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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
08.08.2012 Siria: Assad in tv promette di 'ripulire il Paese dai terroristi'
con lui l'iraniano Said Jalili, consigliere di Ali Khamenei. Cronache e commenti di Francesco Battistini, Lorenzo Cremonesi, Redazione del Foglio, Paola Peduzzi, Daniele Raineri

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Francesco Battistini - Lorenzo Cremonesi - Redazione del Foglio - Paola Peduzzi - Daniele Raineri
Titolo: «Assad riappare in tv con l'uomo di Teheran: 'Asse per resistere' - Ecco i volontari di Al Qaeda: siamo qui per portare la sharia - Anche a Damasco cherchez la femme - Le mani di Obama sul post Assad - La vampata curda riparte dalla Siria»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/08/2012, a pag. 15, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Assad riappare in tv con l'uomo di Teheran: «Asse per resistere» ", l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Ecco i volontari di Al Qaeda: siamo qui per portare la sharia ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo "Le mani di Obama sul post Assad", a pag. 1-4, gli articoli di Paola Peduzzi e Daniele Raineri titolati " Anche a Damasco cherchez la femme " e " La vampata curda riparte dalla Siria ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Assad riappare in tv con l'uomo di Teheran: «Asse per resistere» "


Said Jalili con Bashar al Assad

GERUSALEMME — Assad, il nostro pilastro. Gl'iraniani ci mettono la faccia: a sorpresa, mentre i gerarchi fuggono e al confine turco si presenta a disertare un altro generalissimo siriano, ecco che in una Damasco atterrita compare l'uomo della provvidenza sciita. Said Jalili, il grande consigliere della guida suprema Khamenei, arriva per due ragioni soprattutto: fare riapparire in tv Bashar Assad, che dal 22 luglio non si vedeva più, tanto da giustificare le più truci illazioni; dire chiaro che «l'Iran non permetterà mai la distruzione dell'asse della resistenza, di cui la Siria è un pilastro essenziale». Poche immagini da una località segreta, che permettono al dittatore siriano di ripetere che «il Paese sarà ripulito dai terroristi». Un'immaginetta d'unità, che Jalili usa per ricordare come la situazione in Siria non sia «una crisi interna», perché è anche una guerra fra potenze regionali, ammonendo sauditi e qatarini, turchi e americani che una soluzione non arriverà «grazie all'intervento straniero».
L'offensiva diplomatica iraniana è in un momento decisivo. Assad ha schierato i 20 mila uomini per il probabile attacco di terra ad Aleppo, la città che nessuno può permettersi di perdere, e il massacro che si prepara ha pur sempre bisogno di qualche stampella internazionale. Domani, a Teheran, sarà convocata la «riunione consultiva» dei Paesi che ancora sostengono Assad. La settimana prossima, Ahmadinejad andrà alla Mecca, tana saudita, a chiarire i ruoli coi wahabiti. E intanto il ministro degli Esteri degli ayatollah, Ali Akbar Salehi, va ad Ankara per parlare dei 48 iraniani rimasti ostaggio dei ribelli: «Useremo tutti i mezzi per riaverli». Parlano e insieme minacciano, gl'iraniani. Col loro capo di stato maggiore Firuzabadi che, saputo d'uno sconfinamento in Siria d'una colonna militare turca, avverte: ora tocca alla Siria, ma poi potrebbe arrivare il turno di Ankara. Minacciano e intanto cercano qualche intesa: senza il contributo di Erdogan, dice Salehi, a Damasco sarà «molto difficile» trovare una via d'uscita.
L'ira e l'Iran non è detto che bastino, ad Assad. L'isolamento internazionale s'aggrava ogni giorno e a Bashar, la notizia la dà il sottosegretario Staffan de Mistura, viene revocato pure il cavalierato di Gran Croce che l'Italia gli aveva concesso. Il bollettino di guerra di lunedì è uno dei peggiori: 265 morti. Gli approvvigionamenti di petrolio si sono dimezzati, ieri un attacco (10 vittime) ai pozzi di Deir Ezzor. A Homs, s'ammazzano i cristiani. A Damasco, ogni giorno cade un simbolo del regime: stavolta tocca al regista di corte Bassam Mohieddin. C'è più di mezzo milione di profughi che mangia solo con gli aiuti internazionali. Le fabbriche di medicinali sono quasi tutte distrutte, molti ospedali chiusi, ambulanze polverizzate. E ora se ne vanno perfino i profughi iracheni, quelli del dopo-Saddam: meglio Bagdad, di quest'inferno.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Ecco i volontari di Al Qaeda: siamo qui per portare la sharia "


