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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa-Corriere della Sera Rassegna Stampa
31.07.2012 Siria: reportage degli inviati
Domenico Quirico, Lorenzo Cremonesi

Testata:La Stampa-Corriere della Sera
Autore: Domenico Quirico- Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Aleppo sotto il tiro dei cannoni attende l'assalto finale-Fuga disperata da Aleppo tra bombe a grappolo e cecchini nascosti sui tetti»

Domenico Quirico per LA STAMPA, Lorenzo Cremonesi per il CORRIERE della SERA, continuano oggi, 31/07/2012, i loro reportages sulla guerra civile in Siria.
Ecco i pezzi:

La Stampa-Domenico Quirico: " Aleppo sotto il tiro dei cannoni attende l'assalto finale "

Domenico Quirico

Il regime siriano stringe la morsa intorno ad militare, Abdel Jabbar al-Oqaidi. L’opposiAleppo. Ieri gli scontri si sono concentrati zione ha ripreso il checkpoint di Anadan, nel distretto sudoccidentale di Salah ad-Din: strategico poiché assicura libertà di movii lealisti affermano di aver «purgato» la zo- mento da Aleppo verso la vicina Turchia. E na. Secondo gli insorti, invece, l’esercito ha Ankara ha ammassato truppe e tank al conbombardato a tappeto con Mig ed elicotteri, fine. La popolazione è allo stremo, senza ma le truppe «non sono avanzate di un solo cibo né acqua potabile. Secondo l’Onu, 200 metro», come ha assicurato il locale capo mila persone stanno fuggendo.

dato loro abiti civili a casaccio. Infagot- discriminazioni, scegliere, escludere, tati in pantaloni e magliette troppo lasciarsi dietro qualcuno, anche se sostrette e troppo grandi appaiono anco- no i cattivi della Storia. ra più sconfitti e grotteschi. Uno, nel- I carcerieri entrano nella cella, svell’angolo più lontano, ha il volto sfigura- ti, si fanno consegnare gli orologi, gli to dai colpi: «É caduto per terra, nes- anelli; uno ne avvolge tre, quattro atsuno lo ha picchiato, noi non facciamo torno al braccio. Ho chiesto di parlare queste cose» assicurano i soldati che li con qualcuno dei prigionieri: «Chi hanno presi. vuoi? Un soldato uno shabiha? Uno Non fanno scene, non Il più antico è qui spione? Fresco o piangono, non urlano, da un mese, gli altri vecchio? Solo di pensano. I lunghi intimi da settimane, gior- alawiti qui non ne pensieri di quando può ni, qualcuno da po- abbiamo». Mi viene mutare l’intero corso che ore. L’altra not- in mente un altro ridella vita, di quando può far finire te c’è stata battaglia voluzionario sunnitutto in un istante. Ci sono tappeti sul ad Anadan, un’ap- ta che mi ha detto pavimento della cantina trasformata pendice chiave del grande scontro di con rabbia: «Gli alawiti sono peggio dein prigione, fa caldo, l’aria è pesante Aleppo, un nido di cannoni dell’eserci- gli sciiti! Eretici e pazzi fanatici, per locome una coperta di lana. Era que- to di Assad e degli shabiha, le fanatiche ro i capi sono divinità per cui vogliono sto, prima della guerra, un quartiere milizie alawite, le brigate nere del regi- morire». Le rivoluzioni arabe sono atdi lusso in costruzione per la nuova me siriano. traversate anche da pericolose eresie. borghesia di arricchiti dal breve di- I prigionieri per chi fa il mio mestie- Ne scelgono due: uno, giovane e sgelo economico di Bashar al Assad, re sono un capitolo difficile: si coltiva il grosso, il suo busto è una groppa che l’ultima illusione o finta del regime. I margine pericoloso delle cose, il dub- aspetta in eterno di ricevere pesi; l’alprigionieri sono appoggiati ai muri. bio, la fede in quella che è la causa giu- tro, piccolo stempiato, le mani sgranaAspettano. Sono una trentina, giova- sta talvolta vacilla. Ma se il dovere è no freneticamente il rosario. Lo shani la maggior parte, ma vi sono alcuni scrivere dell’uomo che soffre, di qua- biha è lui «guidava un carro armato, anziani, sessantenni, i più spauriti e lunque uomo che soffre, allora non ci abbiamo convocato la sua famiglia. più mesti. Nessuno è in divisa. Hanno sono incertezze: non è possibile fare Parleremo con loro, vedremo che farne». Se si scopre che hanno ucciso saranno spediti a un tribunale rivoluzionario che li giudicherà.

