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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
12.01.2012 Iran: Assassinato uno scienziato nuclearo. Me è certo che siano stati Usa e Israele ?
analisi di Maurizio Molinari, Giulio Meotti, Guido Olimpio, Michael Klare, Vittorio Emanuele Parsi

Testata:La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Giulio Meotti - Guido Olimpio - Michael Klare - Vittorio Emanuele Parsi
Titolo: «Per ora la bomba a Teheran la lancia il Mossad - Accordo tra intelligence per la guerra segreta - The day after - Le trappole 'appiccicose' e la pista del Mossad - Il prossimo conflitto scoppierà lungo le rotte di gas e petrolio - L'irreversibile scelta a»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 12/01/2012, a pag. 14, l'articolo di Michael Klare dal titolo " Il prossimo conflitto scoppierà lungo le rotte di gas e petrolio", preceduto da un nsotro commento, a pag.15, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Accordo tra intelligence per la guerra segreta ", a pag. 31, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " L'irreversibile scelta atomica ", preceduto dal nostro commento. Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " The day after ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 22, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Le trappole 'appiccicose' e la pista del Mossad ".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Accordo tra intelligence per la guerra segreta "


Maurizio Molinari

La guerra contro il programma nucleare iraniano è in pieno svolgimento e bersaglia computer, impianti e scienziati con un metodo che lascia intendere una possibile cooperazione senza precedenti fra i servizi di intelligence di più nazioni.

Nel giugno 2010 il virus «Stuxnet» infiltra i controlli Siemens delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio di Natanz, a inizio dicembre una potente esplosione investe una base missilistica delle Guardie della Rivoluzione uccidendo oltre quaranta persone, incluso il capo del progetto di sviluppo balistico generale Hassan Tehrani Moqaddam. Due settimane dopo un’altra esplosione a Isfahan danneggia l’impianto di conversione dell’uranio: si tratta di attacchi che colpiscono i tre elementi-chiave del programma nucleare iraniano, ovvero l’arricchimento dell’uranio, la conversione dell’uranio e la realizzazione di missili in grado di trasportare future armi atomiche.

Da qui lo scenario di un piano di sabotaggio ben coordinato, che richiede disponibilità di ingenti risorse finanziarie e tecnologiche, informazioni precise di intelligence, agenti operativi sul territorio e una gestione altamente sofisticata di tali tasselli. Ad esempio, per eliminare il generale Moqaddam bisognava conoscerne gli spostamenti dentro la base militare così come, per infettare i computer con Stuxnet, una persona si è dovuta avvicinare fisicamente e inserire la chiavetta con il virus, visto che gli impianti di Natanz sono privi di collegamenti al web. Complementare ai sabotaggi contro gli impianti è l’eliminazione degli scienziati impegnati nel programma, perché sono loro che possiedono il «know-how»: ne sono già stati uccisi almeno quattro, da Massoud Ali Mohammadi, assassinato il 12 gennaio 2010, a Mostafa Ahmadi Roshan eliminato ieri con una microbomba attaccata con una calamita alla portiera della sua auto da un motociclista in una molto trafficata vi—a di Teheran.

Le autorità iraniane imputano da tempo tali attacchi ai servizi segreti di Israele, Stati Uniti e Gran Bretagna e l’ipotesi di una inedita forma di coordinamento fra 007 di più nazioni è stata avvalorata anche dall’inchiesta svolta dal «New York Times» su Stuxnet, sulle base del fatto che un virus di tale sofisticazione e potenza richiede alle spalle capacità scientifiche che riconducono a Stati Uniti e Israele. D’altra parte pochi giorni fa Meir Dagan, ex capo del Mossad nonché tenace sostenitore delle operazioni segrete, ha risposto con un sorriso di assenso quando gli è stato chiesto se era stato «Dio» a mettere a segno i sabotaggi contro il programma iraniano. E Gary Samore, assistente del presidente Obama contro lo sviluppo delle armi di distruzione di massa, nel maggio scorso si è detto «lieto di sapere che gli iraniani hanno problemi con le centrifughe» a causa di Stuxnet, spingendosi fino ad affermare che «con gli alleati stiamo facendo di tutto per rendergli il lavoro ancor più complicato».

Samore era a fianco di Obama al G20 di Pittsburgh nel settembre 2009 quando, assieme a Gordon Brown e Nicolas Sarkozy, annunciò la scoperta dell’impianto segreto di Fordow, nei pressi di Qom, lasciando chiaramente intendere che gli 007 dei tre alleati erano stati coinvolti nell’operazione.

