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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
01.08.2012 Siria: al Qaeda infiltrata fra i ribelli. E intanto continuano i massacri
cronache di Gian Micalessin, Domenico Quirico

Testata:Il Giornale - La Stampa
Autore: Gian Micalessin - Domenico Quirico
Titolo: «La Siria ha un nuovo governo (in esilio). Ma a combattere Assad c’è Al Qaida - Con i ribelli nell'inferno di Aleppo»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 01/08/2012, a pag. 11, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " La Siria ha un nuovo governo (in esilio). Ma a combattere Assad c’è Al Qaida ". Dalla STAMPA, a pag. 1-10, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Con i ribelli nell'inferno di Aleppo  ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " La Siria ha un nuovo governo (in esilio). Ma a combattere Assad c’è Al Qaida "


Gian Micalessin

Un tempo era la Milano di Siria, il pol­mone finanziario e commerciale del Pae­se. Oggi è il magnete di tutti i fanatici pronti a morire nel nome del jihad, la guerra santa. Attorno ad Aleppo dove si combatte una partita decisiva per la so­pravvivenza o la caduta del regime di Bashar Assad si sta concentrando il peg­gio dell'internazionale jihadista, centi­naia o forse migliaia di estremisti prove­nienti non solo dal vicino Iraq, ma anche da Cecenia, Pakistan ed Europa. A con­fer­marlo arriva la testimonianza del foto­grafo olandese Jeroen Oerlemans rapito assieme al collega britannico John Can­tille mentre puntava su Aleppo dopo es­ser entrato in Siria dalla frontiera turca: «Erano un centinaio dicevano d'arrivare dal Pakistan, dal Bangladesh e dalla Ce­cenia e di prendere ordini da un emiro, ma almeno un terzo di loro parlava ingle­se con l'accento di Londra o Birmin­gham. Continuavano a ripetere che do­po la caduta di Assad introdurranno la sharia in tutta la Siria» racconta Oerle­mans che prima di essere liberato si è pre­so due proiettili nelle gambe durante un tentativo di fuga. Anche nel resto della Si­ria i militanti al qaidisti combattono a fianco di quell'Els (Esercito Libero di Si­ria) considerato alla stregua di un prezio­so alleato da Francia e Usa. «Le istruzio­ni dei nostri capi di Al Qaida sono chiare se l'Els ha bisogno di aiuto dobbiamo for­nirglielo. Li appoggiamo mettendo a lo­ro disposizione autobombe e trappole esplosive» racconta Abu Kuhuder, capo di un gruppo al qaidista incontrato nei dintorni della città di Mohassen da Gai­th Abdul Ahad, inviato di lingua araba del Guardian di Londra.
Una situazione molto simile a quella del fronte di Aleppo dove i video prove­nienti dalle aree più calde del fronte ri­prendono
gruppi di militanti che com­battono al grido « Allah Akbar ». La tena­cia di queste formazioni pronte al marti­rio spiega perché dopo quattro giorni d'intensi combattimenti le truppe gover­native non siano ancora riuscite a ripren­dere il controllo di molti dei quartieri nord orientali e sud occidentali control­lati dalle milizie anti governative. Ieri l'Esl affermava d'esser presente in otto quartieri della città. Damasco rivendica invece il controllo dell'80% dell'agglo­merato urbano. L'unica certezza è il dramma dei civili intrappolati tra due fuochi e senza più acqua e cibo. Sul fron­te internazionale la coalizione anti-As­sad guidata da Washington e Parigi, con l'appoggio di Arabia Saudita, Qatar e Tur­chia, continua le manovre per accelera­re la fine del regime. Ieri l'81enne Haytham al-Maleh, figura storica dell' opposizione, ha detto di aver avuto l'in­carico di formare un governo provviso­rio al Cairo. Lunedì notte il premier tur­co Recep Tayyip Erdogan ha discusso con Obama «gli sforzi per accelerare la transizione politica in Siria». La Francia, da oggi presidente di turno del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, vuole invece usa­re la propria influenza per superare i veti di Russia e Cina e far approvare una riso­luzione in grado di favorire l'intervento internazionale. L'addio di Assad non è comunque vicino. Come ha confermato il ministro degli esteri italiani Giulio Ter­zi il presidente siriano non è assoluta­mente disposto ad accettare le garanzie internazionali che gli consentirebbero d'ottenere un salvacondotto e rifugiarsi all'estero con la famiglia.

