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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa-Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.07.2012 Siria: la battaglia decisiva. Ma è l'islam a dominare, non le 'religioni'
l'inviato Domenico Quirico, commento di Roberto Tottoli

Testata:La Stampa-Corriere della Sera
Autore: Domenico Quirico-Roberto Tottoli
Titolo: «La battaglia decisiva-Siria, un conflitto di religioni come in Bosnia e in Iraq»

Anche la STAMPA ha adesso un inviato in Siria, è Domenico Quirico, attento e accurato osservatore dei dettagli che permettono di conoscere il quadro completo di quanto accade. Il pezzo è a pag.1/12, oggi, 30/07/2012.
Segue dal CORRIERE della SERA, a pag.11, l'analisi di Roberto Tottoli, con un nostro commento.

La Stampa-Domenico Quirico: " La battaglia decisiva "

Il problema è: cosa erano prima? Perché la rivoluzione, la guerra civile li ha misteriosamente cambiati e non possiamo renderci conto di come ciò sia avvenuto. È una trasformazione concreta, permanente. Forse perfino misurabile.
Tutti sono stati plasmati dal conflitto e dal suo trauma ; consciamente o inconsciamente si sono rimodellati, assumono un atteggiamento, indossano una, maschera, si lasciano compenetrare profondamente da quella esperienza e ne escono riconfigurati. Ma prima come erano? Che cosa era Saleh prima di vendere l’automobile per potersi comprare un mitra e combattere? Si sentiva un uomo come ora che lo mostra orgoglioso come se fosse un figlio? E cosa era Mudar che ti insegue, umilmente petulante, per mostrarti come prova del suo coraggio, della sua nuova identità, un video sul telefonino? E si vedono sequenze di battaglia, blindati che manovrano sotto il fuoco dei lanciarazzi e poi cadaveri di soldati a terra, tutti curiosamente senza scarpe («faceva un caldo tremendo, se l’erano tolte sui pick-up e quando li abbiamo attaccati non hanno avuto il tempo…»)? La voce che grida ossessivamente nel sonoro, roca e spezzata dalla corsa e dalla emozione «Dio è grande« è la sua . E forse erano così, un tempo, gli eroi di Omero nella pianura di Ilio: mostravano lo scudo pieno di ammaccature e ognuna era una vittoria. E cosa era Nour che non vede i suoi due figli da tre mesi, sono in Turchia, e spiega che li ha lasciati lì per essere più libero quando combatte? Aveva allora questo padre affettuoso lo stesso piglio di ardito e spicciativo furfante? E il padre di Mansour detto «la tigre» perché era forte come un toro e ora non c’è più, martire, ma dopo aver liberato questa zona, e quella di Nayan, dai soldati di Bashar? Che cosa era prima di ribellarsi, ai tempi del dittatore padre, aveva la stessa aria dolce e risoluta nel suo barracano nero, nonostante quel figlio perduto? E questo ragazzo che racconta il massacro di cinque paesani, tre fratelli e due dei loro figli, erano commercianti, senza legami con la rivoluzione, li avevano fermati gli uomini dei servizi alla barriera di Elamun all’ingresso di Aleppo, di qui sono 30 chilometri; li hanno ritrovati ieri mattina, quei malavventurati in campagna, nella loro auto, le mani legate dietro la schiena, orrendamente torturati e mutilati. Avrebbe avuto 500 giorni fa prima che la rivoluzione scoppiasse la stessa quieta risolutezza nel mostrarti, anche lui, un video che ha girato sul telefonino, tremendo, volti irriconoscibili per i colpi, mani tagliate: quando l’odio diventa delirio? «Erano di una grande famiglia, gli Oso, qui della zona, che ha ragazzi nella rivolta..»: avrebbe avuto questo coraggio, prima dell’erta di quei 500 giorni?

Poi uno dei ragazzi della Armata siriana libera che mi scortano ha detto una cosa: «Tu forse non puoi capire tutto perché non sei vissuto qui negli ultimi quaranta anni: nemmeno in casa, nemmeno quando eri solo con i figli o con tuo padre, avevi il coraggio di parlare liberamente, ti guardavi attorno sussurravi. Potevi bestemmiare il tuo dio, senza danni, quanto volevi; ma se pronunciavi il nome Assad eri morto».

Le stesse parole me l’ha dette un uomo della rivoluzione libica a Bengasi meno di un anno fa quando Gheddafi era già caduto: ecco, la paura. Riassume il passato della gente che ha combattuto e combatte la rivoluzione araba. Si sono trascinati dietro la paura come qualcosa di sporco attaccato alle scarpe, giovani vecchi, uomini donne, risoluti e tentennanti. Per generazioni. Si battono per scuotersela di dosso e per sempre. Hanno esitato prima di gettarsi nella rivoluzione come in un fiume per lavarsi del passato. Avevano paura, lo ammettono, non del figlio Bashar, erano le vecchie croste della paura del padre. aveva ucciso senza muovere un muscolo del viso quarantamila persone che si erano ribellate. Come ora. In questi mesi mi era paro inspiegabile che gli uomini del regime si accanissero contro i bambini, torturandoli, uccidendoli: «Era un modo per ricordarci che non hanno limiti in quello che possono fare, per ridare forza a quella paura».

