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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - Il Giornale - La Stampa - L'Unità Rassegna Stampa
22.08.2012 Siria, Assad continua coi bombardamenti. Che cosa fa l'Occidente ?
cronache di Guido Olimpio, Fausto Biloslavo, Domenico Quirico. Fantapolitica da Udg

Testata:Corriere della Sera - Il Giornale - La Stampa - L'Unità
Autore: Lorenzo Cremonesi - Fausto Biloslavo - Domenico Quirico - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Sulla crisi siriana guerra di parole fra Russia e America - La guerra segreta contro Assad: mazzette ai vip siriani per fuggire - Aleppo, labirinto di morte - La tentazione di Obama: raid in Siria per fermare Israele»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/08/2012, a pag. 14, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Sulla crisi siriana guerra di parole fra Russia e America ". Dal GIORNALE, a pag. 12, l'articolo di Fausto Biloslavo dal titolo " La guerra segreta contro Assad: mazzette ai vip siriani per fuggire ". Dalla STAMPA, a pag. 10, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Aleppo, labirinto di morte ". Dall'UNITA', a pag. 12, l'articolo di Umberto De Giovannangeli dal titolo " La tentazione di Obama: raid in Siria per fermare Israele" , preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Sulla crisi siriana guerra di parole fra Russia e America "


Vladimir Putin, Barack Obama

In Siria si muore e la diplomazia litiga. Lunedì Barack Obama ha messo in guardia Damasco: «Se usate le armi chimiche potremmo intervenire». Ieri hanno risposto gli alleati del regime. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha ammonito le potenze straniere a evitare «ingerenze esterne» sollecitandole invece a creare condizioni per una trattativa seria. Un appello rivolto anche al governo siriano che, secondo Mosca, ha compiuto «passi insufficienti» verso la riconciliazione. Una critica interessante alla quale ha reagito in modo indiretto il vicepremier Qadri Jamil qualche ora dopo il suo arrivo nella capitale russa. «Siamo pronti a discutere delle dimissioni di Assad ma questa non deve essere una precondizione per avviare un dialogo nazionale», ha affermato, secondo una versione, l'inviato di Damasco. Parole (forse prese fuori contesto) per mostrare una timida apertura. Sperando che dall'altra parte della barricata ci sia qualcuno disposto al compromesso. Ma in pochi lo credono.
I russi, che hanno antenne e uomini sul terreno, nel tentativo di salvare l'avamposto manovrano per individuare uno sbocco negoziale. Così difendono Assad ma lo spronano a fare di più mentre sulla scena internazionale parano le iniziative dei rivali occidentali. E allora ribadiscono il no a qualsiasi intervento (come la no fly zone) che indebolisca il regime. Lavrov ha insistito sul no a iniziative unilaterali: «Siamo contrari alla democrazia imposta con le bombe». Posizione condivisa dai cinesi. Mosca e Pechino sono unite nel porre il veto nel caso l'Occidente chieda all'Onu un'azione più muscolosa.
La sponda del Cremlino ha dato modo ai siriani di entrare nella polemica diretta con gli Usa. Sempre il vicepremier Qadri Jamil ha osservato che gli avvertimenti di Obama sono «propaganda elettorale» e che un eventuale intervento oltre a essere «impossibile» rischierebbe di allargare il conflitto. Un'allusione chiara ai pericoli di «contagio» nel vicino Libano. Ieri a Tripoli (Nord del Paese) sono tornati a scontrarsi gruppi filo Assad con gli amici dei ribelli.
In questa fase i più scontenti appaiono gli insorti. Sono ricevuti nelle capitali, incassano sostegno diplomatico ma affermano che non tutte le promesse sono state mantenute. E in particolare se la prendono con gli Stati Uniti che non avrebbero inviato gli aiuti militari che tutti attendevano. Washington, attraverso l'intelligence, ha favorito l'arrivo di qualche partita d'armi ma ha preferito lasciare il «lavoro» ai sauditi e ai turchi.

Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " La guerra segreta contro Assad: mazzette ai vip siriani per fuggire "


Fausto Biloslavo

La guerra segreta in Siria si combatte a colpi di mazzette per convincere i pezzi grossi del regi­me a disertare. Occidentali e Paesi arabi stanno sborsando un fiume di denaro per «incentivare» la fuga di generali e politici con l'obiettivo di far crollare il sistema di Bashar al Assad. Lo rivela il Times che indica come chiave di volta della strategia della mazzetta una riunione a Doha, in Qatar, dello scorso mag­gio degli ambasciatori a Damasco. Nel giro di soldi per oliare le diser­zioni sono coinvolti anche i Paesi cosiddetti «amici della Siria», tra i quali c’è l'Italia.
Dopo l'incontro di Doha è un da­to di fatto che i disertori sono au­mentati a dismisura raggiungendo i vertici del regime. In luglio il pri­mo vero Vip siriano ad abbandona­re Assad è stato
il suo amico di gio­ventù, Manaf Tlass, uno dei più fa­mosigeneralidellaGuardiarepub­blicana.
«Non è un disertore, ma un milionario» ha spifferato al Ti­mes uno dei coordinatori dell'Eser­cito siriano libero. L'alto ufficiale aveva già pronto un esilio dorato a Parigi dove era riparato da tempo il padre, che in Siria è stato ministro della Difesa.
Nel primo anno di rivolta erano scappati soldati, ufficiali inferiori,
qualche colonnello e generale. Fra giugno e agosto gli alti ufficiali sono aumentati ad un ritmo impressio­nante. Solo in Turchia hanno trova­to rifugio 27 generali siriani, che non si sono mossi con le valigie di cartone. «Sono state pagate delle mazzette - racconta una fonte del Times- . I servizi segreti occidentali si impegnano ad incentivare la di­serzione degli ufficiali di regime». Il 5 agosto è fuggito in Turchia il ge­nerale Muhammad Ahmed Faris, il primo astronauta siriano nello spazio con le navicelle sovietiche. Un colpo di immagine non indiffe­rente, ma la vera batosta è arrivata il giorno dopo con la diserzione in Giordania del primo ministro, Riad Hijab, nominato da poco da Assad.
L'inizio dell'erosione a suon di soldi è cominciata con i diplomati­ci. Il più importante, che ha abban­donato il posto a luglio, è Nawaf Fa­res, ambasciatore siriano a Ba­gdad,
veterano del regime con inca­richi nei servizi segreti.
Tutto è iniziato a Doha quando arabi ed occidentali si sono resi con­to, secondo una fonte del
Times a conoscenza dei dettagli della riu­nione, «che le diserzioni non erano sufficienti. Bisognava incentivarle. La parola mazzette non è mai stata pronunciata, ma alla fine era chia­ro a tutti il da farsi ». Stiamo parlan­do di milioni di dollari e della garan­zia di un posto al sole in esilio o nel futuro della Siria per evitare l'incu­bo peggiore dell'Occidente, ovve­ro la nascita di un nuovo Iraq. Ame­ricani, inglesi, turchi, sauditi e l'emiro del Qatar sono in prima li­nea nell'elargire un lauto compen­so per la diserzione, che spesso è complicata dai legami familiari e tribali. Hijab, l'ex primo ministro, ha organizzato prima della fuga la discreta partenza dei numerosi pa­renti, per evitare rappresaglie. Tut­ta gente che non va a dormire sotto una tenda di un campo profughi. Questo genere di operazioni, oltre ad essere pericolose, costano mol­to e devono­garantire un futuro eco­nomico a chi si imbarca nell'avven­tura.
L'ultima voce che circola sulle di­serzioni eccellenti riguarda il vice­presidente siriano Farouq al-Sha­raa. Ex ambasciatore a Roma che americani e turchi vedrebbero be­ne al posto di Assad. Da Damasco smentiscono qualsiasi fuga e tanto­meno gli arresti domiciliari per Al Sharaa, ma ieri Haytham al-Ma­leh, prigioniero politico siriano di lungo corso, non aveva dubbi. Il nu­mero due del regime si troverebbe «in un Paese arabo vicino e annun­cerà ufficialmente la sua defezione tra qualche giorno». Il veterano dell'opposizione ha annunciato molte sorprese nelle prossime setti­mane e si dice convinto che «la ban­da al governo, erosa al suo interno, crollerà presto» a suon di dollari.
Intanto, dopo le minacce del pre­sidente americano Barack Obama di intervenire militarmente in Siria se sarà superata«la linea rossa»del­l’impiego di armi chimiche, ieri il
regime ha reagito accusando Washington di essere in cerca di pretesti per aggredire Damasco. «Quelle di Obama sono minacce propagandistiche legate alle elezio­ni presidenziali», ha accusato il vi­cepremier Kadri Jamil, che ha para­gonato l­a situazione in Siria a quan­to a suo tempo avvenuto in Iraq, do­ve «l’intervento straniero è stato in­nescato dal pretesto della presen­za di armi di distruzione di massa ». Un altro «pretesto» potrebbe esse­re rappresentato dalle continue no­tizie di eccidi, come quello denun­ciato ieri dai ribelli con il ritrova­mento di 40 cadaveri nei sotterra­nei di una moschea presso la capita­le.
Senza dimenticare l’uccisione in 48 ore di due giornalisti stranieri ad Aleppo, la giapponese Mika Yamamoto e il palestinese Bashar Fahmi.