Fonti diplomatiche del Golfo assicurano che il recente assalto all’ambasciata britannica è nato dalla volontà dei Guardiani della Rivoluzione - che proteggono il programma nucleare - di vendicarsi contro uno dei Paesi presunti mandanti dei sabotaggi. Trattandosi di una guerra segreta, descriverne le caratteristiche è proibitivo ma l’impressione è di trovarsi di fronte a una joint venture fra alta tecnologia e 007 vecchia maniera. È infatti noto che Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia dispongono assieme della più sofisticata rete di sorveglianza satellitare ed elettronica del Pianeta mentre la caccia agli scienziati iraniani ricorda da vicino l’operazione «Rabbia di Dio», lanciata dallo Stato ebraico dopo la strage degli atleti israeliani alle Olimpiadidi Monaco del 1972 per eliminare tutti i componenti del commando terroristico palestinese che ne erano stati responsabili. L’uso delle moto per dileguarsi nel traffico e di piccoli esplosivi - sotto il letto di una camera d’hotel o un’auto - per limitare al massimo i danni collaterali sin da allora diventò una firma del Mossad, che ora sembra ricomparire a Teheran.

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " The day after "


Giulio Meotti

Roma. L’esercito israeliano si prepara al confronto militare con il regime iraniano. Gerusalemme ha creato un “Comando per le operazioni speciali di profondità” che deve agire nel “terzo cerchio”, espressione che si riferisce al Golfo e al Corno d’Africa. Secondo i media israeliani, sono le teste di cuoio speciali che devono entrare in azione all’interno dell’Iran. Sono un centinaio di militari scelti e guidati dal generale Shai Avital, che ha già servito nell’unità speciale Sayeret in cui a Entebbe ha perso la vita il fratello dell’attuale premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Intanto la leadership di Gerusalemme si prepara al “day after”, cioè al momento in cui la Repubblica islamica dell’Iran avrà testato la bomba atomica. L’Institute for national security studies, il più autorevole centro studi di intelligence nello stato ebraico, ha reso noti i possibili scenari che potrebbero realizzarsi qualora Teheran conducesse un test nucleare. La data fissata per il punto di non ritorno è “gennaio 2013”. Ron Ben-Yishai, il maggiore commentarore militare israeliano, su Yedioth Ahronoth ha scritto: “Nonostante i progressi scientifici, l’Iran non ha ancora deciso di sviluppare armi atomiche. La ragione è la sua sopravvivenza politica sotto le sanzioni e la paura di un attacco militare. L’occidente ha un anno circa per adottare misure dure, compreso lo strike. La decisione verrà presa nel marzo 2012”. Il rapporto israeliano dell’Institute for national security studies parla di un “cambio di potere in medio oriente”. Gli Stati Uniti, recita il testo, cercheranno di dissuadere lo stato ebraico da una risposta militare dopo il test iraniano. La Russia potrebbe cercare di stabilire un patto con gli Stati Uniti per evitare la proliferazione nucleare nella regione. E’ data per certa la corsa dell’Arabia Saudita, arcinemica degli iraniani, alla produzione di tecnologia atomica a fini militari. Secondo il rapporto dell’Institute for national security studies, Teheran, forte dell’atomica, vorrà ridisegnare i propri confini con l’Iraq e adotterà provvedimenti per indebolire la deterrenza militare americana nel Golfo persico. “La simulazione dimostra che l’Iran non cercherà di usare le bombe nucleari, ma di sfruttarle per raggiungere un accordo con le potenze regionali e migliorare la propria posizione”, recita il rapporto spedito dagli strateghi israeliani all’ufficio del primo ministro, Benjamin Netanyahu. “La simulazione mostra che l’opzione militare israeliana, o la minaccia di usarla, è anch’essa rilevante dopo un test atomico iraniano”. Secondo il rapporto, “l’Iran pensa che le sanzioni si rafforzeranno, ma che sarà comunque in grado di sopravvivere”. Washington potrebbe chiedere a Israele di “entrare nella Nato”, l’Alleanza atlantica, in modo da garantire allo stato ebraico un ombrello di difesa in caso di conflitto regionale. Un mese fa era uscito un rapporto molto simile sull’Iran firmato American Enterprise Institute. Un super dossier a cui gli strateghi, i deputati al Congresso e i militari di orientamento repubblicano hanno lavorato per sei mesi per conto del principale pensatoio conservatore diWashington. Anche questo report aveva spiegato che “il prossimo presidente americano nel gennaio 2013 avrà di fronte un Iran nuclearizzato” e che si deve riconoscere la possibilità di un insuccesso “nell’eliminazione del programma nucleare iraniano con una campagna rapida di strike”. Attualmente, spiegano sette analisti su Foreign Affairs, ci sono “tre scuole di pensiero nell’establishment militare israeliano su cosa accadrà il giorno dopo in cui l’Iran avrà la bomba atomica”: la prima, ancora maggioritaria, ritiene che il regime iraniano sarà “pragmatico” e che costituirà una minaccia geostrategica per Israele e l’America; la seconda, dei falchi, considera l’Iran “irrazionale” e quindi una minaccia diretta allo stato ebraico; la terza, più piccola, vi vede l’occasione per una mutua riconciliazione. Nelle settimane scorse gli esperti hanno tirato fuori le cifre del possibile conflitto. Uri Milstein, uno dei più celebri analisti di Gerusalemme, ha stimato fra 50 e 100 mila il numero delle vittime israeliane in caso di guerra con Teheran. Il maggiore giornale israeliano, Yedioth Ahronoth, ha rispolverato il più credibile scenario nucleare del Center for Strategic and International Studies. La guerra durerebbe almeno tre settimane. Gli iraniani potrebbero avere tra i sedici e i ventotto milioni di morti. Molto “meno” gli israeliani: tra i 200 e gli 800 mila caduti. Alla fine, lo stato ebraico dovrebbe sopravvivere.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Le trappole 'appiccicose' e la pista del Mossad "


