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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
17.09.2012 Tunisia, l'unico risultato della 'primavera' è l'ascesa dei salafiti
Niente democrazia, solo sharia nel futuro tunisino. Cronache di Domenico Quirico, Vanna Vannuccini

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Domenico Quirico - Vanna Vannuccini
Titolo: «I sogni traditi dei giovani di Tunisi - La Tunisia a caccia di Iyadh il nuovo sceicco del terrore»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 17/09/2012, a pag. 1-13, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " I sogni traditi dei giovani di Tunisi ". Da REPUBBLICA, a pag. 13, l'articolo di Vanna Vannuccini dal titolo " La Tunisia a caccia di Iyadh, il nuovo sceicco del terrore ".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Domenico Quirico : " I sogni traditi dei giovani di Tunisi "


Domenico Quirico

Non riconosco più i ragazzi della rivoluzione, gli intrepidi di Sidi Bouzid, i compagni dei martiri che accesero le rivolte. Erano innocenti e cattivi allo stesso tempo. Sono stanchi, usati, sfatti; e li ricordavo pronti a sorgere e a risorgere, con quel tanto di indomito che entra nel sangue dei popoli abituati a strappare la vita alle pietre e ai deserti. Li ascolto, li guardo nella piazza dove quel fuoco bruciò e ho l’impressione che qualche cosa di nobile, non soltanto loro, sia avvilito. Sono, ora, semplicemente seri, di quella serietà che i poveri portano nel viso come una maschera immobile, che tradisce una vita piena di triboli e di pene. Davvero ci sono quelli che fanno le rivoluzioni e quelli che ne approfittano.

Sidi Bouzid era così anche un anno fa, campi spogli, niente altro che foglie e gli alberi leggeri e vuoti. Orribili cani con le orecchie da pipistrello continuano a scappare di traverso e spiano col muso appuntito e apprensivo. Rari autobus passano come vecchie diligenze in luoghi deserti. Una città che sembra un mondo in sfacelo, sconnesso sordido: i selciati i muri i legni le moschee gli interni. Nell’aria vaga un fetore acido. I ragazzi (alcuni sono «harraga», hanno viaggiato con me sul mare verso Lampedusa il marzo di un anno fa) distillano come sempre infiniti caffè attorno al governatorato; parlano fitto, eppure non pensi che a un alone di solitudine. Ecco: la vita qui è tornata a essere, dopo una breve fiammata di gioia e speranza, null’altro che un rasentarsi di solitudini. Li ricordavo glabri, ora molti esibiscono l’arruffato tosone della barba dei salafiti. Mi raccontano, quasi vergognandosi, a occhi bassi, che a fine luglio un gruppo di operai che invocavano il pagamento dei salari e una folla di abitanti furiosi contro i nuovi governanti sono sfilati invocando: «Ben Ali, Ben Ali…, il nome di «Zaba», il tiranno che hanno impiegato vent’anni a cacciare.

Una studentessa dell’università, con qualcosa di materno misto alla sua seduzione di donna, che un anno fa mi aveva incantato con i suoi sogni rivoluzionari, guarda sul giornale le foto dell’ambasciata americana a Tunisi in fiamme: «Abbiamo sprecato la nostra libertà…». La prende un rimpianto cocente di aver sciupato qualcosa, e un’ora segreta che non sarebbe più tornata.

La strada, che un anno fa sognava la libertà, oggi è in mano al partito di Dio, distrugge l’ambasciata Usa e vuole la sharia. E i ragazzi, affamati e senza lavoro, si rimettono in mare e fuggono. La nuova tragedia di Lampedusa ha bruscamente richiamato la questione sociale. «Se guardi il profilo dei martiri e la geografia della rivoluzione del 2011, il centro e il sud miserabile, capisci che è nata dalla povertà - mi dice Abderrahmane Hédhili, che guida il Forum per i diritti economici e sociali -. Poi apri la tv, assisti a un dibattito tra i politici di oggi… Che pena! Tutti ci hanno tradito!». Attorno a lui le madri dei ragazzi spariti nel Mediterraneo nei barconi affondati, duemila in un anno, mi protendono le foto dei figli, mi guardano compassionevolmente come se mi conoscessero.

