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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
05.08.2012 Siria: Nasrallah promette aiuto ad Assad
Intanto continuano i bombardamenti. Commento di Fiamma Nirenstein, reportage di Domenico Quirico

Testata:Il Giornale - La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein - Domenico Quirico
Titolo: «Hezbollah offre aiuto al raìs traballante - Ad Aleppo che aspetta la fine»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 05/08/2012, a pag. 13, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo "Hezbollah offre aiuto al raìs traballante  ". Dalla STAMPA, a pag. 15, il reportage di Domenico Quirico dal titolo " Ad Aleppo che aspetta la fine ".

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Hezbollah offre aiuto al raìs traballante"


Fiamma Nirenstein, Bashar al Assad con Hassan Nasrallah (foto d'archivio)

Uno dei mantra mediorientali è la necessità di conservare la pace in Libano, e a questo scopo ci serviamo di un oneroso contingente internazionale, l'Unifil. Ma la stabilità del Libano è un castello al cui interno sono già penetrati i guerrieri più sovversivi, gli Hezbollah, la milizia sciita filoiraniana, custode degli interessi della Siria di Assad, che a sua volta li ha rimpinzati di armi. Un recente articolo del giornale libanese Al Joumhouria racconta che Nasrallah avrebbe «messo a disposizione di Assad tutte le forze degli Hezbollah nel caso che il regime siriano abbia bisogno di urgente assistenza». Anzi: «Nasrallah ha offerto..due tipi di assistenza: le (sue) forze speciali, anche se per mandarli in battaglia in campo aperto a combattere i rivoluzionari »; e in secondo luogo, «Nasrallah ha invitato Assad nella sua residenza personale (un vero bunker ndr) o a incontrarsi nella ambasciata iraniana a Beirut, se necessario ».Sarà vero?Hezbollah e forze siriane sono state più volte individuati con gli uomini di Assad contro gli insorti; l'articolo rivela anche che prima della morte del ministro della Difesa Daoud Rajha gli Hezbollah avevano un piano militare per intervenire direttamente in supporto del regime dispiegando radar e missili nella valle della Beqaa e mandando 2000 uomini delle unità di elite.
www.fiammanirenstein.com  

La STAMPA - Domenico Quirico : " Ad Aleppo che aspetta la fine "


Domenico Quirico       Aleppo

L’esercito regolare siriano continua a bombardare i quartieri di Aleppo in mano agli insorti, che però non mostrano segni di cedimento e contrattaccano. Ieri c’è stato l’assalto alla sede della tv di Stato e alla Cittadella. I lealisti hanno reagito con gli elicotteri, che hanno colpito il quartiere di Salah ad-Din. Si combatte anche nella capitale Damasco: gli attivisti hanno detto che gli insorti sono penetrati nei quartieri di Muhajirin e Malki, dove ha sede l’ufficio presidenziale e una delle residenze di Bashar al Assad. Un gruppo jihadista ha invece rivendicato l’uccisione di Mohammad al-Saeed, noto presentatore della tv di Stato, rapito il 19 luglio.

Parto dalla città insanguinata. La notte un colpo di artiglieria ha ucciso quaranta persone a duecento metri dal «mio» ospedale, il Dar al Shifaa dove ho vissuto una settimana di guerra. Per lunghe ore, interminabili, sembrava che i soldati stessero arrivando, i ragazzi che difendono l’ospedale nel quartiere Tariq -al -bar si sono appostati dietro i muri con i loro inutili kalashnikov, qualcuno con vecchi fucili da caccia. I soldati non hanno pietà dei feriti, li uccidono. I medici che hanno curato i ribelli vengono bruciati vivi per mostrare che nessuno deve aiutare «i terroristi», nemmeno per rispettare il giuramento che ha fatto, nemmeno per umana pietà.

Parto, con il disagio asprigno che lascia sempre la consapevolezza di tradire, di imboscarsi. La battaglia di Aleppo sta per arrivare al punto decisivo. Lunghe colonne di blindati e di carri avanzano da Sud per dare l’assalto, ora che il veto russo e cinese ha dato ad Assad la certezza dell’impunità e l’ipocrisia dell’Occidente gli ha consegnato il popolo ribelle. Si batteranno, i soldati dell’Armata siriana libera, con i loro mitra, le bombe a mano, qualche arma anticarro, contro lo strapotere degli aerei degli elicotteri e dei tank, che finora è stato usato solo in parte. Non possono ritirarsi dalla città come imporrebbe la strategia: ci sono cose che i generali non possono pesare e capire. Guadagnerebbero tempo e nuove possibilità di lotta: ma quelli che restano qui, i civili, quelli che li hanno aiutati, che hanno sopportato con loro e come loro le bombe e lo strazio, che ogni sera andavano in piazza mentre gli elicotteri cercavano nuovo bersagli di morte per gridare «Bashar vattene», a quelli chi ci pensa? Chi sarà al loro fianco quando arriveranno gli shabia che non conoscono legge e che ripuliranno la città?

Si racconta che una parte di Aleppo, la borghesia dei commercianti che in questa capitale economica del Paese con gli Assad ha fatto buoni affari, sia ostile alla rivoluzione. Forse. Io ho visto i venditori di frutta correre in strada con le mani piene di uva e di fichi e donarli ai ribelli che salivano al fronte. Resteranno, dunque: perché il rivoluzionario non è solo un soldato, ha cuore e mente. Una parte di loro sarà circondata, forse, tra le rovine della città e perirà. Ma altri risorgeranno, alle spalle dei soldati per nuove battaglie qui e in altri luoghi della Siria.

Parto su un’ambulanza dove ci sono due mujaheddin straziati, in fin di vita. Non è una garanzia, l’ambulanza: gli elicotteri e i cecchini le cercano e le bersagliano. L’ultima immagine che porto con me è quella del giovane dottore di Al Shifaa crollato a terra in un corridoio dopo una notte passata a lottare contro la morte, stordito dall’odore del sangue, che grida: «Quando, quando finirà?».

Confesso un’ammirazione quasi religiosa per il popolo che ho incontrato ad Aleppo. Senza distinzione per quelli che combattono e per quelli che sono dietro, uomini e donne, perché tutti sono superiori alle speranze dei fiduciosi, ai dubbi dei disperati. Che ci siano debolezze, vigliaccherie, ignoranze, infamie magari, anche tra i rivoluzionari non faccio finta di ignorarlo. Uno di loro giubilando mi ha mostrato sul telefonino un video atroce: quattro uomini, pesti di sangue e di botte, le facce tumefatte trascinati nel cortile di una scuola e fucilati con interminabili raffiche di mitra tra le grida «Dio è grande». Mi ha spiegato che erano il capo del clan dei Barri e tre suoi parenti. I Barri sono sunniti come i ribelli, ma hanno aiutato il padre di Assad a domare una rivolta molti anni fa; in cambio la tribù ha ottenuto vantaggi, denaro, posti nell’amministrazione. «Erano trafficanti, smerciavano droga», mi ha spiegato soddisfatto il guerrigliero - e poi avevano prima firmato un patto con noi, di restare neutrali, invece si sono accordati con il regime e ci hanno sparato alle spalle».

Ero stato nella scuola dove i quattro sono stati ammazzati, ho riconosciuto nel video il muro con i disegni colorati che neppure le bombe e il fumo sono riusciti a cancellare. Il quartiere dei Barri è proprio alle spalle: vi sono entrato per sbaglio, per vedere un bombardamento aereo, uomini inferociti mi hanno minacciato. Ora molte cose mi sono più chiare.

Ogni rivoluzione ha i suoi umori cattivi, i suoi marciumi, le sue pustole. Ma il sangue sano resiste lo stesso, il sudore espelle i veleni, il sole secca le pustole sfogate. In una guerra bisogna schierarsi: ci sono, sempre, i buoni e i cattivi. Senza mai dimenticare quelli che dall’altra parte non hanno potuto scegliere o si sono ingannati, che l’ondata ha portato via. Qui i buoni sono nella parte che io ho visto.

L’immagine più limpida della rivoluzione siriana me l’ha data un anziano signore, gli occhiali da miope, una maglietta sudicia, i pantaloni avvolti al ginocchio, un inserviente. All’ospedale il suo compito è di spazzare via il sangue: getta un secchio d’acqua e poi con un largo spazzolone spinge via il sangue, dalla camera operatoria, dall’ingresso, dal corridoio dove i medici operano senza sosta e dove il sangue cola interminabile. Getta il secchio d’acqua e poi spinge, una due cento volte, fino a quando il sangue prende la direzione della strada e cola verso la piazza. È il suo modo di partecipare alla rivoluzione.

Chi l’avrebbe detto che i siriani sarebbero stati capaci di affrontare con tanto onore e pazienza e senza aiuti cinquecento giorni così? Lo rivedrò sempre, ogni volta che penserò a loro: il mujaheddin appostato sulla via numero cinque, mentre la battaglia infuria e assorda a un metro e i soldati sparano mitraglia e il cannone ciancia. Mi mostra un Corano che tiene accanto a sè, tutto stracciato. Islamisti, questi? Non so: li ho visti pregare ripetendo umilmente i gesti e le parole del loro comandante, non un fanatico, ma un uomo capace di contemplare la morte con gli stessi occhi limpidi con cui si volge verso un amico.

È il momento di andare: il confine con la Turchia da passare nell’oscurità, facendosi largo tra i reticolati, la corsa senza fiato nella terra di nessuno per evitare i soldati turchi. Se ti scoprono bisogna pagare 700 euro di multa e passare alcuni giorni in prigione, per essere interrogato dai servizi segreti: dove sei andato in Siria, chi hai visto, perché. E una visita medica per trovare possibili, terribili contaminazioni. La Turchia che proclama di essere solidale sorella con i siriani insorti. Forse è di questi «amici» che i ragazzi di Aleppo devono avere più paura.

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