al Qaeda

BAB EL HAWA (Siria settentrionale) — Al Qaeda ha ormai costruito basi permanenti in Siria. Possiamo testimoniarlo in modo diretto, tramite contatti di prima mano con due campi importanti del movimento costituiti nelle ultime settimane lungo il confine con la Turchia. Il più rilevante è situato nei primi villaggi che si incontrano dopo il punto di frontiera a Bab El Hawa, non lontano dalla cittadina turca di Antakia e una quarantina di chilometri dalla città assediata di Aleppo. Solo tre o quattro chilometri dopo il confine in terra siriana. Qui sono acquartierati in alcune abitazioni 262 guerriglieri qaedisti arrivati dall'estero: per lo più ceceni, algerini, afghani, egiziani, iracheni e pachistani. Gente dura, profondamente motivata, pronta a morire per la causa musulmana, forgiata da lunghi anni di sfida agli infedeli e all'Occidente in nome della guerra santa e dell'utopia di rifondare un nuovo «califfato», regno della sharia (la legge islamica) integrale. Sono loro i responsabili del rapimento di un paio di giornalisti stranieri nella zona solo tre settimane fa. Allora fu l'intervento delle brigate locali a evitare il peggio e garantire la loro liberazione.
Il secondo campo si trova sulle colline sassose e ricche di antichi siti bizantini ancora tutti da scoprire non lontano dal villaggio di Daret Hazza, una ventina di chilometri da Bab El Hawa. Qui almeno 40 volontari qaedisti dormono in tende nascoste tra le rocce. La zona è arida, ostile, difficile da individuare anche dall'alto. Da qui di recente sono partite colonne di rinforzo alla guerriglia che combatte contro l'assedio lealista di Aleppo.
Sono poco più di trecento uomini in tutto. Ma il loro numero è in costante crescita e difficile da monitorare. Un fenomeno impossibile da definire e quantificare. Ma che prolifica con le difficoltà e l'isolamento sofferti dalle brigate della resistenza siriana costretta a scontarsi con l'esercito lealista ben armato e sostenuto dalla Russia. Solo pochi giorni fa, esattamente il 5 agosto, il ministro degli Esteri iracheno, il curdo Hoshyar Zebari, aveva denunciato durante una conferenza stampa che numerosi militanti iracheni di Al Qaeda stavano attraversando il confine per andare a combattere in Siria. Ennesima conferma che gli estremisti sunniti, per lo più provenienti dalle regioni di Falluja e Ramadi, sono ormai pronti a rispondere numerosi all'appello lanciato in febbraio dal leader massimo di al Qaeda, dopo la morte di Osama Bin Laden l'anno scorso, Ayman Al-Zawahiri, per una mobilitazione di massa (lui faceva riferimento ai jihadisti egiziani, ceceni, algerini, libici, libanesi e in particolare iracheni) per combattere il regime di Bashar Assad.
Per quello che possiamo capire, dopo una ventina di giorni trascorsi con le brigate della rivoluzione nella regione di Aleppo, il fronte anti Assad è però a dir poco diviso sull'atteggiamento da tenere nei confronti dei qaedisti arrivati dall'estero. Nonostante la rivolta sia nata ormai oltre 17 mesi fa, le varie brigate sono profondamente frazionate, atomizzate, legate a interessi particolari, ancora incapaci di esprimere una politica comune. Non è così difficile incontrare guerriglieri che salutano con entusiasmo i volontari arrivati dall'estero. Ma anche figure estremamente critiche, timorose di un movimento straniero che cerca di sfruttare la causa della liberazione siriana per rilanciare i propri obbiettivi legati alla guerra santa pan-islamica. Ieri uno dei massimi esponenti della rivolta nel Nord (ci ha chiesto di non rivelare il suo nome, teme di essere assassinato) giunto nella zona di Bab El Hawa per incontrare il leader qaedista si è visto rifiutare la sua offerta di cooperazione sul campo. «Noi non obbediremo mai agli ordini di un ufficiale che non sia di Al Qaeda. Le nostre brigate possono operare assieme alle vostre, ma mai fondersi con voi», gli hanno spiegato. E per giunta criticandolo perché stava fumando durante il digiuno del Ramadan. Il timore tra i più consapevoli tra i capi dell'opposizione siriana è che i qaedisti perseguano in Siria la loro guerra ad oltranza contro gli sciiti (di cui gli alauiti siriani sono una setta minore) e l'Iran. «Noi miriamo alla caduta della dittatura. Bashar Assad deve sparire. Ma dopo cercheremo di ricostruire la pace sociale. Guai se Al Qaeda iniziasse a massacrare gli sciiti siriani per vendicare la perdita dell'Iraq sunnita. Non vogliamo che la Siria divenga il campo di scontro della nuova guerra di religione tra sciiti e sunniti», ci ha detto lo stesso leader dei ribelli. La situazione è però in rapida evoluzione. E ogni giorno di violenze in più non fa portare acqua al mulino degli estremisti.

