domenica 19 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
15.09.2012 Continuano gli attacchi alle ambasciate Usa nei Paesi islamici
cronache di Lorenzo Cremonesi, Guido Olimpio, Domenico Quirico, Paolo Mastrolilli

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Lorenzo Cremonesi - Guido Olimpio - Domenico Quirico - Paolo Mastrolilli - Giovanni Cerruti
Titolo: «Rabbia e morte nelle ambasciate all'ombra della bandiera nera - Truffe, spaccio e prediche. La c'ellula' di ultrà copti dietro il video incendiario - Gli scugnizzi del Cairo sfidano polizia e imam: Ci hanno traditi tutti - Obama: Non ci ritireremo mai - N»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/09/2012, a pag. 2, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Rabbia e morte nelle ambasciate all'ombra della bandiera nera ", l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Truffe, spaccio e prediche. La «cellula» di ultrà copti dietro il video incendiario ". Dalla STAMPA, a pag. 3, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Gli scugnizzi del Cairo sfidano polizia e imam: Ci hanno traditi tutti ", a pag. 4, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Obama: Non ci ritireremo mai ", l'articolo di Giovanni Cerruti dal titolo " Nella notte di Bengasi i droni Usa volano in cerca degli assassini ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Rabbia e morte nelle ambasciate all'ombra della bandiera nera "


Lorenzo Cremonesi

Il CAIRO — Venerdì di violenze tra Medio Oriente e Nord Africa contro. Dopo il sanguinoso attacco contro il consolato americano di Bengasi martedì scorso, che ha causato la morte dell'ambasciato-re Usa in Libia assieme a tre collaboratori, ieri la rabbia anti occidentale si è allargata a macchia d'olio in tutta la regione e in altre province dell'universo musulmano. Scontri a Tunisi, in Libano, Yemen e cortei di protesta a Kabul, in Malesia e in Bangladesh. A Tripoli, nel Libano settentrionale, è stato dato alle fiamme un Kentucky Fried Chicken, almeno un morto tra i dimostranti. Una lunga serie di manifestazioni cruente che hanno investito tra l'altro anche le ambasciate inglese e tedesca in Sudan. I morti sono stati almeno otto, forse di più. Ma la minaccia che ciò possa costituire l'avvio di una nuova era di odi religiosi più accesi e uno scontro aperto tra civilizzazioni appare tangibile. E il video offensivo nei confronti della religione musulmana diffuso via Internet, all'origine delle manifestazioni, appare adesso un pretesto per rilanciare le aggresioni. Negli stessi Stati Uniti, in due università in Nord Dakota e Texas ci sono stati dei falsi allarmi per presunte bombe piazzate da sedicenti estremisti musulmani. In piazza al Cairo ci sono i poveretti e gli ignoranti. Quelli che ripetono inneggiando ad Allah la loro certezza sulle «colpevolezza» di Barack Obama e «il governo americano» perla diffusione del «film blasfemo contro l'Islam e Maometto». Quelli convinti che la pellicola sia addirittura «già diffusa nei cinema di Stati Uniti ed Europa». Quelli che vengono a manifestare con le pietre in mano e le magliette sudate perché così «difendiamo il Profeta contro chi ha sempre cercato di umiliare i musulmani di tutto il mondo». Vengono dalle periferie più disperate, dormono nelle moschee, mangiano lupini e pannocchie abbrustolite, vivono di illusioni, cercano una causa, una qualsiasi, pur di darsi una ragione. E ripetono con semplicità disarmante: «Non faresti così anche tu, non vorresti vendetta se fosse stato offeso Gesù?». Però ci sono anche i gruppi organizzati, pronti allo scontro, professionisti della violenza, le bandane nere sul volto, riserve di cipolle e limone in tasca contro i lacrimogeni, bastoni e coltellacci pronti per l'uso. Tra loro non è difficile individuare quasi sempre un imam, un leader spirituale, pronto a guidare e consigliare. Ieri in piazza Tahrir c'era addirittura un drappello di militanti di Al Qaeda — barbe folte e drappi verdi attorno alla testa — che sventolavano un gigantesco ritratto di Osama Bin Laden. «E stato l'unico che ha saputo imporre il rispetto per l'Islam», gridavano, fieri di esaltare il loro estremismo. Poco più di un anno e mezzo fa erano le avanguardie della «primavera araba», ora ne rappresentano il triste epilogo, il precipitare dalle speranze di rinnovamento democratico nel fanatismo dell'odio di religione. Così nel centro della capitale egiziana. La loro rabbia è tornata per il secondo giorno consecutivo a scatenarsi nella zona dell'ambasciata americana. Ma la situazione è rimasta tutto sommato sotto controllo. I gruppi salafiti, gli estremisti islamici, avevano programmato la cosiddetta «marcia di un milione di uomini». In mattinata però è stato l'intervento del neopresidente e leader del Fratelli musulmani, Mohamed Morsi, sulla tv nazionale mentre ancora era in visita a Roma, a imporre con decisione di calmare le piazze. Il suo rifiuto a condannare l'attacco di Bengasi aveva infatti spinto Obama a telefonargli personalmente ed esprimergli il proprio dissenso. «La nostra religione ci impone di difendere i nostri ospiti, le loro case, i loro luoghi di lavoro», ha dunque dichiarato Morsi. Meno di un migliaio di manifestanti, per lo più giovani e giovanissimi, si è allora scontrato con la polizia. In serata è giunta notizia di un attacco da parte di estremisti armati contro una base dell'Onu lungo il confine con Israele nel Sinai. Lo scenario più grave a Khartoum. Qui la polizia locale non è riuscita a frenare i ripetuti attacchi contro l'ambasciata Usa. Sembra siano stati allora i Marines di guardia a uccidere due manifestanti (ma la versione non è confermata). Altri due sarebbero morti nelle strade del centro. Aggredita anche la rappresentanza tedesca, che è stata parzialmente incendiata, pare su istigazione di un noto imam locale, Mohamed Jazouly, che avrebbe accusato il governo di Berlino di non censurare le vignette anti islamiche. Gruppetti di manifestanti hanno brevemente fatto irruzione nel perimetro della rappresentanza inglese. Indenni tutti i diplomatici stranieri. A Tunisi i morti sarebbero tre, oltre 28 i feriti. Scontri anche in Yemen. Qui la rappresentanza Usa è stata salvata da un folto contingente di Marines mandato d'urgenza.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Truffe, spaccio e prediche. La «cellula» di ultrà copti dietro il video incendiario "