Non è la primavera araba a svelarsi, come sostiene qualcuno, sconfitta. La rivoluzione ha vinto, lo prova con i suoi martiri. È il dopo rivoluzione filisteo e rancido, qui e altrove, che è stato sconfitto. Bisogna ammetterlo. La mite Tunisia, con la crescita numerica dei salafiti per cui solo i primi 220 anni dell’Islam sono puri e il resto è «bid’a», eresia, si scopre violenta. Mi pare di udire qualcosa che si ridesta, l’intransigentismo, l’odio giubilante di questo jihad nomade, come un allarme che si propaga ai quattro punti cardinali. Puoi sorprenderti dell’assalto all’ambasciata Usa, dei randellamenti quotidiani che il governo finge di non vedere, quando il primo nel pantheon del partito al potere, l’islamico Rached Ghannouchi, a chi gli rammenta tutto questo, risponde affettuosamente: «Ma sono i nostri ragazzi…»?

La miseria all’origine di tutto, come un anno fa, sempre: la disoccupazione al 17%, al 50% per i giovani diplomati, l’inflazione al 7,5%, ci sono riserve per soli cento giorni di importazioni, i prezzi di pomodori e peperoni sono saliti di tre volte in diciotto mesi. Gli imprenditori sono bollati come profittatori dell’antico regime; anche se i turisti in parte sono tornati, l’Europa, stretta dalla crisi, garantisce cicalate e promesse ma non importazioni. Soprattutto, l’abisso economico che separa l’interno dalla costa si è allargato, dilaga un regionalismo astioso e pericoloso.

Il governo, monopolizzato dal partito islamico Ennahda è bollato da tutti di incompetenza. Prevedibile, visto che la maggior parte dei ministri (che sono 78!) arriva dall’esilio e dalla galera. Ma si aggiunge anche il nepotismo che dilaga e torna la corruzione con le figure classiche degli intermediari. Le clientele islamiste ottengono denaro a pioggia, nonostante la crisi. Il governatore della banca centrale, Kamel Nabli, è stato licenziato, appunto per sostituirlo con uno più docile a queste mungiture. Intanto la nuova costituzione che doveva essere pronta per il 21 di ottobre è ferma al dibattito sull’articolo uno! Una lentezza strumentale, sospettano molti: il partito islamico infatti non organizzerà nuove elezioni fino a quando non sarà sicuro di rivincerle.

Allora lo schema è davvero questo nel mondo arabo:le classi medie, pie e conservatrici, contro la gioventù urbana povera? E se la controrivoluzione, il ritorno ai tempi di Ben Ali che qualcuno invoca, in realtà non fosse già realizzata, operante nel dominio del partito islamico?

«Attenti - mi avverte Gamal, politologo e giornalista che scopro pessimista e deluso -. Ennahda sta creando una dittatura, non è un rischio è una realtà! Le prossime elezioni le vincerà chi avrà il controllo dei media e il partito islamista sta nominando uomini fedeli alla guida di tutti i giornali e delle reti tv. Ennahda e Ben Ali sono le due facce della stessa medaglia, i due partiti si assomigliano, la logica è la stessa, con in più il fatto che Ennahda gode di una legittimità religiosa. È la metodologia feudale del mondo arabo, che preferisce il dittatore al democratico, dove quello che conta è l’immagine della forza. Il partito islamico al governo è un partito come gli altri, più vicino a Machiavelli che a Maometto».

Mi accorgo che in Tunisia, sui muri, nei giornali, i riferimenti rivoluzionari rispetto a qualche mese fa sono evaporati; anche come parola, «rivoluzione» comincia a ossidarsi, a perdersi nel discorso. La frattura non sembra più tra rivoluzionari e controrivoluzionari, ma tra chi è per il potere e chi è contro. Parli con la gente e ti accorgi che la si invoca per risolvere un problema personale, spesso minimo. Gli ideali possono corrompere profondamente quanto il cinismo.