Escono dalla cella e si mettono sull’attenti, le mani dietro la schiena, umili. Lo shabiha racconta che ha tre figli, che l’unica cosa che spera è che tutto finisca e possa tornare a casa e vederli. Il più giovane dice quello che forse pensa io voglia sentirmi dire: che spera che «il regime di Bashar cada presto, subito, ora. Perché i siriani possano tornare tutti fratelli. E che li hanno costretti a combattere ricattandoli con la minaccia di rappresaglie sui parenti rimasti a casa».

Arriva il capo dei carcerieri, massiccio, una camicia a scacchi, non ha il fucile in mano, solo un lungo terribile randello. Mi osserva storto, minaccia. Lo calmano. La visita è finita, saluto quelli rimasti nella cella, auguro loro buona fortuna; mi guardano con una pena infinita che non dimenticherò, prima che la porta si chiuda. A Tripoli sono stato prigioniero in una cella così, la stessa porta verde. I ricordi sono trappole tenaci.

Quando esco Maher, che è un giovane rivoluzionario e saggio mi dice: «Questa gente ha ucciso nelle nostre case, non bisogna mai dimenticarlo prima di giudicare». Il «generale» è un vecchio in tuta da ginnastica, piccolo e sodo, la faccia da vecchio nonno premuroso. Ha davanti a sé un sacchetto nero dove hanno messo il bottino della perquisizione: carte d’identità, documenti militari, telefonini, bigliettini di scrittura fine e fitta, schede telefoniche. Li tira fuori uno per uno, scruta le facce, le indicazioni anagrafiche e pesa storie di uomini. Escono anche salviette profumate cinesi, alcune cose le getta via, seccato. Due carte di identità le passa a un altro anziano che comincia a telefonare parlando fisso. La vita e la morte passano per quei pezzi di carta, i due uomini possono scorgervi delitti inimmaginabili o coincidenze salvifiche. La vita e la morte in un documento, nel tuo cognome, in una somiglianza, in una voce: come in tutte le guerre civili.

É stata aspra la battaglia ad Anadan, alla periferia di Aleppo. Hanno vinto i ribelli: otto carri armati catturati, due distrutti, casse di munizioni e di armi. E soprattutto cannoni che non morderanno più la città e la strada che la lega alle zone liberate. I giovani guerrieri della battaglia notturna arrivano a scaglioni. Si portano dietro la guerra come un’infinita stanchezza. Il più giovane ha tutto il fuoco negli occhi. É un blocco di voglia di battersi e creare che solo la morte può frangere. Porta in testa una paglietta, scherza e non vuole fotografie: perché non ha messo il gel nei capelli. Era anche lui un prigioniero, poi ha accettato di passare con gli insorti e adesso è diventato un bravo rivoluzionario: «Un anno e mezzo di ferma, poi invece di mandarmi a casa mi hanno prolungato il servizio di otto mesi c’era la rivoluzione. Ci tengono prigionieri in caserma, divieto di uscire, nessuna licenza in un anno mentre la regola è ogni due mesi. Hanno paura che abbiamo contatti con la popolazione». Quando lo hanno preso hanno chiamato la famiglia, ha deciso di restare con loro per battersi.

Mahmud è simpatico, selvaggiamente giovane, ma non andrò ad Aleppo con lui. Ha promesso di accompagnarmi nella città dove da tre giorni infuria la battaglia decisiva, i quartieri passano di mano, le case sono polverizzate dalle bombe: «Se vieni con me ti faccio paura, io sono pazzo ti porto dove fuggirai di corsa…». E ride. Non amo i ribelli troppo spavaldi; la rivoluzione è umiltà e pazienza. È stato 65 giorni nelle prigioni dei servizi segreti, lo hanno fatto passare alla «ruota», una tortura che i siriani hanno appreso dai russi: si lega il prigioniero con le gambe e le braccia rattrappite e si picchia. Per lui erano in quattro, colpivano senza guardare, faccia, busto, gambe con foga, con voglia «come se fossi già un morto». Lo hanno portato da Aleppo a Damasco sul cellulare, dodici ore di viaggio: lentamente per poterlo picchiare più a lungo. Lo odiano questo operaio tessile,senza soldi, senza istruzione, che non ha mai aperto Internet: un vero rivoluzionario di antica e buona stoffa. Organizzava manifestazioni per aiutare i detenuti politici, non stava zitto, lavorava di altoparlante in strada: hanno minacciato di bruciarlo se non smetteva. Un episodio ha cambiato la sua vita come per molti di coloro che oggi combattono la paleo-dittatura del giovane Assad. Un giorno il figlio di un ufficiale lo ha schiaffeggiato in pubblico. Non ha potuto rispondere, ha dovuto subire; perché sapevo che sarebbe stato ucciso: «Allora ho capito che dovevamo riprenderci la dignità, tutti». Ha un suo gruppo di giovani guerrieri, si sente libero, spesso non obbedisce agli ordini del Comando: diventerà un problema domani quando la rivoluzione vincerà. «Abbiamo dei diritti, i motivi per battersi ognuno di noi li ha raccolti a poco a poco negli anni e poi si inizia, bisogna iniziare».