Avevano paura dei diciassette servizi di sicurezza, tutti indipendenti l’uno dall’altro, tutti rapaci e malefizi osi, tutti onnipotenti e «ognuno dei suoi capi è come un altro piccolo Assad...». Fino a ieri ripetevano un proverbio che mi sembrava misterioso, senza senso: «che entra è perso e chi esce è nato». E parlava di coloro che arrestati venivano portati nella prigione di Palmira, nel deserto. Lì sparivano, inghiottiti nel nulla; neppure i cadaveri restituivano ai parenti. Anzi: per punizione venivano tolte loro case e proprietà. Per tutto questo, nella regione di Aleppo, qui nel nord, quando quasi a sorpresa la rivoluzione è scoppiata, è rimasta apparentemente tranquilla, indifferente. In realtà si preparava. Tutti hanno un fucile in casa: perché se non lo possiedi non sei un uomo, non puoi difenderti, altre armi sono arrivate attraverso il confine turco. E ora vaste zone come quella in cui ci troviamo e città e villaggi sono libere, si amministrano affidate ai notabili o a qualche imam venerato.

Per arrivarci il viaggio è breve nello spazio ma lungo, interminabile nelle vibrazioni dell’anima e della Storia. Al di qua della frontiera la Turchia è la luce, energica arrogante aggressiva narcisista come questo Paese che sprizza orgoglio e desiderio quasi dalla terra, che vuole espandersi, far da modello e comandare. Eppure al di qua del confine si spengono subito alcune certezze nel sanguinoso imbroglio siriano. Che la Turchia sia a fianco dei ribelli, li addestri, li aiuti, li armi. I generali gli ufficiali e i soldati turchi che hanno disertato e si sono rifugiati oltre confine sono in pratica prigionieri nei campi, controllati a vista: niente armi, nessun istruttore. Ankara, ossessionata dal problema dei curdi, è larga di parole ma avara di fatti, modellerà su questo la sua azione. E poi altre delusioni: «Ali americani mi racconta un ufficiale disertore- abbiamo chiesto gli Stinger, ci servono contro gli aerei e gli elicotteri. Ora cerchiamo di abbatterli tirando con le mitragliatrici verso l’alto, sdraiati con la schiena per terra. Li hanno dati ai libici, lo scorso anno. A noi hanno risposto no: dicono che temono di perderli, che finiscano in mano ignote. Già ma di quelli dati ai libici che cosa sanno?».

Al di la della frontiera chiusa da giorni la Siria è il buio. L’attesa a Kailis per attraversare è lunga in uno spiazzo accanto allo stazzo di un gregge di pecore, l’odore acuto che arriva a zaffate. Uomini giovani sorgono continuamente dall’ombra, sono disertori che hanno deciso di raggiungere l’armata degli insorti. Fioriscono nel marcio della guerre come fiori velenosi i «passeur»: contrabbandieri di roba di armi di uomini, sono un po’ turchi un po’ siriani, gente di confine, si offrono, assicurano che i soldi sono per aiutate la rivoluzione. Chissà. A fari spenti un’ auto ci porta in mezzo alla campagna, il buio dapprima lasci intravedere disordinate forme inorganiche. È la città che si sfilaccia nella notte segnando la fine dei quartieri poveri e l’inizio dei campi con lunghe file di ulivi che presidiano il niente. La luce della luna crescente del ramadan svela la trama di un sentiero che si allunga come una biscia in mezzo all’erba secca. «Mai lasciare il sentiero, ci sono le mine qui». Arriviamo ai reticolati, si scivola sotto strisciando. E improvvisi dal buio, immobili, su due sedia di plastica bianca i primi soldati dell’armata siriana libera. Il loro campo è tra gli ulivi, attorno al fuoco fumano pigri il narghilè. Sono giovani, pieni di vita, si sentono per la prima volta onnipotenti, quest’idea di non aver più paura gli mette nel petto un solletico voluttuoso. Hanno voglia di ridere, di gridare, di battersi. Senti subito che una conclusione ci sarà. L’aria prende consistenza e pare vibrare come un velo diafano sbattuto da un insensibile vento. Raggiungiamo il villaggio, è notte ma lunghe file di uomini e donne sostano in attesa, manca il pane; ci ospitano in una casa requisita a un ricco proprietario dalla rivoluzione. L’acqua della piscina ora serve a irrigare i campi e dissetare i montoni. Il cannone sbatteva l’aria a occidente là dove c’è Aleppo. Sono giorni foschi e grandi. La battaglia che deciderà la rivoluzione è iniziata.