La REPUBBLICA - Vanna Vannuccini : " La Tunisia a caccia di Iyadh, il nuovo sceicco del terrore "


Abou Iyadh, Vanna Vannuccini

KAIROUAN (TUNISIA) - Hanno cominciato a dargli la caccia quando ancora dall´ambasciata americana a Tunisi si levavano le colonne di fumo nero provocate da una sessantina di macchine incendiate nel parcheggio. Nella sua casa a poche decine di metri dalla moschea Fatah su avenue de la Liberté, in pieno centro di Tunisi, sono arrivati decine di poliziotti, ma di Abou Iyadh non c´era più nessuna traccia. Il quarantacinquenne sceicco, che in realtà si chiama Seifallah Benhassine ed è considerato il capo dei salafiti jihadisti (i salafiti, come ci diranno molti di loro, appartengono a tendenze e militanze diverse) è accusato dalle autorità tunisine di aver organizzato l´attacco all´ambasciata venerdì e da allora la polizia ha lanciato, per così dire, la caccia all´uomo. Ingiustamente, dice Abdelbasset, uno dei tanti venditori ambulanti che intorno alla moschea vendono galabia e hejab, profumi e libri sacri, rosari e foulard. Il corteo dei dimostranti, è vero, era partito da qui (altri da altre parti della città), dice, ma la violenza non era prevista, è cominciata per colpa dei poliziotti e di facinorosi che con i salafiti non c´entravano per nulla. Abou Iyadh aveva lasciato la manifestazione non appena erano cominciate le violenze, dicono. Ma il governo è imbarazzato per aver dato un´ennesima manifestazione di incompetenza (ormai proverbiale, tanto da essere oggetto di sketch comici nelle tv private, ai quali il governo ha reagito mettendo in carcere l´autore). Intorno ad Abdelbasset si forma un capannello, tutti sono interessati a spiegare, con gentilezza disarmante, che l´immagine che si ha all´estero dei salafiti non corrisponde alla realtà. Anche loro erano andati alla manifestazione, dicono, per testimoniare pacificamente il loro sdegno per un film indegno, ma la situazione è sfuggita di mano, per colpa di poliziotti allo sbando, di provocatori del vecchio regime e di qaedisti abili a cogliere ogni occasione per provocare incidenti. In altre parole di infiltrati. La calma è ormai tornata in città. Del "giorno dell´ira", che ha fatto ben quattro vittime oltre a una cinquantina di feriti, non sono rimasti che qualche esile filo di fumo che ancora si leva dalle decine di auto mandate a fuoco e il muro annerito della scuola americana di fronte. Ma Washington non si fida, teme che la calma non durerà a lungo e ha annunciato che ritirerà i propri diplomatici dalla Tunisia. A Kairouan, due ore di macchina a sud di Tunisi, i salafiti hanno il loro centro. È qui che Abou Iyadh organizzò all´inizio dell´estate una manifestazione davanti alla moschea di Zitouna, la più antica del paese e della Tunisia. Kairouan è una bellissima città che l´Unesco ha dichiarato patrimonio culturale dell´umanità, e che era stata nel 630 d. C il primo insediamento islamico in Tunisia. Durante il regime di Ben Ali i salafiti venivano pesantemente controllati e perseguitati. «Allora non avrei potuto star seduto qui al caffè accanto a lei, il regime me l´avrebbe impedito con il pretesto di proteggere la sicurezza degli stranieri», dice Rafi Trade, uno dei salafiti che organizzò a fine maggio il raduno di Abou Iyadh, di cui è amico. Il padre di Rafi, Mohamed, un professore di Francese e letteratura comparata, figlio a sua volta di un accademico arabista, ci fa una lezione sul salafismo, cominciando dalla radice: «"Salaf" vuol dire gli antenati, i contemporanei del Profeta, mentre "halaf" siamo noi, gli eredi, che il messaggio di Maometto l´abbiamo in parte travisato, corrotto. Ecco - spiega - i salafiti vogliono tornare alle parole del Profeta, alla sharia, ma con il convincimento, non con la violenza». Di come la sharia si possa applicare in una democrazia, quale sia l´autorità suprema in un Paese in cui viga la legge divina, nessuno ha un´idea chiara. Le risposte vanno da citazioni del Corano e storie dimostrative della compassione del Profeta ad aneddoti sulla generosità e l´innocenza di questi ragazzi che a Kairouan garantiscono che non ci siano né ladri né profittatori. Pregando di tenere a mente che Allah protegge tutti gli esseri umani, nessuno escluso: perché l´Islam, dicono, è una religione che unisce. Mentre la politica divide.

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