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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa-Libero Rassegna Stampa
04.02.2012 Tunisia: ecco come finirà -Ungheria: essere anticomunisti non vuol dire essere filofascisti
Le analisi opposte di Quirico/Zatterin, l'interpretazione inaccettabile di Molteni

Testata:La Stampa-Libero
Autore: Domenico Quirico-Marco Zatterin-Mirko Molteni
Titolo: «Nella Tunisia dei salafiti 'velo,lavoro,preghiera'-Il governo difenderà la democrazia, etremisti da punire-E' cristiana e anticomunista ecco perchè odiano l'Ungheria»

In questa pagina Tunisia e Ungheria. Sulla STAMPA di oggi, 04/02/2012, a pag. 14, l'analisi di Domenico Quirico sulla deriva fondamentalista tunisina da parte di chi l'ha vista e toccata con mano, con accanto, a pag.15, le fantasie di Marco Zatterin, che sta a Bruxelles, e crede ciecamente nella primavera araba. A chi dovrà dar retta il disorientato lettore della STAMPA ?
Una Ungheria immaginaria quella descritta da Mirko Molteni su LIBERO a pag.16, il quale scrive delle supposte repressioni come se fossero motivate dall'anticomunismo del governo ungherese. Il quale sarà pure anticomunista, ma è nello stesso tempo filo fascista e antisemita. Ci vuole poco per accorgersene, ma sfugge a Molteni, al quale è sufficiente la patente di anticomunista per essere soddisfatto. A noi invece preoccupa molto la nuova poltica ungherese, la presenza forte di un partito di estrema destra come Jobbik, la crescita senza ostacoli di un  nuovo pericoloso antisemitismo.
Ecco gli articoli:

La Stampa-Domenico Quirico: " Nella Tunisia dei salafiti 'velo,lavoro,preghiera' "


Domenico Quirico

È il modo in cui lo dicono che preoccupa, che mette in guardia. «Gli islamisti? tutto va bene, sono moderati, ragionevoli. Fanno le loro prove al potere». Però la voce si abbassa, e si guardano attorno, il segno di una segreta geografia spirituale che sta germogliando. Poi un amico, un tunisino gauchiste, di quelli che si sono sempre destreggiati con spirito e dignità per la laicità, visto che la democrazia era loro vietata proprio dal dittatore amico della Francia, mi ha suggerito «vai a dare una occhiata a Sejnane, il primo emirato salafita, vedrai cosa diventerà il Nord Africa tra un po’, li hanno già il veleno dell’islamismo nel sangue. A Sejnane ormai comandano loro». Sabato lui è andato in piazza a Tunisi per gridare «non rubateci la rivoluzione».

Non davano, i manifestanti, una impressione di energia; semmai c’era nella loro dedizione qualcosa dell’atteggiamento di coloro che preparano nei particolari il proprio funerale, dirigono la costruzione della propria tomba. La morte di un sogno non è meno triste della vera morte e lo sconforto di coloro che lo hanno perduto è profondo come un lutto. Quando ho visto l’imam di Sejnane ho pensato a quei preti giovani appena usciti dal seminario che popolano i romanzi di Bernanos, perduti tra le miserie del mondo a cercare di dipanare l’intricato gomitolo del peccato e della grazia. Ajemmen ha occhi obliqui da gatto malandrino, e dimostra ancor meno dei suoi 22 anni. In città raccontano che lo hanno imposto i salafiti, con le brusche, dopo aver cacciato il predecessore « c o m p r o m e s s o con la dittatura». L’imam indossa sul barracano la mimetica e si muove nell’ombra di un manipolo di piissimi con muscoli e grinte da lottatori. La sua moschea vigila un paesaggio di colline eteree dalla luce incontaminata del sole e dalla dolcezza soprannaturale del verde che sboccia in dicembre. Ma la città, 50 mila abitanti, è zeppa di disoccupati e di bambini, e un’aria di rovina e di vecchiaia che sembra consumarli.