La STAMPA - Domenico Quirico : " Con i ribelli nell'inferno di Aleppo "


Domenico Quirico

Vivo all’ospedale di Aleppo, camera 301. La guerra non la devo cercare, la guerra viene da me, ogni ora del giorno. La mia «casa» raccoglie la guerra a piccole e a grandi ondate, e, se vuoi, puoi leggere la battaglia restando seduto vicino al minuscolo «pronto soccorso», ascoltando i nomi dei quartieri da cui arrivano i feriti e i morenti: ieri con qualche bombardamento in più, in fondo, una ordinaria giornata di guerra. Il primo morto che ho visto, per esempio. Lo hanno abbandonato all’ingresso sull’inutile barella, sdraiato con ancora indosso tutti i suoi aggeggi di soldato, i tascapane pieni di caricatori, il giubbotto mimetico con la nuova bandiera della insurrezione, verde bianca e nera e tre stelle, una in più di quella del nemico, degli uomini di Bashar Assad: sì, si può morire per una stella in meno su un pezzo di stoffa. Aveva un nero fiore di sangue sulla gola e sul petto, solo il viso era tumefatto già violetto, sulle guance due fosse di ombra che gli mettevano sopra una bellezza raccolta e sofferta, una nobile patina di morte.
Era morto davanti al nemico dunque guardandolo in faccia, battendosi come gli eroi delle antiche leggende nel mortifero quartiere di Saladino. E Eme lo spiegava un compagno in lacrime, tenendo in mano con rassegnazione il kalashnikov che non l’aveva aiutato a sopravvivere, povero fante di un esercito senza cannoni. Solo le scarpe, i robusti sandali da contadino, gli avevano tolto e le dita dei piedi erano bianche, come di gesso. È rimasto così per mezz’ora nella calura di quel corridoio, nella ressa delle barelle che lo urtavano e s’affollavano con altri feriti, con altri morenti. Appena l’onda della battaglia del mattino. Poi qualcuno l’ha pietosamente coperto con un lenzuolo.

Nel «mio» ospedale i medici portano la pistola nella cintura dei pantaloni, piccole pistole russe con una stella disegnata sul calcio di legno. Ma non sono guerrieri, curano tutti, amici e nemici, vincitori e vinti. Non so se dall’altra parte avviene la stessa cosa: con «i terroristi», come li definiscono, non credo pensino di aver regole da rispettare, neppure quelle della impegnativa umana pietà.

Uno di loro non è medico, confessa con un sorriso contrito, è un veterinario, ma i colleghi sono troppo pochi e l’ospedale è travolto dai feriti della guerra e poi i pazienti normali, i vecchi, i bambini. I miei dottori vivono nell’ospedale, fanno turni di due settimane senza soste, operano nell’atrio, direttamente sulla barella, mentre il sangue cola per terra e forma larghe pozze scure. Ieri mattina ho visto cucire una profonda lacerazione di una pallottola senza anestesia: prima il chirurgo ha fatto bere al soldato due lunghe sorsate d’acqua e lui guaiva a ogni passaggio dell’ago nella carne.

Una piccola onda, a metà mattinata, mi porta la storia di due ragazzi. Adel è un soldato di Bashar, ferito allo stomaco. L’altro non è in uniforme, è giovanissimo, collo infantile, spalle infantili: gli tolgono la maglietta, sul torso esile ha un tatuaggio di una aquila che afferra un serpente e una serie innumerevole di piaghe, sul petto e sulla schiena, come di antiche scudisciate. Li hanno presi insieme: Adel ha meno paura, è soldato lui, dice che voleva arrendersi, che ha alzato le mani e gettato il fucile ma che gli hanno sparato addosso. «Fanno tutti così, stragiurano che facevano la guerra perché obbligati, che volevano unirsi a noi…».

L’altro sospettano che sia uno «shabiha», gli squadroni della morte. Qui i più feroci appartengono a una famiglia, El Barri, notabili alleati degli Assad, uno dei figli del patriarca è deputato nel parlamento fantoccio uscito dalle ultime elezioni. Hanno duecento miliziani: l’odio e la paura della gente vi aggiunge «venti hezbollah reclutati in Libano», tiratori scelti, nei racconti assassini infernali. Impossibile verificare. Hanno dato allo shabiha, che ha un piede ridotto a un grumo di sangue e una pallottola nel braccio, un pezzo di focaccia e un formaggino. Lui non li tocca. Continua a parlar fitto, a ripetere la sua storia. Uno degli uomini della armata libera che lo ha preso lo minaccia: va là, sei una carogna, lo sappiamo. Farai una brutta fine…», e tocca il fucile. Ma lo dice così per dire, si vede. Il prigioniero non regge, si affloscia e grosse lacrime cominciano a rigargli le guance sudicie, imberbi. E implora pietà come tutti i soldati del mondo quando hanno paura. Lo curano e lo dimenticano su una sedia. Quando sono tornato nel pomeriggio era ancora lì. Stracco macilento e sudicio. E ripeteva che voleva arrendersi, che l’avevano mandato al fronte…