Guido Olimpio

Le bombe adesive sono diventate la firma degli attentatori di Teheran. Già nel novembre 2010 un ordigno simile fu impiegato per uccidere un altro scienziato iraniano. Le «appiccicose» (nel gergo degli artificieri) fanno parte del teatro regionale. In Iraq ne hanno usate a centinaia gruppi qaedisti e sciiti per eliminare funzionari o ufficiali. A Bagdad sostengono che sarebbero state «importate dall'estero». Semplice la «ricetta»: plastico, telefonino per innescare la carica, talvolta chiodi e biglie per ferire. Spesso ordigni molto piccoli, altre volte voluminosi, capaci di sventrare un autobus. Maneggevoli quel che basta per attaccarli sotto un veicolo o su una portiera. In passato hanno fatto parte dell'arsenale dei fedayn palestinesi durante la guerra civile a Beirut, dei separatisti nordirlandesi e anche della mafia israeliana. Uno dei boss è stato «liquidato» a Tel Aviv, nel 2008, in circostanze che ricordano quelle di Teheran. Per criminali o 007 sono gli strumenti ideali per far sparire un nemico. Quanto alle responsabilità appare intrigante la pista indicata da Parigi. Ieri Le Figaro — citando fonti dei servizi francesi — ha scritto di rapporti tra Mossad e ambienti curdi iracheni, vicini a Massud Barzani. Una collaborazione che conosce una nuova stagione in chiave anti mullah. Uno scenario che prevede l'uso di infiltrati curdi in Iran per compiere azioni di sabotaggio. Magari insieme a elementi dell'opposizione. Un network in grado di superare le misure di sicurezza del regime, compresa l'unità speciale dei pasdaran che deve proteggere gli uomini coinvolti nella ricerca atomica. Potrebbe essere questo patto segreto, forgiato dagli israeliani con gli amici curdi, a rallentare gli sforzi di Teheran. A meno che le voci non siano un diversivo per confondere i servizi e costringerli a inseguire falsi colpevoli. Nella guerra «segreta» in corso contro l'Iran c'è anche questo.

La STAMPA - Michael Klare : " Il prossimo conflitto scoppierà lungo le rotte di gas e petrolio "
Confessiamo la nostra ignoranza, non abbiamo mai sentito prima il nome di Michael Klare, riteniamo,quindi, che anche i lettori della STAMPA possano non conoscerlo. Perchè la STAMPA non ha scritto due righe sull'illustre sconosciuto in modo da informare i lettori ?