Una volta c’erano due miniere, ferro e piombo, adesso sono chiuse, le cicogne, a centinaia, fanno i nidi sulle impalcature arrugginite. Qui anche il miracolo dell’acqua è un miracolo pieno di sé. «Serve per dissetare le grandi città, e a noi resta troppo poca per irrigare queste terra magra che subito fa grumo e spacca le radici». La disoccupazione giovanile è all’80 per cento, ci sono settecento laureati senza lavoro. Abderrauf si è diplomato tre anni fa in informatica, lavora tre mesi l’anno quando va bene per la raccolta della frutta; poi c’è il caffè dove i giorni scivolano via come la spuma di una cascata. Alle elezioni la gente ha votato in massa per Ennahda, l’islamismo conservatore che è sembrato ai poveri il meno compromesso con i furti del regime di Ben Ali, l’unico che offrisse una vera alternativa. Dopo la rivoluzione la città è stata, per mesi, abbandonata a se stessa, la polizia e la guardia nazionale non facevano più paura, il sottoprefetto si è rifugiato a Biserta e il suo ufficio è occupato dai disoccupati che invocano posti nella amministrazione pubblica. Sono aumentati, nella miseria, furti, violenze, scontri tra clan. E allora i vigilantes salafiti hanno iniziato a pattugliare le strade, a ammonire le teste calde e gli ubriachi, hanno «arrestato» alcuni ragazzi che avevano rubato dei video giochi. E sottovoce c’è chi racconta di interrogatori e punizioni brutali per i «peccatori» nelle cantine di un municipio di quartiere, semi-bruciato durante la rivoluzione e diventato il quartier generale delle squadre di fanatici. Ma i salafiti usano anche altre armi, distribuiscono vestiti e cibo alle famiglie povere, e bombole del gas che i gestori del mercato nero vendono a prezzi elevatissimi approfittando degli scioperi che bloccano le raffinerie. Racconta la «coiffeuse» che ha il negozio in pericolosa prossimità della moschea. Qui i giovani barbuti, con l’aria annoiata da attori disoccupati, controllano che i passanti si fermino devotamente a leggere i grandi poster colorati nuovi di zecca affissi al muro di cinta: che invitano a portare il niqab, il velo integrale, («ti protegge dallo sguardo degli uomini e ti porta in paradiso»), a non violare l’obbligo della preghiera e soprattutto a evitare le lusinghe della magia nera. Con efficaci foto e vignette sono esemplificate tutte le astuzie, filtri, formule, oggetti, di fattucchiere maghi e marabutti. Non sono a Sejnane che poche decine, ma rastrellano i giovani sfiduciati, li portano alla preghiera. Scavano nel disastro economico, perché ai borghesi di Tunisi la rivoluzione ha dato il diritto di parola e forse può bastare. Ma ai poveri che chiedevano pane e lavoro niente. È un caso se a Kasserine, nel Sud, dove la rivoluzione è nata, il presidente Marzouki non abbia potuto pronunciare un discorso a causa delle contestazioni?

Un vecchio che esce dalla preghiera guarda beffardo i devoti con l’aria guappa: «I sermoni dell’imam e i suoi di Corano sono quelli di un ignorante nella dottrina. Peccato tu sia venuto solo ora. Un mese fa questi devoti li avresti trovati al bar, ubriachi».

Anche nel grigio sporco della periferia Nord di Tunisi c’è un’oasi verde, il campus della università di Manouba, facoltà di Lettere, è un simbolo della resistenza al vecchio regime. Anche qui i salafiti sono al lavoro. Il campus è stato chiuso dal sei dicembre per 37 giorni a causa delle incursioni degli integralisti che esigono per le ragazze che portano il niqab, sempre più numerose, il diritto di potere presentarsi agli esami. Le studentesse coperte dal barracano sfarfallano tra loro, in piccoli gruppi, si vedono solo occhi a scimitarra e ciglia lunghe come spade. Non parlano con uomini. Parlano, per loro, i compagni maschi, e molto. Abdelkader Hechmi è il capo, studente di magistero, un ragazzo, ma c’è in lui qualcosa di inesprimibilmente vecchio, di pietrificato: «Qui viene violata la legge, ci sono degli estremisti di sinistra, laicisti fanatici alla francese che vietano alle nostre compagne di studiare. Scontri? Violenze? Tutte bugie e propaganda dei giornali. Anche a Cambridge le studentesse possono passare gli esami velate. Quante sono? Decine, sempre di più, perché prima se indossavi il velo finivi in galera». Nelle scuole medie studenti pii hanno iniziato a contestare i corsi di disegno e trattano gli insegnanti da eretici.

Forse sono casi singoli come ripetono le autorità, ma guardare in luce e in controluce, prima che sia tardi. Ma duemila salafiti hanno accolto una delegazione di Hamas al grido di «morte ai giudei». In Tunisia ne restano ancora un migliaio, i superstiti di un’epoca di rara tolleranza. E poi c’è Cheick Sadok Chrourou, eletto alla Assembla costituente nelle file di Ennadha. Ha passato gli ultimi venti anni in prigione per la sua fede, non l’hanno piegato le torture, è uscito solido come una roccia, temprato nell’acciaio. Ha chiesto in Parlamento che contro gli scioperi che bloccano la produzione ora che governa il partito di dio venga applicata la punizione enunciata nel verso 33 della sura quinta del santo corano che raccomanda di «uccidere crocifiggere e tagliar le mani e le gambe ai miscredenti che dichiarano guerra a Dio e al suo profeta».