La STAMPA - Domenico Quirico : " Aleppo, labirinto di morte "


Domenico Quirico

Quando le granate ti svegliano pensi sia stato un tuono. Se non sono eccessivamente vicine non ti svegli nemmeno. Ci si abitua a questa vita scandita dalle cannonate, al vibrare intenso dell’aria e se queste energiche onde sonore vi mancano, tendete l’orecchio verso l’orizzonte silenzioso.

Sai che Aleppo dal 20 luglio, data della rivolta, è bombardata a morte, sai che manca il carburante per fuggire e la benzina, sporca, venduta a bottiglie, uccide i motori e ti lascia a piedi su una strada nuda, esposto al tiro dei cecchini; sai che c’è poco da mangiare e che tutta questa gente ha figli e mariti sparsi sul fronte che cercano di fermare l’avanzata degli uomini del regime, decisi a prenderli a tenaglia. E poi saldare i conti. Vivono in una città in cui la morte è in agguato, sperando che anche stanotte la fortuna li assista. Non ho mai visto scene di panico. Né isterismi, raramente ho sentito parole cariche di odio. So che la fede infonde loro coraggio e speranza, tutto finirà e la vita tornerà serena. Mai come qui ho visto la gente pregare con tanto umile fervore in mezzo ai morti, al sangue, alle urla disperate. È la notte il tempo in cui la guerra ad Aleppo diventa più terribile e vera.

Non hai il diritto di sentirti in pena, disgustato. In giro le luci si spengono a poco a poco e la città sembra tranquilla, si raggomitola su se stessa e tace. Sali sul tetto, tentazione pericolosa, per ascoltare il suono della guerra e vedere come prende il potere nella notte. Qui non arriva il puzzo delle tonnellate di rifiuti che da settimane ingombrano le strade, e le milioni di mosche che coprono la città come se fosse già morta. Si è incapaci di dormire commossi dal cielo stellato, dal silenzio che sta per finire, dal ricordo rassegnato dei morti, dalla fuga del tempo, dall’isolamento.

Alle 21 cento muezzin insieme cominciano a gridare la preghiera. Tutti i minareti illuminati da splendide luci verdi sembrano i segni con cui la città impavidamente si fa riconoscere dai suoi assassini. Il grido cresce e inizia la danza crudele degli elicotteri ringhiosi come bulldog e dei cannoni. Prima (e sono passati soltanto dieci giorni), le granate finivano più in là. Udivi il colpo quando uscivano dai cannoni del regime, una specie di gemito rauco, poi le sentivi arrivare ondeggiando verso di te. Adesso invece esplodono nella strada e all’angolo, e nella grande via che sta a sinistra. Quando arrivano così vicino allora il suono cambia: ti fischiano contro come se tu fossi il bersaglio e poi il fischio diventa un urlo vicinissimo e quando esplodono sembra un tuono. Ti ritiri dal tetto sforzandoti di trovare il respiro giusto.