Nel colonnello Abdel Jabbar al Okaidi, baffi magnifici, stratega della battaglia nel quartiere chiave di Salad ed–din invece ho fiducia. Perché è un comandante dai modi un po’ paesani, che nella magnifica villa che gli fa da comando nella campagna - piscina, pini e ulivi superbi - si mette i pedalini neri davanti a me e ai suoi ufficiali. La pistola la porta infilata nei pantaloni come un capo banda qualsiasi, ma quando sta per uscire l’attendente gli infila, con deferenza, le mostrine con due aquile lussureggianti in oro. Il generale ha mantenuto la promessa. Mi ha portato ad Aleppo. Scendiamo in città per una strada da capre che sbullona l’auto, e come una sciarpa fa lenti piegoni alle curve. Attorno la campagna è un mare di argilla, sassi e olivi. Il cannone è una vaga eco, un brontolare remoto. Superiamo il grande anello che attornia Aleppo («qui è molto pericoloso, i soldati di Bashar vengono rapidi con i carri armati e alzano per qualche ora dei posti di blocco per setacciare chi passa»), e poi entriamo dalla zona industriale. La città accoglie grigia, arsa, sciupata dalla incuria e dalla violenza degli uomini, con una coda di gente. Una coda spessa, stanno per tre, per quattro, anche per cinque. È tutto un blocco: le parole, le grida, i pensieri si trasmettono da un individuo a un altro. Ci sono facce di ogni sorta, donne soprattutto, ragazze e signore, facce di popolane e di borghesi, facce dure, facce di operai, di professionisti e di poveri. Le vecchie stanno accoccolate su seggiole sfondate sulle quali si abbandonano silenziose curve devastate. Aspettano il pane. Che non c’è.

Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi: " Fuga disperata da Aleppo tra bombe a grappolo e cecchini nascosti sui tetti "

Lorenzo Cremonesi

DAL NOSTRO INVIATO
PROVINCIA DI ALEPPO — Quasi quattro ore in auto con la famiglia sotto le bombe per un tragitto che in tempi normali prende meno di 15 minuti. E, però, partire in ogni caso, scappare di fretta senza portare nulla. Via, via, fuggire dall'inferno. Lasciare Aleppo sotto l'assedio delle truppe di Bashar Assad e le immagini di morte diventate quotidiane. A ogni prezzo, esasperati dall'attesa inutile di una tregua che non giunge mai, e se arriva è solo fragile, temporanea, caduca. Uscire dalla trappola che da una settimana sta diventando sempre più letale, con le esplosioni che arrivano a ondate: ora vicine, ora lontane, talvolta vicinissime.
Vetri infranti, sventagliate di mitragliatrice echeggianti per le vie deserte, calcinacci e immondizie dovunque, pianti di bambini, schianti indistinti. Di notte fantasmi in movimento e buio ostile nella città priva di corrente elettrica, senz'acqua, le riserve di cibo al lumicino. Con elicotteri e carri armati che tirano a casaccio sulle case. I «kanass», gli odiati cecchini delle forze scelte lealiste, che sparano dai muri della cittadella medioevale. E la guerriglia rivoluzionaria che apre passaggi e cunicoli a picconate nei muri dei palazzi contigui per evitare di esporsi all'aperto. Come nelle Stalingrado e Berlino della Seconda guerra mondiale. In tempi più recenti era normale nella Beirut del conflitto civile, tra i disperati di Sarajevo.
I responsabili dell'Onu denunciano 200.000 profughi in fuga dalla seconda città siriana solo tra sabato e domenica. Ne abbiamo incontrati tanti accomodati alla bell'e meglio tra le cittadine e i villaggi delle province meridionali e occidentali di Aleppo. Mahmud (non vuole rivelare il cognome), 26 anni, è uno di loro e raccontava ieri pomeriggio, appena giunto nella cittadina di Eriha, il suo dramma di poche ore prima. «Questa mattina (ieri per chi legge, ndr) verso le sette abbiamo deciso che occorreva partire. Con mia moglie, i nostri due bambini di 4 e 2 anni, i miei due fratelli e le loro famiglie, eravamo in tutto 13 persone. Alle otto ho finalmente trovato il proprietario di un piccolo pickup Suzuki, che per un prezzo venti volte superiore alla tariffa normale è stato disposto a percorrere i cinque chilometri verso la salvezza, oltre la cerchia dei posti di blocco dell'esercito lealista». La sua testimonianza aiuta a ricostruire la geografia della battaglia urbana. Partono dal quartiere di Sikari, nella zona meridionale. A guardare la cartina, sembrerebbe facile uscire dalla città, i campi coltivati sono a un tiro di schioppo. Ma proprio qui sono posizionate alcune unità di carri armati che sparano contro tutto ciò che si muove. Temono le autobomba kamikaze usate dai gruppi più fondamentalisti tra la guerriglia. Sono costretti allora a imboccare la circonvallazione interna che sfiora i quartieri tenuti dalle forze rivoluzionarie e più bombardati dai lealisti. In quelli di Mashad e Hamdaniya riescono a passare abbastanza veloci. Solo un paio di soste per chiedere ai posti di blocco volanti istituiti dai ribelli quali sono i vicoli più protetti. Ma è a Salahaddin che la situazione si fa davvero pericolosa. «Le bombe cadevano un po' dovunque, le macerie e i crateri sul selciato rallentavano il nostro procedere in modo esasperante», ricorda. Una delle sue paure sono le micidiali «bombe a grappolo», che disseminano cariche esplosive innescate per un raggio di decine di metri. Se la vettura ne urtasse una, per loro sarebbe la fine. A mezzogiorno i portavoce di Damasco riportano di avere finalmente catturato Salahaddin. Ma più tardi i ribelli replicano che la zona resta contesa. Mahmud procede a singhiozzo sino a «Piazza Basel», l'ultima roccaforte rivoluzionaria prima del terminal degli autobus, dove alle dodici e trenta incontra le truppe lealiste. «Ci hanno perquisito per verificare che non avessimo armi. Ma poi ci hanno lasciato andare», dice. Da qui una lunga coda di mezzi stracarichi di profughi è in lento movimento verso il confine turco. Molti si disperdono nelle abitazioni di amici e parenti nei villaggi sulle colline ancora in zona siriana. La cattura del posto di blocco lealista ad Anadan, 5 chilometri a nord di Aleppo, invoglia la gente a restare nelle vicinanze delle truppe rivoluzionarie.
Achmad, cinquantenne residente a Salahaddin fuggito ieri con 9 famigliari, ci racconta di avere visto i corpi di 9 donne e 6 bambini, oltre a quelli di decine di soldati e guerriglieri. «Alcuni giacciono insepolti nel loro sangue da più giorni, al caldo, coperti di mosche. Sembrano animali». A suo dire, i guerriglieri sarebbero in tutto almeno 2.000 contro una forza di spedizione lealista composta da 5.000 soldati con oltre 200 carri armati. I cinque maggiori ospedali della città sarebbero in mano ai pro Assad. La guerriglia ha allestito cliniche di fortuna negli scantinati, dove andrebbe anche la maggioranza dei civili, perché «i soldati uccidono i feriti che non riconoscono, pensano che siano guerriglieri travestiti o loro famigliari».
Nel caos, crescono le voci più incontrollate. Starebbero tra l'altro bruciando alcune antiche moschee. L'importante comunità cristiana locale, una delle più antiche del Medio Oriente, sarebbe in parte evacuata e cercherebbe comunque di restare defilata. «La gente del nostro quartiere che è troppo povera per scappare ha trovato rifugio nelle palazzine del campus universitario e nelle scuole di quartiere. Ma mangiare sta diventando impossibile. Il pane è passato da 15 a 150 lire al chilo, il prezzo dei pomodori è duplicato, quello della benzina quadruplicato», aggiunge Achmad.
Con l'aggravarsi delle tensioni, la missione delle Nazioni Unite registra bombardamenti lealisti sulle città di Homs e Rastan. Il segretario generale Onu, Ban Ki-moon, denuncia un nuovo episodio di aggressione contro gli osservatori. «Sono indenni solo grazie ai loro mezzi blindati», ha specificato.
Sulla scena internazionale pesano le recenti dichiarazioni del segretario della Difesa Usa, Leon Panetta, che ha denunciato l'attacco su Aleppo come un nuovo «chiodo piantato sulla bara di Bashar Assad». E a confermare la crescente fragilità della dittatura potrebbero essere le dimissioni del primo diplomatico siriano all'ambasciata di Londra, oltre alla fuga in Turchia di un generale lealista e una dozzina di alti esponenti della polizia di Latakia.

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