E che dire di Souad Abdessalum, l’unica donna capolista di Ennadha, svelata, l’islamista in Dior che incantava i giornalisti occidentali con il suo sorriso appena accennato, leonardesco? Ha inveito contro le madri celibi, definendole «una infamia».

La Stampa-Marco Zatterin: " Il governo difenderà la democrazia, etremisti da punire"


Sarebbero questi i difensori della democrazia ?

Non siamo la Somalia», assicura Hamadi Jebali, premier tunisino da metà dicembre, un uomo alto col pizzetto bianco, la corporatura robusta e la stretta di mano sincera. «È vero - ammette - sono in corso tentativi di destabilizzazione operati da minoranze islamiste. Siamo sempre intervenuti rapidamente: non tollereremo alcuni tipo di aggressione e prevaricazione in nome di qualunque fede religiosa». Il nuovo Stato sbocciato dalla Primavera araba, assicura, «ha una impronta musulmana che non ne incide la natura profondamente laica. Non può accettare alcuna sovranità che non sia quella espressa dalla sua Costituzione democratica».

Jebali è giunto a Bruxelles per un primo contatto con l’Unione europea, dalla quale si attende sostegno politico e finanziario. Il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, gli ha garantito un rapido accesso ai 400 milioni stanziati alla voce «cooperazione» per il periodo 2011-13. Catherine Ashton, alto rappresentate per la Politica estera, promette di dargli una mano per raccogliere consensi e investimenti. Il tunisino, 63 anni di cui 15 passati in prigione per motivi politici, ne ha un bisogno disperato. «Non c’è democrazia senza crescita», ha spiegato incontrando un gruppo ristretto di giornali europei, fra cui La Stampa.

Presidente, il nostro inviato a Sejnane è testimone di tentativi di instaurare la legge islamica. I salafiti vi sfidano. Controllate il Paese?

«Completamente. Siamo un governo legittimamente eletto e rappresentiamo il popolo. Per questo dobbiamo opporci ai tentativi di destabilizzazione operati dai movimenti islamici e bolscevichi. Sappiamo dove prendono le armi, dobbiamo difendere i cittadini. Noi siamo orgogliosi della nostra appartenenza islamica. La difenderemo così come proteggeremo i diritti garantiti dalla democrazia».

Esiste la possibilità di una ripresa dei colloqui per un’Unione maghrebina?

«C’è chi ha paura di vedere la Tunisia perdere interesse verso il Maghreb a vantaggio del Mashrek. Non succederà. La nostra strategia è ispirata da legame mediterraneo e quello con l’Europa. Desideriamo un’alleanza stabile con l’Ue per porre fine alle minacce di ciò che chiamano «lo scontro fra le civiltà». Lady Ashton mi ha annunciato l’arrivo imminente di una missione europea a Tunisi. Vogliamo discutere di sviluppo e nuovi orizzonti. Di scambi e libera circolazione. Fra noi e con l’Europa».

Parliamo di minacce. La situazione in Siria può far saltare il mondo arabo?

«Non si tratta coi dittatori, un Paese democratico non può accettare un regime. Ciò non toglie che la diplomazia deve essere pragmatica, il confronto non si interrompe, è stato lo stesso con Gheddafi. La pressione deve essere costante. Il regime siriano va nella direzione sbagliata. Noi sosterremo il processo di autodeterminazione nella regione. Detto questo, bisogna considerare che un intervento diretto potrebbe essere una trappola».

L’Unhcr stima che nel 2011 sono affogate nel Mediterraneo 1500 persone che sognavano l’Europa. Li fermiamo?

«La lotta ai flussi illegali è una priorità. Vogliamo esportare risorse, non uomini disperati. Ci sono parecchie soluzioni a cui stiamo lavorando, non solo la sicurezza. Lo sviluppo economico è fondamentale. La crescita richiede stabilità e la stabilità esige un equilibrio sociale che si ottiene col sostegno all’economia. Dobbiamo puntare sul lavoro, sul sostegno alle piccole imprese e sul microcredito, sulle riforme strutturali. Sette anni e un miliardo. Non è un prezzo alto per la Tunisia e la democrazia».