Puoi solo aspettare, in guerra l’attesa è una parte importante, una parte difficile. Da tre settimane ormai tutta Aleppo aspetta. Aspetta che la sera inizi il bombardamento, poi la fine, poi un nuovo inizio. Le granate partono da tutte le direzioni senza preavviso e, temo, senza una meta. Perché hanno bombardato questa casa che è all’angolo di una moschea? Perché questa e non un’altra? Perché questo palazzo dove le tende sporche ormai sventolano come vele nelle finestre senza un vetro intatto, e non quello accanto? Si vedono persone ferme sulle soglie degli edifici e dei pochi negozi aperti, in attesa paziente: poi d’improvviso arriva la bomba e si alza una colonna di ciottoli di cemento e il fumo nero comincia a diffondersi per l’aria.

Non puoi sempre aspettare in eterno; non puoi essere cauto per tutto il giorno. Così nella notte folle di Aleppo in guerra può accadere che ti fermi a cenare a un posto di controllo dei rivoluzionari; sul marciapiede, in piena strada: «Taaman, taaman», ok, va bene, va bene, ripete il guerrigliero. E in un attimo compaiono un tavolo e le sedie e da una casa vicina accorre un ometto sudato che porta il tè. Tiri fuori il tuo sacchetto di olive (non c’è molto da comprare) e la piadina ancora calda. La coda poteva durare ore, un siriano fortunato e gentile che usciva trionfante dalla calca disciplinata a mala pena dai miliziani (sono loro che garantiscono la distribuzione) te l’ha donata, senza volere nulla: benvenuto in Siria!

Quando sono arrivato qui la prima volta hanno tentato di insegnarmi la geografia della città, quella che serve per sopravvivere, I quartieri nostri e quello loro, i passaggi sicuri, le vie dei cecchini. In quella direzione nel quartiere di Tarek el Bab si poteva avanzare di almeno un chilometro verso l’aeroporto militare. Adesso la spazio per sopravvivere (forse) è ridotto ad alcune centinaia di metri. Tutta la città sfoglia ogni giorno questo atlante, lo aggiorna con le notizie delle avanzate e dei bombardamenti, le case devastate. E anche con la nuova pratica dei soldati: posti di blocco improvvisi con i carri armati nelle strade di collegamento tra quartiere e quartiere, un modo per spezzare la città.

Poi, un pomeriggio, due ore sotto il bombardamento di un Mig nel quartiere di Saif al Daula, basta, retrocedi e prendi un piccolo taxi giallo per tornare nelle retrovie. E dovresti prevedere che l’autista sia scrupoloso, prenda sempre la strada più corta: che sa lui che sei un occidentale, non hai il visto e non puoi finire nelle mani dei soldati di Bashar? Ti salva dietro una curva l’irrompere, gigantesco, della sagoma della cittadella, il quartier generale dei regolari. Alt, alt! Indietro. Ti senti come dimenticato in un labirinto quando il bigliettaio se n’è andato a casa. Cento metri e saresti finito in mano agli altri. Il caso, la beffa.

Mangiamo le olive quietamente, mentre i rivoluzionari ci raccontano, ma senza enfasi, come ragionando del tempo e della terra che non dà grano, che nessuno li aiuta, proprio nessuno: ed elencano Francia, Spagna, Germania, Qatar, Arabia Saudita. «Non importa faremo da soli, vedi questo mitra? Ha ammazzato cinque soldati…». Tutto quello che fai in guerra è strano: perché quei tre ragazzi se ne vanno in giro dopo il tramonto in mezzo alle bombe, che sembra che i muri della città intera debbano spaccarsi e cedere sotto le martellanti vibrazioni dell’aria? E questi altri che hanno sfidato il bombardamento per affollare come formiche una sorta di sottoscala, dove, uno vicino all’altro, furiosamente in un ronzio da alveare, si affannano davanti ai videogiochi? E non è strano che io sia entrato pensando che fosse una postazione Internet? Internet! In una città dove i telefoni non funzionano più e spesso manca la luce?

E questa lugubre ma elegante signora tutta di nero avvolta, senza volto, che cammina dando il braccio al marito ed evitando le immondizie, dove va? E questo padre di famiglia, i cinque figli in colonna secondo l’età, che torna a casa con un paio di scarpe nuove in una borsa di plastica (i negozi di scarpe sono gli unici, chissà perché, che sono tutti aperti) e me le mostra con orgoglio? Perché ha rischiato la vita? Una notte ho incontrato un ragazzo che montava un puledro uscito dall’apocalisse di Dürer, e trottava tranquillo con in mano uno pneumatico nuovo di bicicletta. Molti sono dei resuscitati, dei Lazzaro che hanno visto con i loro occhi la riva dei morti...

Quando tutto finirà, il loro cuore traboccherà di odio o di pietà?

La gente cammina nella notte, arrivano ambulanze che depositano le vittime del bombardamento, i medici si affannano sulla strada, una bimba martoriata di schegge urla distesa sull’asfalto. Un altro bambino si aggira smarrito piangendo, nessuno gli bada: il padre è morto, è quello sdraiato sul pavimento, il sangue si allarga come una corona. Un soldato prega, nel caos, indifferente; un altro, sfinito, dorme di sbieco abbandonato su una sedia. Nessuno nella strada grida, per la maggior parte di questi uomini morire è un incidente, inciampano e scompaiono nella trappola come bestie sorprese. Chissà se anche per loro c’è un senso di frustrazione: coloro che amiamo sono fuggiti da se stessi e hanno lasciato fra le nostre braccia una parte di sé, la sola visibile, la sola tangibile, forse la sola che purtroppo abbiamo saputo amare.

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " La tentazione di Obama: raid in Siria per fermare Israele "


Barack Obama

Udg prende sul serio le 'minacce' di Obama a Bashar al Assad per quanto riguarda l'utilizzo di armi chimiche. Come se fosse sul serio quella la discriminante. Con quelle dichiarazioni, Obama ha, di fatto, dato il suo asseso al dittatore siriano perché continui coi massacri, a patto che li perpetri con armi non chimiche. Per quale motivo dovrebbe intervenire in Siria?
Secondo Udg :"
Intervenire in Siria per evitare che si realizzi il vero incubo di Obama: un attacco israeliano all’Iran nel vivo della campagna elettorale americana (...) I falchi di Tel Aviv possono essere frenati solo se si trovassero di fronte ad un conflitto già in atto alle porte di casa: è una riflessione che si fa strada nell’éntourage di Obama". Un'ipotesi talmente assurda e ridicola da non aver trovato spazio nemmeno sulle pagine del Manifesto.
Premesso che la capitale di Israele è Gerusalemme e non Tel Aviv, non si capisce che cosa c'entri lo Stato ebraico con un ipotetico intervento Usa in Siria. Se Israele deciderà di attaccare l'Iran lo farà a prescindere dai conflitti nei quali sono impegnati gli Usa.
Ecco il pezzo:

 