Corriere della Sera-Roberto Tottoli: " Siria, un conflitto di religioni come in Bosnia e in Iraq"

Tottoli sostiene che è un conflitto di religioni, non ci pare proprio. Basta leggere i servizi degli inviati, e in particolare quello di Domenico Quirico in questa pagina, per rendersi conto che, se di religione proprio si deve parlare, allora il nome è uno solo: terrorismo islamico, legato a doppio filo con i tagliagole che urlano Allahu Akbar, Hezbollah o Al Qaeda non fa differenza. Gli alawiti sono al potere perchè la tribù è quella di Assad, ma le altre minoranze, religiose o etniche, sono tutte di serie B, oppresse dal regime che ora traballa. Tottoli non è nuovo a queste interpretazioni, a dir poco stravaganti.
Ecco l'articolo

Nell'imminenza di quello che tutti definiscono lo scontro finale, si addensano dubbi e timori sulla situazione e sul futuro della Siria. La radicalizzazione del conflitto anche sul terreno dello scontro settario (sciiti alauiti, sunniti, cristiani, drusi) è un dato di fatto ormai da mesi. Il protrarsi della crisi ha però via via richiamato attorno ai contendenti sul terreno le potenze della regione, dall'Iran alla Turchia, da Israele all'Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo. E nelle ultime settimane, le notizie che si rincorrono lasciano presagire ben più di una partecipazione ideale o politica da parte di questi Paesi.
E' di qualche giorno fa la notizia che uomini di Hezbollah combatterebbero al fianco dell'esercito di Assad. La notizia non è stata subito smentita come un anno fa, a dimostrazione che la scelta degli sciiti libanesi di aggrapparsi al regime alauita non è mai stata in dubbio. Qualche blanda critica passata è stata subito dimenticata, anche per far fronte ai timori che come sempre la situazione politica siriana abbia pesanti influenze in Libano. Per togliere ogni dubbio Hezbollah ha confermato scendendo in piazza il suo appoggio ad Assad, ma una partecipazione diretta negli scontri armati avrebbe conseguenze non da poco.
E dalla stessa parte come sempre sta l'Iran. Lo stesso Iran che nei mesi scorsi si era sbilanciato in qualche richiamo al regime siriano, ora alza la voce verso complottismi di vario tipo e ingerenze straniere. La possibilità che si instauri un regime dalle connotazioni nettamente anti-sciite sulla scia del sunnismo più tradizionalista e filo-salafita agita i sonni di Teheran. E agita quelli di tutti gli sciiti della regione.
Lo schieramento in forze all'interno di Damasco e Aleppo comincia però a far emergere informazioni un po' meno incerte sull'identità di questi ribelli. Si parla di unità di uomini provenienti da Iraq, Libia, Egitto, Afghanistan e persino da Cecenia, Mali e Somalia. Il ruolo di al Qaeda e del radicalismo islamico è tutto da provare, così come l'ingresso di armi finanziate direttamente da sauditi e Paesi del Golfo. Tuttavia, sembrano esserci sempre più conferme che gli ultimi mesi hanno visto coagularsi nell'opposizione sul campo siriano forze provenienti da Iraq e da altre aree di crisi e utilizzate dai Paesi sunniti tradizionalisti per cacciare la minoranza alauita, da loro considerata eretica. Così accadde anche in Bosnia, in Afghanistan e poi in Iraq, che divennero palestra di formazione e di attività del jihadismo militante. La Siria sembra seguire lo stesso destino.
Così del resto ben si spiega il continuo richiamo di Assad e degli alleati iraniani contro ingerenze esterne: più che a un'operazione occidentale pensano alla mano saudita e agli emirati del Golfo. Urlano contro una presunta mano straniera e puntano il dito contro questi gruppi di ribelli forse richiamati in Siria dalla guerra civile. Una volta tanto, quindi, la mano straniera contro cui tuonano non è quella occidente ma quella araba sunnita, con la Turchia alla finestra, pronta in prima battuta ai confini settentrionali.
Uno schieramento di questo genere e con un dispiegamento di forze esterne in supporto degli uni o degli altri genera molti dubbi sulla durata dello scontro. Sulle macerie di un conflitto che non ha risparmiato nulla e che metterà in un angolo tutte le minoranze e le confessioni religiose che non saranno dalla parte dei vincitori, il futuro pare oggi ancor più carico di incognite di un anno fa. Le titubanze dei comitati siriani all'estero evidenziano una realtà sul campo complicata e tutti i dubbi su un presente e soprattutto un futuro ancora incerti. Questo Ramadan di passione può essere l'ultimo del solo regime che sta resistendo alle spallate della primavera araba. Ma può anche essere il primo di una fase di incertezza che tutti i Paesi intorno alla Siria non sanno ancora come affrontare.

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