Mi raccontano che si combatte nel quartiere vicino, e aspramente. Questa è una guerra urbana, guerra bastarda, che si cela e ti morde come una vipera. Fino a una certa ora una strada, un bivio, una casa sono sicuri, saldamente in mano ai «nostri». Esci, cammini e di colpo tutto è cambiato e ti ingoia. C’è la prima linea e poi un’altra, il cecchino, la Bestia che spara ad ogni gioco di ombre. Ho cercato di tracciare la mutevole geografia della battaglia su una carta, impresa vana. Non sento nessuna connessione con questo posto. Nessun modo di collegarsi a terra, nessun istinto a cui affidarsi. Aleppo è una dinamo che ronza di violenza diffusa, dove non c’è nessun confine almeno che sia comprensibile per me.

In due vie parallele, dritte, i ragazzi della Armata siriana libera tirano su una trincea di terra e di pietra distante cento metri, dove si sono piazzati gli shabiha. Dalle due parti una sorta di abbaiamento rabbioso, nutrito, implacabile. Un elicottero gira pigramente nel cielo, alto, descrivendo larghi giri. Sugli usci delle case la gente aspetta a braccia conserte che la prima linea cammini, vada più avanti. Restano al riparo dietro gli angoli delle case, i ribelli, impazienti, poi balzano fuori e tirano frenetiche raffiche contro il nemico. E ogni volta gridano in coro «Dio è grande», come per una preghiera ben fatta, un voto esaudito. Dietro all’angolo di una casa, mentre spio i combattenti, mi chiedono se sono musulmano; «No, cattolico» dico e allora elencano, gioiosi, la triade santa che, forse, ci può unire: Allah, Maria e Gesù. Il ragazzo che ha appena finito di vuotare il caricatore a un metro da noi torna al riparo, gridando «Dio è grande». È sempre lì, un dio, pronto, nel bene e nel male. Forse l’hanno inventato per questo, qui in Siria terra di fedi sta soffrendo anche lui la sua creazione: nelle azioni degli uomini.

Non bisogna trarre conclusioni sbagliate: quella ribelle non è una armata fondamentalista, non combatte un jihad. Questi ragazzi fumano, non osservano il ramadan, fanno festa agli occidentali che sono venuti a vedere la loro guerra e, forse, li aiuteranno. Appartengono alla maggioranza sunnita piamente conservatrice; nelle campagne i ribelli sono piccoli eserciti-famiglia arruolati tra i cugini e i clan che obbediscono solo ai loro comandanti, una Vandea sunnita. Si battono, più che per la libertà e la democrazia, contro l’onnipotenza di un clan minoritario e sanguinario.

Due strade più indietro passa a passo di corsa il funerale di un ragazzo ucciso, Zain, uno del quartiere, il cadavere issato su un motocarro. Ci chiamano nel cortile di casa, lo hanno deposto in una cassa di legno verde, colma di ghiaccio perché il calore è da altoforno. Ha ancora segni di sangue secco sulle labbra, gli passano, dolcemente, le dita sul volto. Il ghiaccio già si scioglie e diventa acqua sul pavimento; fiata un tanfo acuto di morto. Tutte le pareti del cortile sono coperte di gabbie di canarini e di piccoli uccelli che freneticamente cantano per il loro padrone che non c’è più. Il fratello ci saluta sull’uscio: «Ditelo che siamo gente comune, civili non terroristi, viviamo qui, ci difendiamo…».

È quasi l’una: camminiamo, strisciando ai muri, in via Deszein Alabdin sepolta, come tutte le città, da una coltre di immondizie, quando si sente un rombo, un Mig passa in picchiata a bassa quota. La parte alta della casa davanti a noi è morsicata da una esplosione e sparisce in un fragore di calcinacci. Bashar bombarda la città ribelle, ha deciso di usare tutti i mezzi per vincere la battaglia di Aleppo, sa che se perderà questa metropoli gli insorti avranno una capitale-metropoli a 50 chilometri dal confine turco: l’incubo, per lui, di una Bengasi siriana.

Ieri, come mai prima, aerei ed elicotteri hanno innaffiato la città di esplosivo e di ferro: la guerra dei vigliacchi, la guerra che colpisce e uccide alla cieca. Un grande fumo nero si alza dalla centrale elettrica che alimenta tutto il quartiere. Gli aerei passano e ripassano, lanciando i loro razzi: si accaniscono contro una scuola che è a un passo. Entriamo: in quelle che un tempo erano aule ci sono gli uomini della «katiba», della brigata «1980», la data di un altro massacro, trecento morti ma erano i tempi di Assad padre.

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