Intervenire in Siria per evitare la guerra in Iran.Guerra scaccia guerra. È la perversa logica del «male minore» che irrompe sul tormentato scenario mediorientale, anche se quel «male minore» può significare centinaia di morti. È il dilemma che oggi pervade Barack Obama. «Finora non ho dato l'ordine di intervenire militarmente ma se ci accorgessimo del dispiegamento e dell'utilizzo di armi chimiche, ciò cambierebbe i miei calcoli. Questa è la linea rossa che non va superata». È il monito che il presidente americano ha rivolto a Bashar al-Assad. Un monito che da più parti viene interpretato come il primo atto della «guerra minore». «Una storia pensata all'estero che ci ricorda la storia dell'Iraq». Parlando in conferenza stampa a Mosca, il vice premier siriano Qadri Jamil ha risposto così a una domanda sull'ipotesi di armi chimiche in Siria, avanzata nei giorni scorsi dall’inquilino della Casa Bianca: «L'Occidente - aggiunge - cerca una scusa per un intervento armato in Siria. Se questa scusa non funziona, ne troveranno altre. Ma noi diciamo che questo non è possibile». Jamil ha anche precisato che qualunque intervento straniero nel Paese sarebbe inopportuno oltre che impossibile e che rischierebbe di portare il conflitto ben al di là dei confini siriani. Ma ha comunque aggiunto che il Paese sarebbe «disponibile a discutere» le dimissioni di Assad, ma solo nel corso di un processo di dialogo nazionale, non come precondizione per lanciarlo. Evoca l’Iraq, il vice premier siriano. Ma il ricordo di quella rovinosa guerra, non rappresenta per Obama un incubo tale da fargli accantonare il proposito di mostrare i muscoli in Siria, a meno che Bashar al-Assad non accettasse la «soluzione yemenita» - l’esilio - in passato evocata dallo stesso presidente Usa. Intervenire in Siria per evitare che si realizzi il vero incubo di Obama: un attacco israeliano all’Iran nel vivo della campagna elettorale americana . Un attacco che verrebbbe sostenuto dal suo sfidante repubblicano Mitt Romney e che porrebbe Obama alle corde: rompere con l’alleato israeliano, e con l’influente comunità ebraica statunitense, o avallare l’intervento e così facendo rompere con buona parte del mondo arabo e islamico. Uno scenario che di giorno in giorno diviene sempre più realistico. E immanente. I falchi di Tel Aviv possono essere frenati solo se si trovassero di fronte ad un conflitto già in atto alle porte di casa: è una riflessione che si fa strada nell’éntourage di Obama, facendo nuovi proseliti. Dunque, l’intervento in Siria come «male minore», ma pur sempre «necessario». Perché di una cosa a Washington sono ormai certi: il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, la decisione di attaccare l’Iran del duo «negazionista» Khamenei-Ahmadinejad, l’ha già presa. E il conto alla rovescia è già iniziato. L’ultima conferma viene dalla rete televisiva israeliana Channel 10. Netanyahu «è determinato ad attaccare l'Iran prima delle elezioni americane» per le presidenziali, rivela l’emittente israeliana, precisando che «Israele è adesso più vicina che mai» a un'operazione militare contro Teheran. Dopo il sostanziale fallimento delle sanzioni internazionali, che non hanno impedito all'Iran di procedere con il suo programma nucleare, «dal punto di vista di Netanyahu sarebbe giunto il momento di agire», afferma il reporter dell'emittente, Alon Ben-David. Il giornalista è molto vicino alle Forze armate dello Stato ebraico e nelle ultime settimane è stato ospite dell'Air force israeliana per un periodo di addestramento per attività in aree di guerra, si legge sul Times of Israel. La guerra all’Iran potrebbe far esplodere la polveriera (nucleare) mediorientale, l’uscita di scena di Assad - e una Siria «controllata» dagli Usa - potrebbe «accontentare» Netanyahu e allontanare nel tempo i suoi bellicosi propositi verso il regime degli Ayatollah. In questa ottica, lo strumento militare sarebbe il proseguimento della politica con altri mezzi. Ma non è così. Il «male minore» sarebbe comunque la tomba della diplomazia. E della politica. Diplomazia e politica che ormai da tempo latitano in Medio Oriente. E così la Siria si è trasformata nel teatro di un conflitto che solo chi non vuol vedere o capire, continua a definire una «guerra civile», interna. Da tempo non è più così. Lo scontro si è già «internazionalizzato». Ma lo sarebbe ancor di più se il fronte siriano si congiungesse con quello iraniano. Così ragionano a Washington, e non solo. In Terrasanta non è più tempo di miracoli. Ciò che si preannuncia è un autunno di guerra. Si tratta solo di decidere quale.

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