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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
19.08.2012 Siria: che fine ha fatto il vice di Assad ?
I ribelli chiedono aiuto all'Occidente. Cronache di Lorenzo Cremonesi, Domenico Quirico

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Lorenzo Cremonesi - Domenico Quirico
Titolo: «'Arrestato mentre fuggiva'. Il giallo del vice di Assad - Tra i disperati di Aleppo: Perché non ci aiutate?»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/08/2012, a pag. 13, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " «Arrestato mentre fuggiva». Il giallo del vice di Assad ". Dalla STAMPA, a pag. 12, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Tra i disperati di Aleppo: Perché non ci aiutate?".

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " «Arrestato mentre fuggiva». Il giallo del vice di Assad "


Farouk Al Sharaa               Lorenzo Cremonesi

Disertore in Giordania? Oppure arrestato prima che riuscisse e passare la frontiera? O piuttosto rimasto a Damasco, coerente con la sua carriera per tutta la vita di fedelissimo al partito Baath, ma ormai visto come un personaggio scomodo dai duri della dittatura? Il giallo sulla sorte del vicepresidente Farouk Al Sharaa illustra con le sue ambiguità e incertezze il grande dramma che si sta consumando nelle stanze del potere siriano.
Sono ormai mesi che giungono segnali di tensioni crescenti tra le componenti più laiche e tradizionali del vecchio partito Baath, di cui il 73enne sunnita Sharaa è un esponente della prima ora sin da quando negli anni Sessanta andò a Londra a lavorare per la compagnia aerea di bandiera, e la nomenclatura sciito-alauita che fa parte dei circoli più intimi legati alla famiglia Assad. Lo scontro è lacerante. Da una parte ci sono i baathisti socialisti e nazionalisti, che videro nel loro movimento politico un modo per superare i settarismi, i tribalismi e le guerre di religione. Non a caso fondatore del partito fu il cristiano greco ortodosso Michel Aflaq, innamorato dei socialismi europei, che temeva i dogmatismi confessionali e vedeva nel Baath l'unico modo per garantire l'integrazione sociale tra gli arabi di ogni fede e minoranza. Hafez Assad, padre dell'attuale presidente Bashar, grazie al suo carisma e la durissima repressione contro l'irredentismo religioso sunnita, riuscì per oltre tre decenni a garantire l'impossibile: far convivere baathismo ed egemonia della minoranza alauita aiutata dai privilegi concessi alle altre minoranze.
Ma Bashar non ha le stesse capacità. Dopo la morte di Hafez nel Duemila, il giovane rampollo catapultato al posto di presidente si è fatto mettere i piedi in testa dai circoli alauiti. La Siria è diventata via via sempre più dominata dall'élite sciita, grazie anche alla sempre più stretta relazione con Iran ed Hezbollah libanese, e sempre meno baathista. Sharaa si è visto così promosso a ruoli sempre più prestigiosi, ma in realtà meno rilevanti. Da ambasciatore in Italia (1976-1980) a ministro degli Esteri sino al 2006. La sua fedeltà non ha macchie. Nel 2005 viene messo all'indice da Usa e Nazioni Unite per i suoi tentativi di copertura delle responsabilità siriane nell'assassinio del premier sunnita libanese Rafiq Hariri. Poi la nomina a vicepresidente, erosa tuttavia dai membri del clan Assad meno disposti ad ascoltarlo.
I nodi vengono al pettine però in modo clamoroso nel marzo 2011. Scoppiano le sommosse a Deraa. Sharaa vorrebbe mediare, Deraa è la sua città natale, si propone come uomo del dialogo. I giovani che si ribellano ai suoi occhi sono sunniti frustrati che chiedono eguaglianza e libertà, non «terroristi stranieri», come predica la propaganda ufficiale. Vede bene cosa è accaduto in Tunisia ed Egitto. L'onda della rivoluzione sta crescendo in Libia. La repressione violenta non fa che gettare benzina sul fuoco. Ma a Damasco nessuno gli dà retta. E men che meno Maher, il giovane fratello di Bashar, che manda le sue forze speciali a sparare alzo zero contro i manifestanti disarmati. Nella Lega Araba qualcuno nota le aperture del vicepresidente. Si fa il suo nome per un eventuale governo di transizione mirato alla progressiva esautorazione di Bashar. Ma gli alauiti fanno quadrato e rifiutano. Intanto crescono le diserzioni tra i quadri sunniti dell'esercito. A fine primavera si aggiungono i politici sunniti. Il 6 agosto scappa ad Amman il premier Riad Hijab. Giovedì a mezzogiorno la televisione satellitare Al Arabyia racconta che Sharaa sarebbe a sua volta fuggito in Giordania. Poche ore dopo, la smentita: non è lui, bensì il cugino più giovane. Ma ieri i portavoce del Libero esercito siriano ripetono che anche Sharaa avrebbe dovuto scappare. Si era recato a Deraa per cercare di portare con sé i famigliari. Ma è stato preceduto dai militari lealisti, che ne avrebbero persino catturati alcuni. In tutta la regione si intensificano i bombardamenti. Più tardi dal suo ufficio nella capitale negano tutto: «Sharaa non ha mai pensato di fuggire. Lavora al suo posto come sempre». Però lui non si vede e la sua biografia è stata rimossa dall'agenzia ufficiale Sana. Replicano le brigate della rivoluzione: «Gli danno la caccia, vogliono ucciderlo. Lui è nascosto. Stiamo cercando di farlo uscire».

