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Il Manifesto - La Stampa Rassegna Stampa
26.01.2012 Fratelli Musulmani: niente dialogo con lo Stato ebraico
ecco i nuovi vicini di Israele. Cronache di Redazione del Manifesto, Domenico Quirico

Testata:Il Manifesto - La Stampa
Autore: Redazione del Manifesto - Domenico Quirico
Titolo: «No a dialogo con Israele - Un milione a Tahrir. Al Cairo la rivolta non è ancora finita»

Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 26/01/2012, a pag. 8, la breve dal titolo " No a dialogo con Israele ". Dalla STAMPA, a pag. 16, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Un milione a Tahrir. Al Cairo la rivolta non è ancora finita ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

Il MANIFESTO - " No a dialogo con Israele "


Fratelli Musulmani

I militari del maresciallo Tantawi, legati mani e piedi agli americani (e al raìs caduto in disgrazia Mubarak) non toccheranno lo storico (fin dai tempi da Sadat) trattato di pace con Israele. Ma in qualche misura potrebbero dover tenere conto dei nuoi tempi, post-Mubarak, e del trionfi elettorale dei Fratelli musulmani (che d’altra parte sono alleati loro, dei militari). Ieri Mahmoud Ghezlan, indicato come portavoce dei Fm, ha dichiarato al al giornale Asharq Al-Awsat che i Fratelli musulani, presumibilmente i titolari del prossimo governo egiziano, non parleranno, nè incontreranno mai funzionari israeliani, e che la loro posizione rispetto a Israele è fuori discussione. «È illogico avere un dialogo, qualsiasi tipo di dialogo, viste le azioni israeliane contro i popoli arabi», ha detto Ghezlan. Che poi ha affermato che il movimento non ha ricevuto alcun invito al dialogo dall'ambasciata israeliana al Cairo, ma che in ogni caso un'eventuale richiesta sarà respinta. Il partito di «Libertà e Giustizia» dei Fratelli musulmani controlla quasi il 48& dei seggi nel parlamento appena eletto.

La STAMPA - Domenico Quirico : " Un milione a Tahrir. Al Cairo la rivolta non è ancora finita "


Domenico Quirico, Piazza Tahrir

Lo stile di Domenico Quirico è sempre di alto livello,  è come poesia in prosa,  come leggere un articolo di Guido Ceronetti, grandissimo poeta, se fosse inviato al Cairo per raccontare la rivoluzione araba.
Quirico descrive il potere dei militari e dei loro alleati, i Fratelli Musulmani, ma noi ci auguriamo che rivolga la stessa attenzione con delle domande precise ai rivoluzionari ai quali lui guarda pieno di speranze. Per esempio potrebbe chiedere loro che cosa pensano della democrazia israeliana visto che, finora, non ha mai toccato quest'argomento.
Ecco il pezzo: 

Tahrir sudicia fangosa ribollente impaziente piccante, con un suo torbido incanto, ritornata quello che è e resterà: folla ciclopica, un milione forse più, rumore, rivoluzione, che pare di godercela per la prima volta così giovane, impavida, fremente e tracotante. Un anno dopo. Ancora una volta e forse non per l’ultima volta: come i generali e gli islamisti, questo Egitto sospeso tra spada e Corano, avevano tramato e sperato. Sì, dodici mesi, gonfi, crudeli, densa pagina della storia del mondo, non sono troppi. La Primavera del Cairo ha saputo ritrovare ieri la porta di quelle terribili meraviglie. È bella, la rivoluzione egiziana, è viva: un’onda di giacche e felpe, barracani e jeans, magliette ricordo e funerei chador: ancora insieme. A Tahrir devi affondare dentro per udirne il rumore, per fotografarla, per raccontarla ai figli «... l’anno in cui cacciammo il faraone Mubarak, che fiaba...». Sì, è vero, i volti dei martiri adolescenti si mescolano all’invenduto dell’ultima partita della nazionale, berretti sciarpe ciarpame. Ma non importa, non è profanazione.

L’odore di Tahrir: ti assale a zaffate spesse, involtini e urina, tè e sudore, immondizie e patate dolci da succhiare davanti alle promesse dei comizianti. Le mosche di Tahrir minute irrequiete col pepe in corpo; gli scugnizzi, i gavroche di Tahrir che fumano già a otto, dieci anni; e i vecchi che sotto le palme avvizzite leggono il giornale e discutono come sempre, come se l’Egitto non stesse mutando. Tahrir che prega, in qualsiasi piccolo spazio vuoto; e così si genuflette davanti a un distributore di pepsi cola: perché quella è la direzione della Mecca e quello è aver fede. Tahrir che grida «erhar!», vattene, un anno fa lo scandiva contro Mubarak e ora lo urla ai generali, e il grido, è così acuto che par di dolore e non di gioia e di rabbia. E tutta l’ondata umana è colta dal contagio: erhar erhar!