Michael Klare

Benvenuti nel pericoloso mondo dove un singolo incidente in una delle strozzature delle arterie energetiche globali potrebbe mettere a fuoco un’intera regione, far schizzare in alto il prezzo del petrolio e mettere in pericolo l’economia mondiale. Con la domanda di energia in crescita e le fonti di approvvigionamento in calo, stiamo di fatto entrando in una nuova era, l’«Era geo-energetica». E le dispute sulle risorse vitali domineranno gli affari internazionali nel prossimo futuro. Conflitti ed energia saranno ancor più legati fra di loro, dando sempre maggiore importanza ad alcuni punti geografici chiave.

Primo fra tutti lo Stretto di Hormuz, che già sta scuotendo il mercato dell’energia. Collega il Golfo Persico con l’Oceano Indiano e anche se non ha l’imponenza della rocca di Gibilterra o del Golden Gate, è probabilmente il passaggio più strategico del Pianeta. Ogni giorno passano attraverso lo Stretto di Hormuz 17 milioni di barili di petrolio, il 20 per cento del greggio consumato nel mondo. Così, appena un alto esponente del governo iraniano ha minacciato di bloccare lo Stretto come risposta a un’eventuale nuova tornata di sanzioni economiche da parte di Washington, il prezzo del petrolio è salito. Mentre le forze armate Usa hanno subito proclamato che avrebbero mantenuto lo Stretto aperto, le preoccupazioni degli analisti su una possibile crisi di lunga durata fra Teheran, Washington e Tel Aviv hanno gettato altre ombre sull’economia mondiale, già in rallentamento.

Lo Stretto di Hormuz, però, è solo uno dei molti punti caldi dove energia, politica e geografia sono intrecciati in un mix pericoloso. Vanno tenuti d’occhio soprattutto i mari cinesi, il Mar Caspio e l’Artico, ricco di idrocarburi e sempre meno coperto di ghiacci. In tutte queste regioni diverse nazioni si stanno disputando il controllo della produzione e del trasporto di energia e litigano su confini e diritti di passaggio. Le regioni chiave per la produzione, come il Golfo Persico, rimangono decisive, ma oro lo sono anche le strozzature come lo Stretto di Hormuz e quello della Malacca e le linee marittime di comunicazione, Slocs nell’acronimo inglese.

Lo si può già vedere nell’ultimo rapporto del Dipartimento della Difesa americano, presentato al Pentagono il 5 gennaio dal presidente Barack Obama e dal capo del Pentagono Leon Panetta. Mentre si immagina un corpo dei Marines più snello, il rapporto sottolinea con enfasi l’importanza delle capacità marittime e aeronautiche, specialmente quelle disposte a protezione delle reti mondiali per il commercio energetico. Nella nuova «Era geo-energetica» il controllo delle fonti di energia e il loro trasporto ai mercati sarà al centro delle crisi globali. Tre punti caldi sono da tener d’occhio in modo particolare: il già citato stretto di Hormuz, il Mar cinese meridionale, il Mar Caspio.

Lo Stretto di Hormuz è una stretta striscia d’acqua che separa l’Iran dall’Oman e dagli Emirati arabi uniti. È la sola via marittima fra il Golfo persico con i suoi giacimenti di petrolio e gas e il resto delmondo. Una notevolissima percentuale del greggio prodotto da Iran, Iraq, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati viene trasportato attraverso questo passaggio su base giornaliera. Per il dipartimento dell’Energia americano «è la strozzatura più importante per il petrolio a livello mondiale». Alcuni analisti hanno stimato che un blocco prolungato porterebbe a un aumento del 50% del prezzo del greggio e all’innesco di una recessione globale. È del tutto plausibile che gli iraniani mettano Washington alla prova. Ma può davvero l’Iran bloccare lo Stretto? Molti analisti ritengono che le dichiarazioni del ministro degli Esteri Mohammad al Ramihi e dei suoi colleghi siano un bluff teso a scuotere i leader occidentali, far crescere il prezzo del petrolio e strappare future concessioni se dovessero ripartire i negoziati sul programma nucleare. Ma le condizioni economiche in Iran stanno cominciando a diventare disperate, ed è sempre possibile che un leader estremista e disperato senta l’urgenza di qualche azione drammatica, anche a costo di una tremenda risposta Usa.

Il Mar Cinese meridionale è invece un parte semichiusa dell’Oceano Pacifico occidentale, delimitato a nord dalla Cina, dal Vietnam a Ovest, a Est dalle Filippine e a Sud dal Borneo. Il mare però comprende anche due grandi arcipelaghi praticamente disabitati, le isole Paracel e le Spratly. A lungo importante per la pesca, il Mar cinese meridionale incorpora anche un’importante via di comunicazione marittima fra Asia orientale, Medio Oriente, Europa e Africa. E più recentemente ha acquisito ulteriore importanza per la scoperta di giacimenti di petrolio e gas, con grandi riserve attorno alle Paracel e alle Spratly. Alcune delle isole nella zona ricca di idrocarburi sono rivendicate dalle nazioni confinanti, compresa la Cina, che ha mostrato la disponibilità di usare la forza militare per imporre il suo dominio nella regione. Inevitabili gli attriti con i vicini, alcuni alleati degli Stati Uniti. Il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi ha avvertito Washington a non interferire. Qualsiasi mossa «farebbe solo peggiorare la situazione e renderebbe più difficile una soluzione». È scoppiata una guerra di parole fra Usa e Cina. Durante una visita a Pechino, nel luglio 2011, il capo degli Stati maggiori congiunti, l’ammiraglio Mike Mullen ha espresso le sue preoccupazioni: «Il timore, fra i molti che ho, è che un incidente possa portare a conseguenze che nessuno aveva calcolato». Gli Stati Uniti hanno poi condotto massicce esercitazioni nel Mar cinese meridionale assieme a Vietnam e Filippine. La Cina ha risposto con sue manovre navali. Come nello Stretto di Hormuz, un incidente potrebbe portare a un confronto su larga scala.

Il Mar Caspio è uno specchio d’acqua interno delimitato da Russia, Iran e tre ex repubbliche sovietiche: Azerbaigian, Kazakhstan e Turkmenistan. Gli altri ex pezzi dell’Urss nella regione, Armenia, Georgia, Kirghizistan, lottano per scrollarsi di dosso la tutela di Mosca. Anche se non avesse immensi giacimenti di idrocarburi, il Mar Caspio sarebbe lo stesso l’epicentro di potenziali conflitti. Non è la prima volta che il Caspio è conteso in una lotta tra grandi potenze. Nel 1942 Hitler cercò disperatamente di impossessarsi dei pozzi di petrolio di Baku. Il fallimento fu l’inizio della sua disfatta. Ora, nuove scoperte di giacimenti, offshore questa volta, lo hanno riportato al centro degli appetiti.

Secondo il gigante petrolifero Bp, l’area del Caspio possiede riserve per 48 miliardi barili di greggio e 12 mila miliardi di metri cubi di gas. Più che le riserve di gas delle Americhe e quelle di petrolio dell’Asia. La Russia punta a diventare il distributore monopolista di queste ricchezze, attraverso la modernizzazione dei gasdotti sovietici e la costruzione di nuovi. L’Occidente ha lanciato un grandioso progetto, il Nabucco, per bypassarla attraverso Georgia e Turchia. La Cina ha firmato accordi con il Turkmenistan. Ma tutti questi gasdotti passano in aree segnate da conflitti etnici, secessioni territoriali, come quella dell’Ossezia del Sud, ribellioni islamiche come in Cecenia.

Il risultato è che le grandi potenze hanno legato i progetti di nuovi gasdotti a promesse di assistenza militare ai Paesi interessati. La guerra lampo tra Georgia e Russia del 2008 potrebbe essere una avvisaglia della potenzialità deflagrante delle rivalità attorno al Mar Caspio.

La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " L'irreversibile scelta atomica "


Vittorio Emanuele Parsi

E' credibile un analista che scrive di 'governo di Tel Aviv'?
Tel Aviv non è la capitale israeliana e non è nemmeno la sede del suo governo, perciò l'espressione 'governo di Tel Aviv' è scorretta.
Parsi potrebbe informarsi con più accuratezza su ciò che scrive ?
chiediamo ai nostri lettori di farlo presente al direttore della STAMPA Mario Calabresi: direttore@lastampa.it  
Ecco il pezzo:

Mustafà Ahmaddi Roshan è il quarto scienziato legato al programma nucleare iraniano che perde la vita a seguito di un attentato negli ultimi sei mesi. Si tratta di un segnale inequivocabile e inquietante della drammatica escalation della crisi che contrappone Teheran a una serie pressoché infinita di avversari. Le autorità iraniane hanno immediatamente accusato i servizi segreti dell’«entità sionista». Ipotesi plausibile, benché prontamente smentita dal governo di Tel Aviv, ma tutt’altro esaustiva, giacché sia i sauditi sia gli americani potrebbero ben aver organizzato, preso parte o supportato l’assassinio del professore. Proprio l’ampio ventaglio delle ipotesi plausibili circa la (o le) paternità dell’attentato testimonia dell’isolamento iraniano e della completa irrealizzabilità della sua aspirazione a essere riconosciuto come una «legittima» potenza regionale. Il presidente Ahmadinejad - che di un tale isolamento è tra i principali artefici - ha un bel darsi da fare a esibire amicizie nel Caribe e sulle Ande. La realtà è che, al momento, nessuno di quelli che contano (Cina, Russia) appare intenzionato a muovere un dito per sostenere l’Iran nel caso di un’azione militare diretta a distruggere gli impianti di arricchimento dell’uranio (ormai prossimo a una percentuale del 20%, ben al di là di quanto seriamente giustificabile con fini esclusivamente civili) proprio mentre una simile prospettiva si fa sempre meno irrealistica.

Le manovre navali iraniane nello allo Stretto di Hormuz, unite al lancio di missili a media e lunga gittata, e l’immediata replica americana, con l’invio di una portaerei della classe Nimitz a incrociare nelle stesso ristretto specchio d’acqua, indicano che nessuno degli attori principali di questo dramma appare intenzionato a fare un passo indietro. Lo spettacolo dello sciame di «Mas» e di microsommergibili iraniani è di quelli da far venire i capelli dritti in testa al comandante della John C. Stennis, ma il suo arrivo in prossimità delle acque territoriali iraniane rende letalmente vulnerabile l’intera rete dei siti nucleari iraniani e materializza lo spettro di un’azione militare volta alla loro distruzione (degli Stati Uniti da soli, di Israele e Usa congiuntamente, o in diverse combinazioni ipotizzabili). Con tutta evidenza si tratterebbe di un’iniziativa capace di infiammare un’area che è già più che surriscaldata. Ma è significativo che proprio a Washington crescano le voci che ritengono un attacco militare «il male minore», se paragonato all’alternativa di doversi confrontare con un Iran divenuto potenza nucleare. In tal senso, l’articolo comparso sull’ultimo numero di «Foreign Affairs» a firma di Matthew Kroenig è particolarmente esplicito nel porre la scelta tra «un conflitto convenzionale e un possibile conflitto nucleare». Paradossalmente, dovrebbe essere proprio Barack Obama a dare il via libera alla più classica delle «guerre preventive» tanto care alla dottrina neocon di George W. Bush, colpendo un avversario prima che diventi così forte da rendere l’azione troppo costosa e forse impossibile.

Certo, l’Iran potrebbe facilmente sottrarsi dalla scomoda posizione di oggetto di un simile drammatico dilemma, facendo un passo indietro, o mostrandosi disposto a trattare innanzitutto con gli occidentali e i vicini arabi, considerando nei fatti il nucleare un oggetto di scambio, sacrificabile in nome di altri più rilevanti obiettivi. Per lungo tempo una parte considerevole degli analisti e degli addetti ai lavori ha privilegiato una simile ipotesi, che ha perso però progressivamente credibilità, di pari passo con la crescente radicalizzazione del quadro politico interno iraniano e con l’aumentata consapevolezza che, alla fine, la possibilità di acquisire lo status di potenza nucleare è il solo «successo irreversibile» in politica estera oggi alla portata della Repubblica Islamica. Gli oltre 30 anni trascorsi dalla caduta dello scià hanno infatti dimostrato la straordinaria resilienza del regime di fronte agli attacchi esterni (si pensi alla lunghissima guerra difensiva contro l’Iraq di Saddam), ma anche la caducità degli altri risultati conseguiti. Il passare del tempo sta dimostrando che le guerre che l’America ha intrapreso in Iraq e Afghanistan non hanno privilegiato innanzitutto l’Iran (come molti sostenevano), ma semmai il Pakistan e soprattutto l’Arabia Saudita. La quale si presenta oggi anche come la gran beneficiaria della «fase due» delle rivoluzioni arabe, proprio mentre la sola effettiva alleanza intessuta da Teheran nella regione sta svanendo o diventando inutilizzabile a causa della crisi probabilmente definitiva del regime di Assad.

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