La STAMPA - Domenico Quirico : " Tra i disperati di Aleppo: Perché non ci aiutate? "


Aleppo                             Domenico Quirico

Un altro assalto, l’ennesimo, nel quartiere di Salaheddine. Nessuno tiene più il conto, dal 28 luglio quando l’offensiva degli altri, dei governativi è iniziata. Gli uomini che si affrontano tra queste macerie sempre più fitte, non una sola casa è rimasta in piedi, che si sparano, si avvinghiano, si mordono, si rotolano nella polvere, sono quelli che abbiamo appena visto da vicino, con cui abbiamo parlato, rannicchiati nelle buche, negli anfratti, dietro i muri in rovina, il viso contratto, le mani rattrappite sul calcio del fucile mitragliatore, gli occhi pieni di paura, di rabbia, di odio, di furore omicida. E ora eccoli si alzano ancora una volta, scattano fuori, si gettano contro gli altri, si sparano da pochi passi di distanza, cadono, si rialzano, ricadono, si trascinano urlando, spariscono in una nuvola di polvere e di fumo che, diradandosi, rivela altri uomini accorrenti nella foschia rotta dai lampi delle esplosioni. Uno corre all’impazzata come un uccello che il piombo non ha ancora finito. Altri stanno sdraiati dietro il gomito della via che fa da prima linea, la testa fracassata, la nuca che riposa su un orribile cuscino di sangue nero coagulato.

Ne ho visto uno, barbuto, anima sfinita, appoggiarsi allo spigolo di un muro in rovina, piegare il viso, scosso, insozzato dal vomito. Per quel disgusto per quel vomito mi sono cari, mi sento loro fratello. Aleppo che ritrovo dopo appena dieci giorni di assenza è diversa, rotta, pesta, sbaragliata, agonizza sotto un mantello di bombe, una industria democida che funziona ormai senza interruzioni. Se la parola terrore vi sembra troppo grossa cercatene un’altra, non importa. Bisogna che le forze della vita siano molto tenaci perché qualcuno sia ancora qui, a respirare, a battersi in questa aria morta. La paura, la vera paura, è un delirio furioso. Di tutte le pazzie di cui siamo capaci, sicuramente la più crudele. Nulla eguaglia il suo slancio, nulla può sostenere il suo urto. Gli uomini dell’armata libera negano, parlano di brevi ritirate strategiche; ma non sono gli stessi di due settimane fa, ansiosi di avventarsi addosso al nemico, e ributtarlo precipitosamente, malconcio e scemato. Ho l’impressione, netta, che sotto le bombe, senza mezzi di replica, stiano perdendo rapidamente la presa sulla parte della città che detenevano due settimane fa, saldamente. Ormai lo gridano come una preghiera: dateci le armi o saremo sconfitti! Sì, questa rivoluzione rischia di morire.

Hossam Sabbagh è uno dei comandanti di Salaheddin, di tinta ulivigna, di sopracciglia lunghe e nere che conferiscono al suo sguardo una virtù soggiogatrice: «I soldati di Bashar usano bombe termiche che distruggono tutto, per questo dobbiamo ritirarci, non è possibile restare nelle nostre posizioni. Ma non hanno il controllo della zona, e a Sayf al Dawa, il quartiere vicino, abbiamo alzato un muro e non li lasciamo avanzare. Ci sono due fronti opposti, due chilometri, il venticinque per cento da ogni parte è nostro e loro, il resto è campo di battaglia. I soldati di Bashar si battono di malavoglia ma è aumentata la pressione dei mezzi di cui dispongono. Sono andato al comando dell’Esercito Libero per invocare armi, ho cercato di spiegare, ho gridato che non possiamo resistere ai tank con i fucili e senza munizioni. Senza armi posso solo morire!».