Il FOGLIO - "Le mani di Obama sul post Assad"


Barack Obama

Roma. Il problema di Washington oggi ha a che fare con la Siria di domani. La Casa Bianca sta lavorando per modellare il futuro del paese in vista di un ineluttabile assetto post Assad, con l’obiettivo di evitare che dalla guerra contro il regime si passi a una rappresaglia regionale con ramificazioni internazionali senza soluzione di continuità. Per rispettare almeno formalmente il suo “leading from behind” e le proclamazioni sulla sacralità della sovranità nazionale abbondantemente distribuite sulla primavera araba, Barack Obama si affida a calcolatissimi leak che giorno dopo giorno aggiungono dettagli al piano americano per una Siria senza Assad. Anche perché, come scrive l’ex ufficiale del Pentagono Chet Nagle, “spifferare informazioni aiuta il presidente a mostrarsi come il ‘tough guy’”, l’uomo duro, ingrediente d’immagine che usato in dosi opportune aiuta chi è in cerca di una rielezione per nulla scontata. Prima è arrivato lo scoop della Reuters sull’ordine segreto di aiutare fattivamente i ribelli siriani, appoggiandosi sui sunniti in chiave anti Assad (ma soltanto fornendo equipaggiamenti “non letali”, spiega l’Amministrazione); poi si sono aggiunti, via Nbc, nuovi dettagli sul progetto siriano vergato dalla Casa Bianca in stretto coordinamento con il Pentagono e il dipartimento di stato. Il numero due della diplomazia, William Burns, è l’uomo di raccordo fra le varie agenzie governative che lavorano al dossier e i due incontri ristretti a cui ha partecipato martedì alla Casa Bianca sono lì a testimoniare l’intensificarsi del lavorio. Quella di Obama è un’agenda minima, un piano di contenimento per non farsi cogliere colpevolmente impreparato da una rivoluzione, e i dati sul campo deprimono le speranze di una transizione ordinata (e a guida americana) verso un futuro democratico dopo la cacciata del tiranno. Il primo punto riguarda gli aiuti per i rifugiati, piano che coinvolge gli alleati della Nato e i vari attori arabi dell’area. Il secondo obiettivo è evitare l’epurazione dei lealisti di Assad e su questo si è espresso, con fraseologia umanitaria, anche un portavoce di Foggy Bottom: “Quando parliamo all’opposizione siamo molto chiari: vendette e rappresaglie sono assolutamente inaccettabili”. L’inviato iraniano che ieri ha incontrato Assad ha detto che “le soluzioni che arrivano dall’esterno non aiutano” e l’espressione coglie il rinnovato impegno americano nell’ispirare, senza troppi strepiti, la Siria che verrà. Obama non vuole ancora concedere ai ribelli il sostegno esplicito che i senatori Lieberman, McCain e Graham chiedono da tempo, anche interpretando un sentimento diffuso fra i democratici, ma muove le pedine in silenzio e non pone troppi ostacoli alla diffusione di notizie in questo senso.