Guido Olimpio

WASHINGTON — Nakoula Basseley Nakoula, un copto egiziano con precedenti per truffa e altro. Joseph Nasralla Abdelmasih, stessa fede e capo di un'associazione caritatevole. Steve Klein, fondamentalista evangelico impegnato in una sua battaglia personale contro Islam, gay, mormoni, cattolici. Morris Sadek, egiziano copto bandito dal suo Paese, il propagandista. Personaggi singolari. Quattro figure che avremmo potuto definire «originali» se non avessero offerto ai salafiti il pretesto per incendiare ambasciate e uccidere. Le indagini — ora se ne occupa anche l'Fbi —hanno portato l'attenzione sul quartetto, responsabile di aver confezionato il filmetto blasfemo sul Profeta. Estremisti che hanno usato la California come piattaforma per lanciare il loro attacco. Persone solo in parte conosciute. Nakoula ha dei precedenti: storie di spaccio, furto di identità, imbrogli. Per i quali si è fatto 21 mesi di galera. Poi è tornato libero. Un rilascio sul quale — a sorpresa — è stato deciso di aprire un fascicolo investigativo per scoprire se è avvenuto in modo irregolare. Potrebbe essere il cavillo legale per riportarlo tra le sbarre e dare un segnale di punizione. Abdelmasih, invece, si è distinto per qualche sortita anti musulmana. La più nota nel 2010 quando è emerso il progetto per la costruzione di una moschea vicino a Ground Zero, a New York. Questo il suo slogan: «Svegliati America, fermiamo l'islamizzazione». Poi Sadek, sospettato di aver inviato il filmato ai media egiziani. Infine Klein, ex veterano del Vietnam, molto presente su un network satellitare, «Media for Christ» che trasmette sermoni, preghiere e messaggi rivolti sopratutto ad arabi di religione cristiana. Ma non c'è solo questo. Klein è noto agli esperti che seguono le formazioni oltranziste, islamofobe e razziste. Un piccolo rappresentante di una realtà sotterranea quanto diffusa. Quanti seguono queste tendenze hanno messo in guardia sulla crescita esponenziale di gruppi fondamentalisti cristiani pronti a sfruttare le tensioni in Medio Oriente e il timore del terrorismo. In una lista di 3o «teste calde», compilata da un istituto che tiene d'occhio il fenomeno, c'erano almeno tre elementi indicati come islamofobi. E sono costoro a cercare un patto con alcuni copti stabilitisi negli Usa. La comunità — va ricordato — è vittima in Egitto di persecuzioni, violenze e attentati, compreso quello contro una loro chiesa ad Alessandria. Lo Stato ha fatto ben poco per proteggerla. Dunque è possibile che qualcuno decida di rispondere con una propaganda violenta e anti musulmana. Abdelmasih, secondo un'inchiesta del Los Angeles Times, ha cavalcato questi sentimenti di rivalsa e attraverso la sua fondazione — mandata avanti con 8 dipendenti —ha raccolto denaro. Lui l'ha creata mettendoci soldi suoi (3o mila dollari) nel 2005 riuscendo poi ad avere un po' di seguito. Nella dichiarazione dei redditi ha precisato di aver ricevuto un milione di dollari in donazioni. Impossibile stabilire le loro identità. Resta il fatto che lo hanno aiutato a portare avanti le sue idee oltranziste. Rinnegate, però, con fermezza dai vertici della Chiesa copta, consapevoli delle conseguenze dello stupido film.

La STAMPA - Domenico Quirico : " Gli scugnizzi del Cairo sfidano polizia e imam: Ci hanno traditi tutti "


Domenico Quirico

Dietro i vetri centinaia di bambini sporchi scalzi magri, gli occhi scuri e lustri come olive nere, con in mano sassi e bastoni, guardavano avidi, gli occhi incattiviti dallo stupore, quella meraviglia di stucchi posate piatti signore ingioiellate. Mai nella loro vita di abitanti della terribile palestra degli slums della capitale, quartieri pieni di croste che sembrano malati di lebbra, loro figli e orfani di una miseria che non conosce regimi sigle presidenti, avevano scrutato così da vicino il paradiso degli altri.

Accanto a me una splendida signora li fissava, lei pure, dall’altra parte del vetro, elegante, la bellezza delle egiziane che è negli occhi profondi e lucidi sotto uno spessore di ombra, espressivi con una vibrazione appassionata, nei quali si sospettano orizzonti sterminati di seduzione. Una signora di quella borghesia grassa e sontuosa che ha consegnato l’Egitto di Nasser e di Mahfuz ai salafiti e ai Fratelli, viscidi e politicanti. Usciva da una festa di fidanzamento nei saloni dell’albergo; attendeva invano, ahimè vista la guerriglia dei dintorni, la sua Mercedes per tornare a casa. È rimasta muta per mezz’ora, immobile. Poi ha sputato per terra, sì, ha sputato sul lucido pavimento di marmo della hall: con odio, con rancore.