Non sono tornato qui per spavalderia o pensando di potermi rendere utile, in fondo non c’è molto che io possa fare. Ma il disinganno, la tristezza, la pietà, la vergogna, legano più strettamente che la rivolta o la paura. Ci si sveglia al mattino sfiniti, si sta per andare via ed ecco che si incontra per strada il medico che conosci, il ragazzo diventato combattente, il venditore di frutta, il quale vi dice tutto a un tratto: «È troppo! Non ne posso più, ecco che cosa hanno fatto»; e vi mostra l’ospedale, il «mio» ospedale dove ho vissuto per dieci giorni, ridotto in macerie da due attacchi di elicotteri, il quarto e il quinto piano crollati, le stanze colme di calcinacci, la piccola sala operatoria impraticabile, i morti allineati sulla strada sotto lenzuoli sporchi.

Ho cenato con il dottor Abderaduf Kriem, laureato in Scienze politiche, uomo d’affari, direttore finanziario del Consiglio militare di Aleppo, l’uomo che cerca i soldi per la rivoluzione. Una cena ricca, degna del ramadan che sta per finire. Ecco: sono tornato qui anche per guardare in faccia un uomo come Kriem senza arrossire. Per rappresentare, modestamente come potevo, i valori di un occidente che qui assume ogni giorno che passa, mentre la guerra si allunga, i contorni della delusione, se non del tradimento. Perché non li aiutiamo?

«Sono molto deluso dall’atteggiamento dell’Occidente - mi dice Kriem -. Ho incontrato Annan, allora inviato Onu, vogliono porre delle condizioni alla rivoluzione, non è questo il modo di aiutarci. Gli ho detto che così contribuiscono ai crimini della dittatura. I piani dell’Occidente in questa zona sono ancora, temo, quelli di Condoleeza Rice e del nuovo ordine mondiale. L’Occidente, l’America, la Francia e la Gran Bretagna in particolare, hanno legami con Bashar e per questo non sopportano la rivoluzione. Le opinioni pubbliche occidentali sono distratte, non scendono in piazza per esercitare pressioni sui governi. Questo favorisce l’entrata e il radicarsi in Siria di gruppi che seguono i piani di altri Paesi. Un saudita, ad esempio, è venuto qui ad Aleppo e finanzia i gruppi radicali. Non vogliamo questa gente, i siriani hanno paura di questa gente. Noi vogliamo costruire un Paese democratico, uno stato di diritto. Ma più il tempo passa, più noi della armata libera siamo deboli e più questi gruppi prendono piede».

Volge verso di me occhi come pugnali; torna, ossessivo, il tema delle armi: «I Paesi del Golfo (non vuole precisare quali) hanno accettato di aiutarci a comprare armi pesanti, antiaeree e anticarro, sul mercato nero; America, Gran Bretagna e Francia hanno fatto pressioni sulla Turchia per impedire che venissero consegnate. Ora gli Stati Uniti ci hanno fatto promesse di far entrare armi pesanti: vedremo. Ma Bashar è ben allineato sui piani occidentali e sappiamo che esistono accordi tra lui e gli Stati Uniti per la sicurezza di Israele. L’armata siriana libera chiede all’Occidente aiuto, armi per poter contare sul campo di battaglia. Non abbiate paura di noi, la maggior parte dei rivoluzionari sono dei giovani non degli islamisti. La rivoluzione ad Aleppo è una rivoluzione borghese, professori, uomini di affari, insegnanti. Questa gente radicale, quando la guerra sarà finita, deve deporre le armi, grazie tante e poi tornare a casa sua. Ma loro oggi hanno denaro, sappiamo che hanno tanto denaro, i giovani che vogliono combattere sono affascinati, hanno più mezzi e scelgono di scendere in campo al loro fianco. Ma non hanno le stesse idee integraliste e radicali. Questo, alla fine degli Anni 60, era un Paese dove c’erano più minigonne che a Parigi! È l’assenza dell’occidente che aiuta gli islamisti a installarsi. Noi, è terribile dirlo, dobbiamo combattere su due fronti».

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