Il FOGLIO - Paola Peduzzi : " Anche a Damasco cherchez la femme "


Manaf Tlass

Il regime siriano sta collassando dall’interno, il premier riesce a scappare sotto gli occhi degli sgherri del presidente Assad, e sì che era un sorvegliato speciale, e il rais compare in tv, “Ripulirò il paese dai terroristi”, l’ennesima finzione a mascherare una repressione senza fine: l’esercito del regime perde pezzi e la sua ferocia resta immutata. Ma le crepe sono diventate così visibili che tutti, dai russi agli americani agli iraniani, hanno piani pronti per il post Assad. Ce li hanno anche i paesi della regione, quelli che hanno finanziato l’opposizione sul terreno, quelli che li hanno armati, la faccia “leading” del “behind” americano: il Qatar e il regno saudita soprattutto. Le loro strategie non coincidono, ma c’è un’importante convergenza da sottolineare, e si chiama Manaf Tlass. Manaf Tlass è il disertore più famoso di Siria: era il migliore amico di Assad (a dire il vero nasceva come amico del fratello grande di Bashar, il prediletto di papà Basil, che avrebbe dovuto prendere il potere se non fosse morto in un incidente sulla strada per l’aeroporto mentre guidava la sua Mercedes) ma all’inizio di luglio ha deciso di passare dalla parte dei ribelli, inorridito dagli scempi del regime. Sunnita, l’aria da playboy, la passione per i sigari e per le vacanze in Costa Azzurra, figlio di uno dei più stretti collaboratori del padre di Bashar, Manaf è scappato a Parigi, dove si stava preparando il grande piano sauditasiriano, in salsa francese. Nelle dynasty siriane c’è un elemento ricorrente: il potere delle donne. La first lady siriana Asma è la rappresentante glamour e terrificante della femminilità che si macchia di sangue senza rinunciare ai tacchi alti, ma si sa che nella famiglia Assad la regina-regista è la sorella di Bashar, Bushra. Anche per i Tlass il perno è una sorella, la sorella maggiore di Manaf, Nahida, la prima a lasciare Rastan, nella regione di Homs, per andare a Parigi, negli anni Ottanta. Se c’è una persona generalmente odiata, in Siria e dintorni, è lei: Nahida Tlass. Ogni ricostruzione che la riguarda è antipatizzante, forse perché rappresenta il tipico esule che fa la bella vita a Parigi e da lì pretende di cambiare la Siria, come accade con l’altra grande dinastia sunnita siriana, molto presente a Parigi, quella dei Khaddam (nel 2005, nel mezzo di un mai compreso golpe di palazzo, il vicepresidente siriano Abdel Halim Khaddam scappò a Parigi, creando una frattura nella già fratturata famiglia Assad). Nahida Tlass ha 53 anni, è nata ad Aleppo ma ha passato molto tempo nelle terre di famiglia a Rastan, si sa che è diventata ricca grazie agli affari di suo marito, un siriano-saudita diventato milionario vendendo armi francesi alla casa reale saudita (pare che prendesse una commissione pari al 7 per cento, e che tutti lo sapessero, ma è una voce che di recente ha messo in giro la tv di Hezbollah, che detesta i Tlass). Il marito è