domenica 19 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
07.08.2012 Siria: il premier Hijab fugge all'estero
cronaca di Francesco Battistini, commento di Domenico Quirico

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Francesco Battistini - Domenico Quirico
Titolo: «Il premier in fuga, la Siria si sfalda - Si sfalda la macchina della repressione. Assad come Gheddafi»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/08/2012, a pag. 2, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Il premier in fuga, la Siria si sfalda ". Dalla STAMPA, a pag. 9, il commento di Domenico Quirico dal titolo " Si sfalda la macchina della repressione. Assad come Gheddafi ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Il premier in fuga, la Siria si sfalda "


Francesco Battistini, Riad Farid Hijab

GERUSALEMME — Nemmeno due mesi da premier, dice, e non ne poteva più. Perché lui non lo voleva, quell'incarico. Tutt'altro. Perché più di vent'anni di politica nel partito di Assad e quattro da governatore di Assad e uno da ministro di Assad gli avevano fatto capire che Bashar Assad era ormai finito. E che la nomina a primo ministro siriano, lo scorso 23 giugno, era solo una fregatura: «Il punto è che il criminale Assad aveva fatto pressione su di lui — spiega il suo portavoce — e non gli aveva lasciato altra scelta. Gli aveva detto: "O accetti, o ti uccido"...».
Riad Farid Hijab, 56 anni, ingegnere agricolo, aveva accettato. E in questo mese e mezzo non aveva fatto che pensare a come fuggire. Una lunga, segreta trattativa coi ribelli. Fino a ieri mattina. Quando l'uomo che sedeva alla destra del raìs è svaporato sulla via da Damasco, scappando prima in Giordania e poi in Qatar, al seguito sette fratelli, decine di parenti, tre funzionari dei servizi e (forse) un paio di ministri: «Lascio questo regime di crimini di guerra e di genocidi — è stata la sua dichiarazione —. Da oggi mi considero un soldato della rivoluzione».
L'ultimo velo è caduto, esultano da Aleppo a Damasco, giocando facile sul significato del cognome di Hijab (velo) e sul ruolo che quel baathista sunnita duro e puro ricopriva. Un ruolo poco più che onorifico, in realtà: da mezzo secolo, il premier siriano non conta nulla e da un anno e mezzo è il cerchio magico alauita degli Assad a decidere le cose importanti, la repressione innanzi tutto. Per il dittatore, ad esempio, ben peggiore fu l'attentato di luglio che ne uccise il potente cognato, a capo dei servizi. E forse più preoccupante è la bomba esplosa ieri al terzo piano della tv di Stato, così vulnerabile, o il falso tweet da Mosca con la notizia della morte di Bashar che ha fatto fibrillare il mercato del petrolio. Ciò non toglie che la defezione dell'ingegner Hijab sia un grave danno d'immagine: la più alta delle 41 personalità — militari (26) e uomini della sicurezza, parlamentari (4) e diplomatici (8), perfino un astronauta — che hanno finora mollato il regime, ex fedelissimi più fortunati di quel ministro delle Finanze che ieri è stato arrestato prima della fuga. Il rompete le righe dei gerarchi è la prova che il regime «sta implodendo», commenta la Casa Bianca; che siamo «all'inizio della fine», ripetono i ribelli; che c'è un «progressivo isolamento» di Assad, fa eco il ministro degli Esteri italiano, Giulio Terzi.
Al solito, il dittatore fa come se nulla fosse. Nomina subito premier il vicepremier Omar Ghalawanji, altro sunnita, e convoca per le telecamere il consiglio dei ministri: altro che fuga, è la versione ufficiale, «Hijab è solo stato rimosso dall'incarico». Però, se è vero che in Siria si sta combattendo una «guerra per procura», come ha detto il segretario Onu, in queste fughe c'è già un dopoguerra per procura che si sta delineando. Dove l'ingegner Hijab profugo a Doha, la capitale che più finanzia le forze anti Assad, per qualcuno è un possibile candidato alla transizione. E dove il generale Manaf Tlass, altro disertore eccellente, da Parigi (capitale assai coinvolta) si prepara a scendere in campo: piace ad americani, turchi e sauditi, non dispiace a russi e israeliani, è un borghese brizzolato e descamisado che si presenta meglio di molti comandanti in armi contro Assad.