I poliziotti egiziani non hanno manganelli, ma lunghi bastoni di legno che escono intatti da epoche violente, dalle repressioni senza freno dei khedivè e dei mamelucchi. Quando acchiappano un dimostrante lo tirano da parte, col guizzo di un animale che, afferrato un boccone tra i denti, si tira in un angolo. E poi in gruppo lo gettano a terra e lo massacrano con quei bastoni. Ieri sono state decine i feriti e c’è scappato pure il morto. Ho raccontato a un amico egiziano questi spettacoli feroci che ho visto in strada ieri, e lui, che è un reduce dei giorni di Tahrir, un libertario senza macchia, mi ha confidato: «Questa volta se fossi stato presente, sarei stato al fianco dei poliziotti». Cosa sta scatenando questa storia sudicia e ambigua del film blasfemo?

Piazza Tahrir è a 100 metri dall’ambasciata degli Stati Uniti, in fondo a una via stretta; proprio di fronte, dalla parte opposta, c’è il ministero degli Interni che i dimostranti avevano ostinatamente e invano tentato di assaltare durante la rivoluzione. Ieri alle undici la polizia ha costruito con blocchi di cemento un muro alto tre metri davanti all’ambasciata. Come aveva fatto per difendere il ministero.

Non so quanto la religione abbia legami, anche vaghi, con la guerriglia di ieri al Cairo. Sospetto nessuno. A tentare l’ennesimo assalto all’ambasciata non ho visto i «barbuti», i fondamentalisti turbati dalla blasfemia. Quelli erano sulla piazza che comiziavano e inveivano, a parole, contro ebrei e americani. Erano con le pietre scugnizzi analfabeti, bande di orfani della strada che non sapevano forse nulla dello sciagurato film su Maometto; e poi gli eterni «baltagheia», teppistume prezzolato un tempo dal vecchio regime, che trovano nel caos il loro utile. E infine gli ultras delle squadre di calcio, il sale di tutte le violenze, che ha messo a frutto una buona scusa per vendicarsi dell’odiata polizia.

L’indignazione per il film maledetto è diventata parte del gioco politico cairota, serrato a pochi mesi ormai da nuove elezioni; mentre la popolarità dei Fratelli musulmani sta calando alla prova del governo, compromessa dall’impegno per impadronirsi di ogni cantuccio del potere. E c’è lotta attorno al presidente Morsi, detestato da molti: quale migliore occasione per accusarlo, anche nel suo partito, di essere troppo morbido con gli americani, gli arroganti padroni di Mubarak. Un nuovo assalto all’ambasciata era, dunque, una trappola pericolosa. I Fratelli hanno invitato i militanti in tutto l’Egitto a protestare contro il film, ma restando pacificamente davanti alle moschee. Una acrobatica operazione di recupero del consenso, nello stile della setta.

A mezzogiorno in piazza Tahrir, tutt’intorno l’eco fievole della città come un mare, è arrivato Mazhar Shahin: lo chiamano l’imam della rivoluzione, predica come una star alla moschea Omar Makram. Asciutto come gli antichi santi di legno che lumeggiano nelle chiese toscane, senza nemmeno una sfumatura di quella dolcezza un po’ untuosa che solitamente accompagna i religiosi, ha deciso di pregare in piazza per calmare gli animi, evitare nuove violenze. Lo attendeva una folla furiosa inquieta: si brucia una bandiera americana, i cori urlano: «Obama, vieni a raccattare i tuoi cani»; si scandisce il luogo di una grande vittoria di Maometto contro gli ebrei. L’imam, che sprigiona fermezza, carattere spedito, inizia a parlare: «Se vogliamo salvare la rivoluzione dobbiamo fermare il sangue… non c’è conflitto oggi tra noi e la polizia... i cristiani di Egitto non hanno colpa per quei maledetti… chi è venuto per difendere il Profeta resti con noi, chi è venuto per assaltare l’ambasciata se ne vada». Si incammina in corteo pacifico, sfilano portati in trionfo alcuni ufficiali della polizia vicini ai salafiti, che esibiscono la barba e tentano di rappacificare i colleghi che difendono l’ambasciata. Poliziotti con la barba: ecco il nuovo Egitto.

Ma i piccoli teppisti, scomparsi durante la preghiera, riappaiono, cominciano a lanciare sassi oltre il muro. I poliziotti resistono 40 minuti senza reagire alla sassaiola che ha un fragore di tempesta, poi partono i primi lacrimogeni. Una strana battaglia si sposta per ore sulla Corniche, il viale che costeggia il Nilo attorno all’Intercontinental, agenti e ragazzi si scambiano lanci di sassi, e insulti e gesti di scherno. Sono ben organizzati, i lanciatori ribelli, tirano più lontano e più fitto, alcuni li proteggono con scudi di lamiera, altri, i cacciatori di lacrimogeni, raccolgono con uno straccio i candelotti roventi e li gettano subito nel Nilo. Sul selciato ciabatte abbandonate, il corpo di un uomo ingombra, tossendo per i gas. Un vecchio viene avanti nel fragore delle pietre lungo la sponda del fiume con le braccia aperte e ripara con il corpo una bambina. La polizia ripiega, poi torna. A mano a mano che sale e poi declina il pomeriggio, si ha l’impressione che in quel frammento di città, chiusa, secca, sorda, qualcosa si consumi e si disfi. Tutto diventa usato, torbido, pericoloso. Il mio amico, contemplando i vetri spaccati della sua auto, mi confida stremato: «Tahrir è stato il vero Egitto, puro spontaneo, sano, nostro. Senza trucchi. E non potrà tornare».

La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " Obama: Non ci ritireremo mai "


Paolo Mastrolilli, Barack Obama

Le bare bianche di Chris Stevens, Sean Smith, Tyrone Woods e Glen Doherty, coperte dalla bandiera a stelle e strisce, sono state portare a braccia da sei marines nella base di Andrews, per ricevere ieri l’ultimo omaggio dell’America. Davanti a loro, il presidente Obama ha promesso: «Gli Stati Uniti non si ritireranno mai dal mondo, e continueranno a lottare per la dignità e la libertà che ogni essere umano merita». E ha aggiunto: «Giustizia sarà fatta. Saremo risoluti».

Salutando le vittime di Bengasi, il comandante in capo ha sottolineato che «l’America è un paese amicoditutti,chenonsipreoccupa solo dei suoi interessi». Il segretario di Stato Clinton invece ha denunciato la violenza assurda provocata da «un video orribile con cui non abbiamo nulla a che vedere», ma ha aggiunto che con la Primavera araba la gente «non intendeva scambiare la tirannia di un dittatore con quella della folla».

Obama promette di restare nella regione e punire i colpevoli, mentre il mondo islamico si infiamma e sul fronte interno scoppia la polemica intelligence. La Cnn ha rivelato che 48 ore prima delle proteste i servizi avevano inviato al Cairo un rapporto che segnalava la rabbia arabaperilfilmsuMaometto.Ilcable però non era arrivato a Bengasi e Tripoli, e non parlava di minacce specifiche. Secondo i critici, è la prova del fallimento dell’Intelligence. La Casa Bianca ha risposto che ogni giorno vengono distribuiti migliaia di rapporti, e questo non segnalava attacchi, mentre ha chiestoaGoogleditoglieredaYouTube il video. Google ha però detto no, spiegando di aver già censurato il filmato in India e Indonesia, dopo averlo bloccato in Egitto e Libia.

Obama si gioca due cose fondamentali: la rielezione, e l’eredità storica. Molti analisti pensano che Romney lo ha attaccato perché i neocon hanno vinto il braccio di ferro con i realisti per l’influenza sul candidato repubblicano, e il direttore del New Yorker David Remnick ha scritto che il premier israeliano Netanyahu ha stretto un’alleanza con loro per battere Obama a novembre. Vero o no, per il presidente la risposta è la stessa: dimostrare agli americani che è un comandante efficace e farli stringere intorno a lui.