morto presto e la vedova si è buttata nella mondanità parigina. Libération pubblicò uno scoop durante la presidenza Mitterrand sulla relazione tra Nahida e l’allora ministro degli Esteri Roland Dumas, conosciuto come “l’amico degli arabi”, che di recente ha intentato causa contro l’ex presidente Nicolas Sarkozy accusandolo di crimini contro l’umanità per la campagna di Libia. Nahida e Dumas finirono in uno scandalo per i finanziamenti che lei – pare – aveva dato alla campagna elettorale di lui, con Dumas che gridava al complotto americano- sionista a suo danno. Quella storia finì, ma Nahida rimase ben salda nei salotti di Parigi, pure se lo stesso Monde l’ha definita “una delle persone più ambigue” di questi salotti siriano-francesi. Pare che le feste a casa sua per anni siano state le più sfarzose della capitale, e che l’ex premier Dominique de Villepin abbia festeggiato i suoi cinquant’anni con al tavolo la bella Nahida. Tutti ricordano soprattutto le grandi donazioni che la signora elargiva con generosità a musei e organizzazioni culturali della città. A un certo punto della vita di Nahida le ricostruzioni si fanno complottarde e vaghissime: soltanto i media mediorientali che parteggiano per il regime siriano danno ampio spazio alle cronache amorose di Nahida con “il sionista” Franz-Olivier Giesbert. Ma la vita privata di Nahida non è così importante: importante è che da Parigi la sorella di Manaf abbia aiutato a tessere la trama che oggi porta al grande piano saudita che vuole Manaf Tlass come leader dell’opposizione al regime di Assad. Oggi Manaf è a Riad e la casa reale saudita controlla ogni sua dichiarazione. Ha parlato soltanto due volte e soltanto a media sauditi, dicendo: “Proverò e cercherò di dare tutto il mio aiuto per unire il popolo siriano fuori e dentro la Siria in modo che si possa creare una roadmap per uscire dalla crisi, che ci sia o no un posto per me”. Ma sul suo futuro non c’è chiarezza, per due ragioni: la prima è che è piuttosto difficile che i ribelli possano davvero fidarsi del migliore amico di Assad (un suo zio è ancora a Damasco, al servizio del regime). La seconda è che probabilmente l’intesa su Tlass da parte di sauditi e qatarioti non è più tanto salda: al Jazeera, braccio mediatico di Doha, ha smesso di caldeggiare la candidatura di Manaf come leader dell’opposizione. Potrebbe essere una ripicca contro al Arabiya, saudita, che ha avuto Tlass come ospite d’eccezione, ma è più facile che il Qatar abbia altri piani. Quali siano non si sa, ma anche nella famiglia dell’emiro qatariota Hamad Bin Khalifa al Thani è buona regola seguire quel che fanno le donne di casa (che sono tantissime, difficile stare dietro a tutte: tre mogli e tredici figlie). Le loro mosse, dall’amicizia con Asma raffreddatasi in tempi ben più ridotti rispetto alla presa di coscienza occidentale fino al gelo su Tlass, sono parecchio rivelatrici.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " La vampata curda riparte dalla Siria "