La STAMPA - Domenico Quirico : " Si sfalda la macchina della repressione. Assad come Gheddafi "


Domenico Quirico, Bashar al Assad con Muhammar Gheddafi (foto d'archivio)

È lo scenario libico: il tiranno ogni giorno si guarda attorno e scopre di essere sempre più solo. Il potere, ovvero le sue possibilità di controllare uomini e cose, di dare ordini, si raggrinzisce, lo costringe a complicati contorsionismi per non cadere nel vuoto che è già proprietà degli Altri, dei nemici, dei «terroristi». Nel palazzo di Damasco, dove si intendono esplosioni e spari, si fanno discorsi da notte di Amleto vicino alla tomba di Yorick. Bashar grida, bestemmia, inveisce, minaccia, Come Gheddafi nella caserma di Tripoli. Ma le stanze si fanno ogni giorno più vuote: non rispondono gli ambasciatori che, pure, per anni hanno tessuto gli epicedi del regime e officiato i suoi sudici maneggi diplomatici e commerciali; si proclamano democratici seppure della venticinquesima ora; i militari, prima i quadri medi poi i generali, fanno la questua per avere i gradi, ma nell’Armata siriana libera, invocando «il dovere di non sparare sul popolo». Che fino al giorno prima hanno allegramente massacrato.

Ora è la volta dei ministri, baciavano la bandiera del Ba’ath, li ha folgorati, improvvisa, la necessità della terza via, del negoziato e del dialogo, denunciano «il genocidio» come se non fosse iniziato ventimila, sì ventimila esseri umani fa. Una umanità, questa dei convertiti, dei defezionanti, greve, disfatta, accigliata, che cerca un altro domani confortevole, con il rancore del potere e dell’ autorità.

Dopo più di 500 giorni di rivolta e di guerra, il Giano di Damasco dalle mani insanguinate ripercorre, orma su orma, il cammino del Colonnello. Resterà (ma quanto? Quanti morti saranno ancora necessari?) con il suo clan alawita che gli deve una solidarietà di sangue, con gli shabiha, le brigate nere macchiatesi di tali delitti che per loro non c’è possibile remissione. All’ultimo forse anche costoro gli mancheranno, sarà solo con i suoi alleati Hezbollah libanesi che hanno messo a sua disposizione, sciaguratamente, un’arte bellica che ha tenuto testa a Israele; e forse i pasdaran degli ayatollah iraniani. Sarà travestito con le loro divise che tenterà la fuga finale.

Ma nascosto dietro lo scudo del veto e delle armi russe e cinesi e del denaro iraniano ha ancora un esercito da lanciare contro il suo popolo: è quanto sta facendo ad Aleppo, in queste ore. Attenzione a immaginare scorci distrattamente azzardati: il regime può ancora uccidere massacrare nuocere. Ci vorrà tempo.

Sono già più di ventimila i quadri che sono fuggiti, funzionari civili, quadri medi e superiori, militari. L’apparato dello Stato cigola nei suoi meccanismi, rischia di incepparsi perché troppe rotelle sono fuori uso o sono state strappate via. La Siria, come tutti i regimi arabi che le rivoluzioni stanno tentando di smontare, è costruita attorno all’apparato della Sicurezza: spionaggio interno, repressione, terrore, sono le uniche voci dell’attività statale cui si presta attenzione. Ma ora persino la repressione si fa difficile. Ad Aleppo mancano i sergenti, gli ufficiali sperimentati per guidare i rinforzi all’assalto dei quartieri in mano ai ribelli: hanno disertato.

Le defezioni come quelle di ieri ormai hanno raggiunto i livelli più elevati, facilitate, finanziate dalla Cia, dagli altri servizi occidentali e dai Paesi arabi, Arabia Saudita e Qatar, con i forzieri sempre aperti. Come in Libia, questi uomini hanno spesso le mani sudicie di 40 anni di regime, le tasche gonfie di denaro guadagnato con i borseggi e le ruberie che Bashar aveva ribattezzato «liberalizzazione economica». Ma sono per il presidente il segnale di una china tutta infocata dal sempre più veloce ingranaggio dell’angoscia. Perché nelle dittature la linea di non ritorno si frange quando i satrapi, i gerarchi, i pescecani che hanno gavazzato per decenni nel Potere giudicano il proprio interesse improvvisamente separato da quello del Capo, del Padrone. Allora l’esercito può essere ancora possente, i boia ancora disponibili, gli avversari come noi Occidente tiepidi e vili, ma nulla potrà essere fatto per rimediare. Ogni giorno, d’ora in avanti, Assad il giovane, che credevamo un fatuo Baby doc o un complessato Somoza junior e invece si è dimostrato di sangue fanatico e irato, convinto di potere aggiustare i conti della Storia col filo della spada, constaterà l’inizio della fine. In fondo Bashar è anche lui un prigioniero del sistema, anzi ne è l’Arciprigioniero,fra lui e il sistema esiste una identità assoluta cui non può sfuggire senza smarrirsi.

L’intellettuale egiziano Saad Eddin Ibrahim ha inventato un neologismo per descrivere alcuni regimi arabi: «Jumlakia». L’inizio della parola repubblica, la fine della parola monarchia. L’inizio di un mandato. La fine di un regno. Il re-presidente è nudo. Si è svelato nel massacro. Il suo Paese lo ha abbandonato.

Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Stampa, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it
lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT