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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
28.11.2011 'La sharia è libertà, governo civile, tolleranza', parola dei futuri governanti egiziani
Balle. Leggere Quirico per convincersene. intanto le donne continuano ad essere discriminate, nel pezzo di Cecilia Zecchinelli

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Domenico Quirico - Cecilia Zecchinelli
Titolo: «Tra i fedeli al comizio dei Fratelli musulmani - La femminista e le reporter molestate: Questo Paese disprezza ancora le donne»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 28/11/2011, a pag.1-13, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Tra i fedeli al comizio dei Fratelli musulmani "., con un nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo " La femminista e le reporter molestate: Questo Paese disprezza ancora le donne ".

ricordiamo l'analisi dell'ambasciatore Zvi Mazel, uscita ieri su IC, ecco il link:
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=42422
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Domenico Quirico : " Tra i fedeli al comizio dei Fratelli musulmani "

Invitiamo a leggere con molta attenzione il pezzo di Quirico, perchè descrive con molta precisione e accuratezza che cosa diventerà l'Egitto dopo le elezioni. Un pezzo da premio Pulitzer per la chiarezza e la lucidità con cui descrive l'ascesa degli islamisti. IC ha spesso  criticato il taglio politicamente corretto di Quirico nei confronti dell'islam in generale. Prendiamo atto delle sue nuove valutazioni, profondamente differenti. E gli facciamo i notri complimenti, non solo per lo stile.
Ecco il pezzo:


Domenico Quirico, Fratelli Musulmani

Un mondo tutto di uomini, accovacciati e tenebrosi nei mercati, sbadiglianti nelle botteghe, taciturni e pacifici nei caffè. Nella via principale una dritta fila di notabili accoglie altri notabili che scivolano, disciplinati e rispettosi, davanti a loro. È una manifestazione elettorale di «Libertà e giustizia», il partito dei Fratelli musulmani, i probabili nuovi padroni dell’Egitto che usciranno dal soqquadro rivoluzionario e dalle elezioni di oggi. Se i generali lo consentiranno.

Barbe: curate brizzolate fresche eleganti intellettuali e mercantesche. E aria da setta, la rigidezza e il rigore dei militanti, quel misto di unzione conformista di chi è guidato da fredde potenze superiori. Poi la processione si ferma, tutti guadagnano le prime file e il palco. E cominciano ad arrivare altri uomini, spuntano le jellabia, i caffetani, i burnus dei contadini, le ciabatte sciancate, l’imbarazzo di chi ha indossato il vestito buono, l’unico, quello cucito e rivoltato per i giorni di festa. E poi le donne e i bimbi: velate, stravelate, molte, nei lugubri barracani di stampo saudita. I maschi a destra e le donne a sinistra, con la placida sicurezza di chi sa che questo è l’uso e non si sgarra.

È l’Egitto che da secoli è abituato a inchinarsi sillabando «hadir», ai vostri ordini. L’Egitto sintetizzato in una parola del dialetto cairota meglio che in mille libri di sociologia: «ma’alish», non importa. Ma’alish se il lavoro non c’è, ma’alish se il raìs di turno è ladro, ma’alish se non funziona niente: ma’alish, sempre ma’alish. L’ultima volta che si è illuso è stato per Nasser, padre nazionalista e pio. Poi tutto è tornato nell’ordine, come sempre: ma’alish. Qui non c’è l’apoplettica voglia di vivere degli estremismi, la febbre alta, la divorante necessità di fare, di muoversi, di andare avanti di piazza Tahrir e deisalafiti, rispetto ai quali i Fratelli fanno la figura di amabili conservatori. Si avanza cauti e molli, col moto dei rosari nelle mani di chi prega.

Sono gli elettori di questo islamismo distribuito alle masse, che proclama il suo basso costo, appare una merce, per non spaventare i tiepidi, sostanzialmente insapore e innocente. Si accinge a raccogliere il frutto maturo della rivoluzione fatta dagli altri. Come è già successo in Tunisia. Come accade in tutte le terre ammalate di sacro. Affinché un mondo non cambi i suoi punti cardinali: «Li votiamo non perché sono bravi o perché comprendiamo cosa dicono, li votiamo perché sono pii...».

I Fratelli musulmani sono rimasti ai margini della nuova fiammata di rabbia che esige il governo civile. Convengono, a loro, le elezioni, le volevano a tutti i costi. Hanno fretta perché sanno che ogni giorno il consenso che può scortarli al potere diminuisce, affogato in nuovi furori.

Moazz, il barbiere, ha il negozio davanti al padiglione dove si svolge il comizio. Ci offre la sedia. È un filosofo, sa passare allo staccio i segreti della campagna elettorale qui a Qaliub. Per esempio: c’è lo striscione di un candidato appeso proprio sopra il suo negozio, uno dei finti «indipendenti». Questo, un fantasioso, invece di palme o bilance ha scelto come simbolo un condizionatore. «Di mestiere trasporta legname, è quasi analfabeta ma ha fatto soldi sotto Mubarak: nei manifesti si proclama dottore, commercialista specializzato nella consulenza tributaria! Forse perché non paga le tasse...». E ride amaro.

La manifestazione elettorale comincia. Con una lunga preghiera veemente. Gli oratori che si alternano ringraziando «Dio che ha cacciato il tiranno» hanno sulle facce il segno di chi è certo di essere un confidente del destino, un rappresentante di dio, ovvero della necessità storica: «Non ci sono ladri tra noi, le nostre candidate hanno le virtù della moglie di Maometto...».

Al caffè i bettolieri, gente che deve a dio forse nessuna reverenza ma solo una patetica amicizia, succhiano il breviario profano del narghilè ma non perdono una parola: «I fratelli musulmani? Brava gente, hanno costruito un ospedale qui in città e tutti i poveri possono farsi curare gratis. E poi aiutano chi deve far studiare i figli e regalano alimenti». La strategia eterna dell’islam politico: prendere il posto di Stati evanescenti e corrotti, assistere i dimenticati che qui sono milioni, maggioranza.

«Certo che possono farlo, sono ricchi i Fratelli - ammicca beffardo il barbiere - procurano ai loro, medici professionisti imprenditori, i clienti, aiutano a far carriera, e in cambio ricevono il 20% dei guadagni...». Sono i pingui capitoli di introito che consentono a Libertà e giustizia di essere il partito più organizzato, di versare in tutto l’Egitto, come un cataplasma su un punto ammalato, le loro prediche: dove scavizzolano tra Allah, Corano e giustizia eterna ma tengono il programma, la futura società che vogliono nella formaldeide. Hanno praticato l’entrismo, per decenni, i Fratelli, sono per necessità diventati maestri nella dissimulazione.

Uno dei rivoluzionari di Tahrir, un insegnante, che era ragazzo negli Anni 80 quando Sadat civettava con gli islamici, mi ha raccontato la sua storia: «Frequentavo i loro campi di istruzione dove ti davano un addestramento militare. Dovevo credere e obbedire, non pensare mai con la mia testa. Ma ci credevo, mi impegnavo ad avere successo nella vita, e contribuire a islamizzare la società. Poi mi sono accorto che ero controllato. C’era una ragazza che amavo, avevo il consenso di mio padre per sposarmi. Mi hanno convocato, furibondi, perché non avevo chiesto il permesso dei capi. Allora me ne sono andato. E ho imparato a non fidarmi di loro, subdoli e ipocriti».

Torniamo al Cairo, nel quartiere vicino alla fortezza di Saladino, rocce dure, terribili, che hanno fornito lecostole alle piramidi. Khaled Hanaf, medico, è uno dei fondatori di Libertà e giustizia, capolista nell’ottava circoscrizione. Nel volto ridono e vibrano, cordiali, le buone rughe dei 50 anni. Prevede che il partito arriverà addirittura al 50%. «Non vogliamo governare da soli - scandisce -, puntiamo a una coalizione per salvare l’Egitto, vogliamo partecipare non dominare. La sharia? Ma la sharia è libertà, governo civile, tolleranza».

Mi viene in mente il sorriso furbo del barbiere di Qaliub.

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " La femminista e le reporter molestate: Questo Paese disprezza ancora le donne "


Mona al Tahawi, blogger con cittadinanza egiziana e americana

IL CAIRO — «È da quando ero bambina sotto re Faruq che lotto per i diritti delle donne e della società che sono inscindibili. Sono stata emarginata, incarcerata, denunciata come apostata, esiliata, combattuta anche da Suzanne Mubarak che ha sciolto ogni associazione di donne che non fosse sua, s'è presa il merito delle vittorie di noi egiziane. E ora questa rivoluzione mi dà forza per andare avanti, sento il suo profumo e rinasco, quando posso vado a Tahrir dove tutti mi conoscono e aiutano. Perfino i giovani Fratelli musulmani mi hanno soccorso durante le cariche a cavallo dei pro-Mubarak. Da una vita aspettavo questo momento». L'appartamento nel casermone nel quartiere popolare di Shubra dove Nawal Al Saadawi vive sola («ho divorziato tre volte per essere libera»), 80 anni appena compiuti e trecce bianche, un mito vivente per il femminismo arabo e non solo, sembra un altro pianeta rispetto alla piazza al centro della protesta e di mille polemiche. Compresa quella, quasi ignorata in Egitto alle prese con ben altri problemi, delle molestie sessuali denunciate da tre giornaliste straniere. In febbraio l'americana Lara Logan, negli ultimi giorni la francese Caroline Sinz e l'egizio-americana Mona Al Tahawi. Attaccate e «semistuprate», l'ultima dalla polizia che le ha pure rotto le braccia, le prime due da giovani in borghese a Tahrir.
Pessime storie che hanno spinto Reporter senza frontiere a chiedere ai media internazionali di non inviare giornaliste al Cairo, anche se poi l'appello è stato ridotto all'allerta: «Le reporter sono più a rischio dei colleghi maschi». Ma comunque il messaggio è che vecchio e nuovo Egitto sono uguali nel disprezzare le donne. «Non scherziamo, escludo che siano stati i giovani di Tahrir ad attaccare le giornaliste. Ci sono infiltrati ovunque, perfino ragazzini pagati per creare caos. I militari vogliono screditare la rivoluzione e cosa meglio di una giornalista straniera sessualmente attaccata? E poi l'esercito non ama le donne: i test di verginità imposti a 17 egiziane arrestate ne sono una prova. I Fratelli musulmani e i salafiti sono patriarcali come tutti i credi, vogliono cancellare i nostri diritti acquisiti — continua Al Saadawi — Ma se in Egitto orrori come mutilazioni, crimini d'onore e discriminazioni resistono ancora è perché abbiamo dimenticato il passato. La grande dea-madre degli egizi, Iside, così come mia madre e mia nonna contadine non portavano veli. Io, da un povero villaggio sono diventata medico e scrittrice, ho insegnato nelle grandi università americane come Harvard. La materia? Creatività e dissidenza», precisa Saadawi, autrice di una cinquantina di libri tradotti in tutte le lingue.
Le ragazze che passano la notte in piazza, come la studentessa Sohaila e la dottoressa Abeer, dicono che «Tahrir è sicura». «Nessuna molestia, ma restiamo con gli amici, ci proteggono come noi proteggiamo loro. La polizia ci ha picchiato e nella folla possono anche toccarti, ma questo capita ovunque». L'ottimismo dell'anziana femminista e delle attiviste sul nuovo Egitto non è condiviso da tutti. Mona Al Tahawy, incrociata nella hall di un grande albergo, in partenza per gli Usa con le braccia ingessate, dice che «in Tahrir entra di tutto, infiltrati, "black bloc", ma è vero che i manifestanti sono più rabbiosi verso gli stranieri». E Farida Al Naqqash, direttrice del settimanale Al Ahali, laica e storica femminista, non esclude «che oltre ai provocatori, anche qualche rivoluzionario sia ostile alle donne, soprattutto straniere. Veniamo da 60 anni di dittatura, macchine fotografiche e telecamere creano sospetto, perfino paura, nelle campagne e tra i ceti popolari il femminismo certo non c'è. Sono solidale con quelle reporter, ma per milioni di donne egiziane sono altri i problemi. A partire dal fatto che dopo queste elezioni a rappresentarle in parlamento saranno pochissime deputate, quasi nessuna. Perfino Mubarak aveva introdotto le quote rosa, ora sono sparite».

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