Questo si lega al secondo punto, perché se la crisi diventa la prova chelaPrimaveraarabaèsfuggitadi mano, Barack rischia la rielezione e il posto nella storia. «Dietro a queste azioni - dice l’ex vice segretario del Pentagono Lawrence Korb - ci sono gruppi estremisti scontenti per la direzione presa dalla primavera, che cercano di provocare una svolta radicale attaccando i deboli governi in carica e le loro relazioni con l’Occidente. L’interesse degli Stati Uniti è che falliscano. Obama ha giustamente chiamato il presidente egiziano Morsi per lamentarsi della sua reazione ambigua alle proteste, e ha ottenuto una posizione più dura. Però chi dice che abbiamo sbagliato a dialogare non sa di cosa parla. Questi governisonol’argineallamareaestremista, per evitare un nuovo Iran».

Un altro fronte per Obama è quello interno. L’Fbi ha emesso un bollettino, con cui avverte del rischio che gruppi estremistici americani approfittino della situazione per portare la violenza in casa. Ieri le università del Texas e del North Dakota sono state evacuate, per allarmi bomba risultati poi falsi. Un pericolo che deve avere la precedenza sulle beghe da campagna elettorale.

La STAMPA - Giovanni Cerruti : " Nella notte di Bengasi i droni Usa volano in cerca degli assassini "

I droni che cercano gli assassini dell’ambasciatore Chris Stevens e tre funzionari preparano i piani per la cattura. Magari è successo pure questa notte. E così Bengasi si risveglia tra domande e paure, con l’aeroporto che chiude «per 48 ore, motivi di sicurezza» e poi riapre dopo mezza giornata, i media libici che raccolgono voci di un’esplosione e sparatorie per impedire l’atterraggio di un misterioso volo Usa, dicono almeno un morto. Verifiche complicate, conferme nessuna.

Il Benina International Airport è a 30 chilometri dalla città, nel venerdì della preghiera si arriva in mezz’ora. E sembra abbandonato, alle undici del mattino. Al posto di blocco solo la mimetica blu di un poliziotto giovane, e piuttosto nervoso. Non ci sono altre divise, altri militari. Mohammed Taba, il direttore dell’aeroporto, sta chiuso invisibile nel suo ufficio e risponde al telefono. «Non so niente, mi hanno detto di chiudere lo scalo attorno a mezzanotte». Non sa niente nemmeno degli scontri, si capisce, e ammesso che ci siano stati. Ma sono quei «motivi di sicurezza» che allarmano Bengasi. Come ammettere o lasciar credere che la sicurezza, da queste parti, non è garantita.

Alle nove del mattino il volo della Turkish è rientrato a Istanbul, nessuno li aveva avvertiti. Anche se il Benina International l’hanno riaperto a mezzogiorno dalla Turchia hanno già cancellato partenze e arrivi per almeno tre giorni. Aspettano, anche loro, di sapere quel che accadrà nei prossimi giorni, dopo queste notti passate ascoltando il lamento dei droni. Davvero gli americani si preparano a catturare gli assassini dell’ambasciatore Stevens? La tv di Bengasi rilancia una dichiarazione del portavoce della Casa Bianca: «La Libia non è ancora in grado di garantire la sicurezza». Sembrerebbe una conferma. Dalla Spagna sono già arrivati 50 marines, «a disposizione dell’ambasciata di Tripoli».

Alle quattro del pomeriggio il poliziotto piuttosto nervoso non c’è più. Al suo posto son tornati i militari, i fuoristrada con le mitragliatrici montate sul cassone pattugliano il parcheggio, altri ancora il perimetro della pista. Come se i «motivi di sicurezza» venissero da terra, da questa periferia dove la brigata «Ansar al Shaaria» ha sempre avuto il controllo. Sta arrivando il volo da Tripoli, sta partendo quello della Tunisair per il Cairo. Ai passeggeri hanno detto che è tutta colpa del vento, del «ghibli» che soffia forte dal deserto e alza una nebbia di sabbia fine e calda. Ieri c’era davvero, ma a questa scusa hanno creduto in pochi. C’è quasi sempre, il «ghibli», a metà settembre.