La piazza per un giorno, in quel giorno: ambulanti, rivoluzionari miscredenti piissimi provocatori spie agitatori perdigiorno. Allora è vero: questo popolo che sembra molle è un popolo durissimo; questo popolo che sembrava piegarsi per non spezzarsi ha tutta l’aria di rifiutare sia di piegarsi che di spezzarsi.
L’egiziano grasso, curvo, servizievole, da rovesciare a terra con un dito, a Tahrir non c’è. È un popolo di rivoluzionari, di facce dure. Si è preparato, l’ha atteso meticolosamente questo nuovo giorno. In diecimila l’hanno presidiata, la piazza, nella notte, sotto una pioggia fredda e molesta. Per tenere lontani teppisti e provocatori. È rinata così, Tharir, con le tende, le stuoie, il traffico bloccato, i comizianti, la piazza dove ognuno può dire ciò che vuole purché sia verbo rivoluzionario («meglio dell’utopia» mi ha detto un ragazzo deliziato), e può esibire le sue piaghe le sue miserie le sue medaglie i suoi sogni. Tahrir che si gonfia ogni ora per tutto il giorno, come un respiro. Perché sono undici i cortei che arrivano dalle cataste brune dei quartieri periferici incrostati l’uno all’altro come frutti di mare su uno scoglio. Ore e ore a piedi, serrati uno sull’altro. E tutti alzano le foto dei martiri, e non c’è pericolo che siano le stesse perché mille sono stati uccisi. Le strisce nere avanzano verso il ponte dei quattro leoni che scavalca il Nilo. E fu anche questo, un anno fa, luogo di massacro. E man mano che ci avviciniamo le strisce nere si mettono a palpitare, braccia che si tendono, mani che applaudono, tricolori egiziani che sfarfallano; ancora cento metri, le voci le voci di Tahrir ci giungono in un solo urlo di spasimo, a folate, un urlo che si ripercuote sull’acqua del fiume. E poi, terribile e commosso si placa per cinque minuti di silenzio, tutti immobili sul ponte a ricordare quei morti. Ecco, la rivoluzione: soffrire insieme, sentire insieme, percepire insieme.

Per mobilitarsi stavolta Internet non c’entra, l’Egitto ha guardato la tv, quattro televisioni private e rivoluzionarie che hanno scandito orari e programmi. Ha letto i giornali, e anche questo è segno che molto è cambiato.

Tarhir, lo confessiamo, ci ha stupito. La credevamo vizza, soffocata dall’abbraccio dei generali che continuano a possedere lo Stato e l’economia come una proprietà e dei loro ipocriti «alleati», i fratelli musulmani, disposti dopo la vittoria elettorale al patto diabolico: all’esercito i privilegi, a noi quanto resta del potere. Tarhir ieri ha compiuto un atto rivoluzionario, forse più arduo di quello di un anno fa. Ha rifiutato di diventare festa, faccenda celebrazionistica, di onorare se stessa. Ha avuto la forza di restare una rivoluzione in atto, praticata e scomoda.

Eppure molti hanno provata a smontarla nei giorni scorsi. I generali e il loro governo con le due parole d’ordine che seducono quello che qui chiamano «il popolo della poltrona», i pavidi, gli incerti, i prudenti. Quelli per cui le rivoluzioni sono un desiderio disperato di ordine e di protezione. E le parole sono «stabilità» e «ripresa economica»: non andate in piazza, dunque, non perdiamo tempo, bisogna lavorare. I Fratelli Musulmani, l’Islam conservatore, padrone dell’assembla costituente, ancora martedì annunciava che non avrebbe partecipato alla manifestazione; pilateschi, prudenti come sempre, eran pronti a collaborare al servizio d’ordine, per difendere i negozi e i beni pubblici da teppisti e saccheggiatori, un modo per dire che quella manifestazione convocata dai rivoluzionari di gennaio era un disturbo e un pericolo, «ormai siamo al potere, che volete ancora?».

Poi, la sera di martedì, si sono accorti dell’errore, del rischio di svelarsi come collaborazionisti dei generali, e hanno annunciato che sarebbero andati in piazza. In poche ore hanno alzato un palco, il loro, il doppio di quello dei rivoluzionari, povero, rivestito di stoffe lise. Qui invece striscioni con i colori nazionali nuovi di zecca, altoparlanti potenti da schiacciare ogni altro rumore. In quei due palchi il senso politico della giornata, le ipocrisie e gli equivoci di questa rivoluzione che rischia di essere rubata. Quello che è ormai partito di governo esibiva scritte unificatrici, suadenti: siamo tutti egiziani, i caduti del 25 gennaio ci aspettano in paradiso. I loro oratori, tutti senza barba, senza segni di partito ripetevano: la nostra unica bandiera è quella egiziana, questa è una festa. Ecco: la rivoluzione scivolataa anniversario, archiviata nel tempo, quasi una favola buona da catechismo per bambini. Sull’altro palco invece facce giovani e furiose, e grida: nessun accordo in cambio del sangue dei caduti, la rivoluzione non si celebra, continua. E soprattutto nomi, i generali che hanno il potere, lo stato nello stato, la continuità. E così accade che quando sul palco dei Fratelli è salito Selim el Awa, uno dei candidati alle presidenziali, (la prossima battaglia politica fissata a fine giugno) ha raccolto fischi ed è sceso in fretta, quasi in fuga. I bus con cui gli islamici hanno portato in piazza i loro aderenti sono stati i primi a partire. Lasciando la piazza agli altri, a «quelli dei 18 giorni». A ragione. Non era una festa, era la loro rivoluzione.

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