Libero-Mirko Molteni: " E' cristiana e anticomunista ecco perchè odiano l'Ungheria"

 Ieri,dopo66 anni di attività, è fallita la Malev, storica compagnia aerea di bandiera ungherese, oberata da debiti per 200 milioni di euro. Il governo di Budapest ha tentato fino all’ultimo di salvarla, tantocheil 2 febbraio era stato nominato un liquidatore per “calmare” il pressing dei creditori. Ma nulla da fare, anche perché ci ha messo del suo l’Unione Europea giudicando illegittimi gli aiuti statali ricevuti dalla aerolinea fra il 2007 e il 2010. Una Bruxelles più morbida avrebbe contribuito a salvare, almeno per ora, i 2600 posti di lavoro di un’azienda che comunque lavorava con volumi di 3 milioni di passeggeri all’anno. Ma negli ultimi tempi l’Un - gheria è nel mirino dell’Unione Europea, e pure intellettuali alla moda come Bernard-Henry Lévy l’hanno tacciata di essere dominata da un regime fascista. Unaguerra fredda che ha portato l’Ue a minacciare di non pagare i fondi di coesione per Budapest, insieme a un prestito anti- crisi dell’FMI, per un totale di circa 20 miliardi di dollari. Emeno male che Budapest non ha adottato l’euro, restando fedele al fiorino, altrimenti rischierebbe più rappresaglie. Il rigore Ue è abbastanza strano e puzza di azione politica, se si considera che il debito pubblico magiaro è «solo» l’80% del PIL, nulla rispetto a Grecia o Italia. Indigeste agli euroburocrati sono molte novità del 2011 in fatto di Costituzione e leggi, ritenute contrarie all’ideologia di Bruxelles, pronta a gridare alla «dittatura» se alcuni Paesi la pensano diversamente. Accuse rigettate al mittente non solo dal primo ministro Viktor Orban, la cui maggioranza cattolica di centrodestra Fidesz- KDNP ha stravinto le elezioni del 2010 col 52,7 %, ma anche dalla Fondazione “Cristoforo Colombo” per le libertà, che ha pubblicato un dossier per fare chiarezza. Dove sarebbe, ci si chiede, «l’estremismo» del governo Orban nell’estendere il diritto di voto agli ungheresi residenti all’estero? Bernard-Henry Lévy, il 14 gennaio, scriveva di «appartenenza etnica e razziale» e di «legge elettorale che credevamo morta con il nazismo». Al che, la Fondazione ribatte serenamente: «I cittadini ungheresi possono votare anche se non residenti in Ungheria, proprio come avviene in 24 su 27 Paesi Ue, e come consente il nostro Paese agli italiani all’estero». Il bersaglio maggiore è la nuova Costituzione in vigore da Capodanno. Ma bisogna ricordare che è andata a sostituire una Carta datata 1949: eh sì, l’Un - gheria ammessa nell’Ue aveva ancora la legge fondamentale varata dai comunisti. Che il governo Orban l’abbia cambiata sembra più unmotivo di merito. Ma perché la nuova Carta non piace a euroburocrati e politici di sinistra? Semplice: il governo magiaro, sovrano e votato dalla gente, vi ha inserito i riferimenti auna basedi valori cristianisenza i quali non hanno senso né l’appartenenza alla civiltà europea, né quel rispetto delle personeacui la stessaUedice (aparole) di appellarsi. Così, se fin dal preambolo si chiede «la benedizione di Dio» per il Paese, l’articolo 1 menziona «l’istituto del matrimonio quale comunità di vita tra uomo e donna, stabilita con decisione volontaria, nonché la famiglia come base per la sopravvivenza della Nazione». E l’articolo 2 sancisce che «la vita del feto va difesa fin dal concepimento». Parole anch’esse non gradite dai poteri finanziario-illuministici in sede europea, che magari fanno il tifo per i matrimoni gay e l’aborto in barba a tutte le convenzioni a protezione della famiglia e dei bambini. E se nelle scorse settimane tutte le TV hanno mostrato migliaia di manifestanti delle opposizioni di sinistra in corteo controil governo, quasi in sordina è passata il 21 gennaio la grande mobilitazione popolare a sostegno di Orban,chehaportato 100.000 persone in piazza a Budapest e forse un milione in tutto il Paese. Non pare avventata la conclusione della Fondazione “Cristoforo Colombo”, secondo cui esiste una «odiosa campagna di stampa che ha investito l’Ungheria, finendo col rappresentare uno Stato di diritto alla stregua di una dittatura simil- fascista da telefilm». Si è persino tentato di far passare l’Un - gheria come antiamericana, solo perché la piazza Roosevelt di Budapest è stata ridedicata al conte magiaro Szecheny. Dimenticandosi però di ricordare l’inaugurazione alla presenza della Clinton di un istituto dedicato al politico USA di origini ungherese Tom Lantos, e quella di un monumento a Ronald Reagan, alla presenza dell’ex-segre - tario di Stato Condoleezza Rice

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