Roma. La rivoluzione in Siria accende il fuoco sotto la questione curda. Alla fine di luglio il governo del presidente Bashar el Assad ha ceduto il controllo del nord est del paese alla minoranza curdo-siriana, creando di fatto una seconda enclave indipendente dopo quella presente nel nord dell’Iraq. Il commentatore turco Mehmet Ali Birand dice – ed è uno ascoltato con attenzione sui media nazionali – che sta per materializzarsi uno dei peggiori incubi per la Turchia, “un megastato curdo” appena oltre la frontiera sudorientale del paese. I tre milioni di curdi siriani hanno preso il controllo delle città vicino al confine, Efrin, Kobani e Derik, dopo che i soldati di Assad sono stati richiamati a combattere verso le zone più centrali e strategiche, come Aleppo e la capitale Damasco. Al comando c’è ora una coalizione di partiti curdi dominata dal Partito dell’Unione democratica (Pyd), direttamente affiliato ai ribelli del Pkk in guerra contro il governo di Ankara. Bandiere del Pkk sono state issate su alcuni ex edifici governativi passati in mano ai curdi. Il modello è il Kurdistan iracheno nato dalle guerre americane contro il dittatore Saddam Hussein, che gode di una forte autonomia rispetto al governo centrale di Baghdad: di recente i curdi iracheni hanno cominciato a impedire all’esercito l’accesso al nord del paese e negoziano in autonomia i contratti petroliferi con le imprese straniere, tanto che ieri hanno minacciato di interrompere la produzione alla mezzanotte del 31 agosto se Baghdad non restituirà un miliardo e mezzo di dollari in pagamenti che loro considerano di proprietà del nord. A rafforzare l’impressione di una nuova, possibile entità in ascesa nel medio oriente è l’intervento del leader dei curdi iracheni, Massoud Barzani, che l’11 luglio ha riunito le sparse fazioni siriane – alcune stavano con i ribelli, altre dalla parte del governo di Damasco – a Irbil, in Iraq, e ha compiuto un miracolo unificante (e molto provvisorio). Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan reagisce con furia, promettendo un intervento militare in territorio siriano per colpire le basi dei curdi affiliati al Pkk, come già succede in territorio iracheno. “E’ un nostro diritto indiscutibile”, ha detto. “Non lasceremo che i terroristi aprano nuovi campi nella Siria del nord e diventino una minaccia contro di noi. Nessuno ci provochi”. In realtà i curdi in Siria godono di una relativa impunità perché per ora i turchi non possono mettere piede nel territorio di Damasco per una spedizione punitiva senza rischiare di scatenare una guerra (la Turchia arma i ribelli che lottano contro Assad). Il leader del partito curdo siriano Pyd, Mohammed Saleh Muslim, risponde a Erdogan: “La Turchia non c’entra nulla con i curdi siriani”, ha detto oieri in una telefonata a Reuters da Qamishli, in Siria, “la protezione del mio popolo, della mia regione, delle mie città: questi sono miei diritti, nessuno può negarceli e questo è quello che facciamo. Non c’è bisogno che la Turchia si preoccupi e minacci”. La settimana scorsa, consapevole che gli annunci militari per ora cadono nel vuoto, il ministro degli Esteri turco, il topigno e ubiquo Ahmet Davutoglu, si è presentato a sorpresa a Irbil, in Iraq, per un incontro con le fazioni curde che governano l’enclave “liberata” in Siria. Mancavano però i rappresentanti del Pyd, considerati troppo vicini al Pkk per partecipare. La missione di Davutoglu era fare capire con chiarezza che la creazione di una nuova entità curda in Siria non sarebbe stata tollerata. La reazione dei presenti è stata glaciale. Appena la Siria ha ceduto terreno ai curdi, il Pkk, sentendo il vento a favore, ha lanciato un’offensiva militare contro Semdinli, una città turca nell’area di Haqqari vicino al confine con Iraq e Iran. Invece che i soliti attacchi mordi e fuggi, i guerriglieri assediano la città e si sono trincerati. Da due settimane sono in corso scontri violentissimi che hanno fatto 115 morti. Sabato il Pkk ha attaccato a Cukarca per creare un altro fronte. L’esercito turco sta reagendo con durezza, anche con i bombardieri, ma non è possibile sapere molto di più perché l’intera area è stata isolata. “Non guardate a quello che succede ad Aleppo, guardate Haqqari”, dicono i guerriglieri del Pkk, che puntano a fare passare un messaggio-chiave: la lotta tra la nostra volontà di autodeterminazione e la volontà di repressione turca è come quella in Siria tra i ribelli e il governo Assad.

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