Bengasi aspetta, aspetta almeno di capire. E il nuovo premier Mustafa Abu Shagur, da Tripoli, conferma 4 arresti e interviene per allontanare sospetti e timori. Soldati americani in Cirenaica per catturare gli assassini? «Sarebbe violare la nostra sovranità, non lo accetteremmo». Sulla chiusura dell’aeroporto, nessuno commento, nessuna spiegazione. Così rimane l’unica, e forse la più semplice: che sia stato chiuso, appunto, per permettere ai droni il lavoro di «intelligence». E’ proprio la zona dell’aeroporto la più sospettata, quella lasciata al controllo delle bande armate di «Ansar al Sharia». E poi giù per 400 km a Sud, fino a Derna.

Questo venerdì della preghiera e del sermone dell’Imam è cominciato con le voci dall’aeroporto e le raffiche di kalashnikov proprio davanti all’Hotel Tibesti, l’albergo dei diplomatici occidentali, frequentato anche da Chris Stevens. Due jeep che si sono allontanate in gran fretta, alle 7,45. A sera, poi, davanti all’ingresso erano almeno in cinquanta a gridare: «Via l’America dal Medio Oriente», «Obama, Obama, siamo tutti Osama». Ma erano almeno il doppio i ragazzi con i loro cartelli in Piazza dell’Albero, a cinque minuti da lì: «Grazie Chris per il tuo impegno», «Teppisti e assassini non rappresentano né Bengasi né l’Islam».

Nessun incidente, nella Bengasi che non vuolessere o diventare come Il Cairo. Ma da Derna le voci dell’aggressione al parroco polacco, con le suore della piccola chiesa che sono state messe al sicuro dall’intervento dei poliziotti libici, sono state verificate e confermate. C’erano timori anche a Bengasi, per la verità. In via Torino, la strada stretta e piena di botteghe che finisce nella Piazza dell’Albero, la chiesa è invisibile, nascosta da un portoncino di legno dipinto di verde, il foro di una pallottola ben visibile, nessun simbolo religioso, nessuna croce. Ieri, dentro il portoncino, poliziotti libici.

Perché in questo Bengasi è come tutta la Libia. Non si sa chi sia il nemico della nuova Libia, da dove venga il pericolo, da quando è caduto il regime del Colonnello Gheddafi troppi armati e troppe armi. Il premier Abu Shagur, nei 19 capitoli del suo programma, l’ha messo al dodicesimo posto: «Provvedere alla raccolta delle armi di tutti i tipi: pesanti, medie e leggere». Si aspettano che vengano consegnate domani, 16 settembre, festa nazionale, 81° anniversario della morte di Omar Mukhtar, l’eroe della resistenza contro l’occupazione dell’Italia del Duce. Non è la prima volta, che aspettano. Probabile che non sia l’ultima.

Dal Tibesti se ne sono andati dopo mezz’ora, i ragazzi di Piazza dell’Albero sono ancora lì. «Basta con le armi», si legge su un altro cartello. Ma lo sanno pure loro che dal 23 ottobre di un anno fa, da quando proprio a Bengasi si è celebrato il battesimo della nuova Libia, le armi regalate dopo gli assalti agli arsenali di Gheddafi, i kalashnikov venduti a 500 euro nelle strade di Tripoli, sono ancora in circolazione. Non c’è premier, o ministro o capo di stato maggiore che sia riuscito nell’impresa. Adesso, a cercar le armi pesanti, i nuovi arsenali, i mortai che hanno devastato il consolato Usa, volano i droni.

Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Stampa, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it
lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT