. Riattizzato dall'invasione americana dell'Iraq nel marzo-aprile 2003, questo si è rapidamente allargato a tutte le regioni dove esistono i seguaci delle due confessioni più importanti del mondo musulmano. Coinvolge l'intera penisola arabica con i Paesi del Golfo, arriva al Pakistan, alimenta la minaccia della ripresa dei massacri tra gruppi Hazara e Pashtun in Afghanistan, rappresenta la spada di Damocle per il futuro del Libano e continua ad alimentare i massacri in Iraq (quasi 4.500 morti nel solo 2012). Assad dunque non è solo. Sa che la sua battaglia non è unicamente quella della minoranza alauita (una setta sciita) che in Siria ha dominato con il pugno di ferro sulla maggioranza sunnita per un quarantennio. Al suo fianco stanno soprattutto l'Iran, la roccaforte sciita per eccellenza, l'Hezbollah libanese e il premier iracheno Nuri al Maliki. Da qui il paradosso del dittatore siriano: si presenta come bastione del panarabismo laico, ma è in trincea per una guerra confessionale fratricida.

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Parla Assad: «Sconfiggerò i pupazzi dell'Occidente» "


Bashar al Assad parla in diretta tv

GERUSALEMME — L'immagine alle spalle di Bashar Assad è un collage della sofferenza del popolo siriano: i volti delle vittime della guerra, che sono ormai 60.000 secondo l'Onu, composti insieme in un'enorme tricolore, contesi come simboli dall'opposizione e dal regime. Parlando per un'ora in diretta tv nel suo primo discorso pubblico dallo scorso giugno, Assad ha riconosciuto la tragedia in cui da 21 mesi è sprofondata la nazione. «Ci incontriamo oggi nella terra della Siria sopraffatta dal dolore». Ma ha attribuito ogni responsabilità ai ribelli che, come in passato, ha definito terroristi e «burattini dell'Occidente», negando l'esistenza di una rivoluzione popolare.
Era stato anticipato dalla stampa libanese che il presidente siriano avrebbe offerto un piano di pace. E in effetti Assad ha presentato una proposta in due tappe, che respinge però i piani occidentali. Paragonando il suo governo a qualcuno che vuole «sposarsi ma non trova un partner adeguato», ha domandato retoricamente: «Con chi dovremmo trattare, con i terroristi? Vogliamo dialogare con i padroni e non con i loro servitori». Il piano prevede innanzitutto che i Paesi stranieri smettano di finanziare e armare i ribelli, con la promessa che allora il regime poserà le armi riservandosi comunque «il diritto a difendersi». Seconda tappa: una «conferenza nazionale» (che escluderebbe però gran parte dell'opposizione armata e in esilio) per arrivare a una nuova Costituzione da sottoporre a referendum, seguita da elezioni e da un governo di coalizione. Assad non ha mostrato alcuna intenzione di dimettersi (una precondizione essenziale posta dai ribelli e dai governi occidentali). Catherine Ashton ha replicato, a nome dell'Europa, che deve «lasciare il potere e consentire una transizione politica». Londra ha aggiunto che le sue «promesse vuote di riforma non convincono nessuno». Per Washington è ormai «disconnesso dalla realtà». «Una perdita di tempo», ha commentato la Coalizione nazionale siriana, formata in Qatar a novembre e riconosciuta come rappresentante dell'opposizione da Usa e Ue.
Esponendosi nel teatro dell'Opera al centro di Damasco, Assad ha dato una prova di forza in un momento in cui i ribelli rivendicano conquiste militari, e dopo settimane di speculazioni sui media occidentali che gli alleati possano far pressione su di lui. Il presidente siriano ha invece ringraziato Russia, Cina e Iran per il loro appoggio. La mediazione dell'inviato Onu Lashkar Brahimi tra Damasco, Mosca e Washington per una transizione politica non è sembrata mai così inutile. «Transizione da dove verso dove? — ha chiesto sdegnato Assad —. Da un Paese indipendente ad uno sotto occupazione? Dallo Stato al caos?». Mentre gli Usa inviano i Patriot al confine turco contro i missili del regime, e Israele erige una barriera contro i jihadisti, Assad viene circondato da una folla che grida il suo nome. Finito il discorso, non riesce a scendere dal palco, le guardie gli fanno scudo. A teatro Assad è una popstar, che sorride e indugia a salutare. Per ora.

Il GIORNALE - Rolla Scolari : " Israele si sente accerchiato e alza un altro muro"

Israele completerà tra pochi mesi la costruzione della barrie­ra lungo il confine meridionale con l’Egitto e l’instabile Sinai, ma già nei prossimi giorni i co­struttori che in questi ultimi an­ni hanno operato nel Sud si spo­steranno a Nord. Il primo mini­stro Benjamin Netanyahu ha ri­velato infatti ieri che sono già partiti i lavori per la costruzione di una seconda barriera, questa volta lungo il confine siriano, identica a quella nel Sud e con un identico obiettivo: impedire che l’instabilità della regione di frontiera possa sconfinare in Israele.
Nella riunione settimanale del suo gabinetto, Netanyahu, che affronta fra due settimane nuove elezioni, ha spiegato il suo progetto. Da mesi, Israele te­me che la Guerra intestina siria­na possa destabilizzare le alture del Golan, regione che controlla dal 1967, e il governo non na­sconde la sua preoccupazione per le sorti dell’arsenale chimi­co del regime di Bashar El Assad.
Teme che quelle armi possano fi­nire nelle mani di gruppi estre­misti. Per la prima volta, ieri Ne­tanyahu ha rivelato che secondo fonti dell’intelligence israeliano l’esercito regolare siriano si sa­rebbe ritirato dalla regione fron­taliera, ora occupata da gruppi legati al «jihad globale», ha spie­gato ai ministri. Per questo, il suo governo avrebbe dato il via ai lavori per sostituire i reticolati che segnano una frontiera cal­ma da decenni.
Negli ultimi mesi, il conflitto si­riano ha sfiorato appena Israele.
In diverse occasioni colpi di mor­taio sono arrivati sul suo territo­rio, senza causare vittime o dan­ni. Ora, Israele teme che la guer­ra siriana possa oltrepassare il confine, come a gennaio 2011 te­meva che l’instabilità egiziana potesse contagiare il suo territo­rio. Mercoledì, il primo ministro è stato al Sud, per vedere di per­sona la barriera quasi completa­ta. Il confine e lungo 240 chilome­tri e ormai mancano soltanto 12 chilometri di barriera vicino alla cittadina costiera di Eilat. La co­struzione, che secondo i dati for­niti al Giornale dal ministero del­la Difesa israeliano e costata 260 milioni di euro, e iniziata nel 2010 in realtà per impedire il flus­so­di immigrati in arrivo dall’Afri­ca. Negli ultimi mesi però, i lavo­ri sono andati avanti con maggio­re intensità non a causa dell’im­migrazione, ma del timore di at­tentati. In seguito alla caduta di Hosni Mubarak in Egitto e a cau­sa dell’instabilità nel Paese ara­bo, la sicurezza in Sinai è deterio­rata e da mesi Israele è preoccu­pato per l’attività di gruppi radi­cali che hanno portato a termine attacchi lungo la frontiera, il più violento ad agosto quando uomi­ni armati hanno assalito un po­sto di polizia egiziano per poi at­traversare il confine imbottiti di esplosivo.
Al Nord, il confine con la Siria è stato calmo per decenni. A dif­ferenza del Sud desertico, nella zona frontaliera con la Siria ci so­no molti villaggi israeliani. Se­condo i mass media locali, la co­struzione della barriera – i primi dieci chilometri –e già comincia­ta nella zona del villaggio druso di Majdal Shams, dove vivono fa­miglie con legami e parentele dall’altra parte del confine. Du­rante l’estate, Dolan Abu Saleh, sindaco della cittadina, aveva già rivelato al Giornale i timori della popolazione, spaventata dalla possibilità che le violenze siriane possano attraversare il vi­cino confine.

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