domenica 19 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Corriere della Sera-La Stampa-Il Foglio Rassegna Stampa
26.11.2011 Egitto: cronache, commenti, interviste
in attesa delle elezioni

Testata:Corriere della Sera-La Stampa-Il Foglio
Autore: Giuseppe Sarcina-Cecilia Zecchinelli-Domenico Quirico-Alberto Mattioli-Redazione del Foglio
Titolo: «Ora la piazza egiziana si sdoppia-Turisti in fuga, stipendi congelati, l'altra faccia della crisi infinita-Egitto le due facce della rivolta-I Fratelli musulmani ? Oggi preferiscono il potere alla piazza-Quant'è pessimista il tycoon Naguib Sawiris sulle e»

Egitto ancora oggi, 26/11/2011, in primo piano su tutti i giornali. Riprendiamo  dal CORRIERE della SERA le cronache di Giuseppe Sarcina e Ceciclia Zecchinelli, a pag. 15.  Il commento dal FOGLIO, a pag.1. L'intervista di Alberto Mattioli a Tariq Ramadan e il pezzo di Domenico Quirico sulla STAMPA a pag.14/15 preceduti da un nostro commento.

Il commento sull'Egitto di Mordechai Kedar su IC di oggi:
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=42407

Ecco gli articoli:

Corriere della Sera-Giuseppe Sarcina: " Ora la piazza egiziana si sdoppia "

IL CAIRO — Giovani con la stessa grinta e lo stesso sorriso. Anche le bandiere sono le stesse, a strisce rosse, bianche e nere, così come i fuochi d'artificio e i venditori ambulanti di ciambelle. Ma al Cairo e in Egitto, in queste ore, si stanno misurando (per ora a prudente distanza) due concezioni del futuro prossimo del Paese.
In piazza Tahrir sono arrivate centinaia di migliaia di persone (il solito «milione», secondo gli organizzatori) che, per il settimo giorno consecutivo, hanno chiesto l'immediato passaggio dei poteri dal Consiglio supremo delle forze armate a un governo di civili.
Ma una decina di chilometri più a est di questa sterminata megalopoli, nel quartiere di Abbasiya dove ha sede il ministero della Difesa, a partire da mezzogiorno si sono ritrovate diverse migliaia di cittadini (circa 50-60 mila nel corso dell'intera giornata, a tarda sera ce n'erano ancora 20 mila circa) schierate a sostegno dei militari. Sul piano dei numeri, come è evidente, il confronto tra Tahrir e Abbasiya non regge. Ma dal punto di vista politico (e sociale) i rapporti di forza in questo Paese da ottanta milioni di abitanti non sono altrettanto scontati. E sarebbe, dunque, sbagliato liquidare frettolosamente il segnale che arriva «dall'altra» manifestazione. Bastava fare un giro e scambiare due chiacchiere con i vari Samir (42 anni), dirigente della Procter & Gamble, Ahmed, 31 anni, gestore di un club di tiro a segno, o Ibrahim, 40 anni, impiegato in un'azienda di forniture medicali, per rendersi conto che Abbasiya non è stato il raduno di comparse prezzolate dal maresciallo Mohamed Hussein Tantawi. Anche se a «intrattenere» i manifestanti si sono presentati personaggi controversi come Tawfik Okasha, conduttore e proprietario del canale televisivo El Farahon, a suo tempo simpatetico con il regime di Hosni Mubarak.
In realtà, i 41 morti dei giorni scorsi (bilancio ancora provvisorio), le migliaia di feriti, le manovre politiche dei militari, culminate l'altro ieri con la nomina di un nuovo premier, Kamal Ganzouri, hanno prodotto una frattura nel movimento popolare che nel febbraio scorso cacciò il presidente-dittatore. Una situazione carica di inquietanti insidie per la stabilità politica ed economica del Paese, a soli due giorni dal primo turno delle elezioni per il Parlamento fissate per lunedì 28 novembre e, notizia di ieri, prolungate al 29.
Non è un caso se gli americani, partner fondamentali dell'Egitto, siano usciti allo scoperto con forza. «Noi crediamo, e questo è molto importante — ha dichiarato il portavoce del presidente Barack Obama — che il trasferimento del potere a un governo civile debba avvenire al più presto, in un modo giusto e pieno, che risponda alle aspirazioni legittime del popolo egiziano». Una posizione pesante, che arriva proprio nel giorno della nomina ufficiale di Al Ganzouri, 78 anni, già primo ministro nell'era Mubarak, dal 1996 al 1999. Ieri il prescelto dei militari ha reagito presentandosi alla stampa. Ganzouri, con i capelli tinti di fresco, ha sostenuto che il nuovo esecutivo avrà «più poteri rispetto ai predecessori».
A questo punto l'impressione è che Tantawi abbia esaurito le carte a disposizione per cercare di svuotare Tahrir senza tornare alle fucilate e ai gas lacrimogeni. Ma anche la piazza potrebbe presto trovarsi a corto di iniziative. La manifestazione di ieri era stata definita quella «dell'ultima chance». A fine serata il tabellone delle presenze riportava una compagnia piuttosto assortita. Per la preghiera di mezzogiorno è arrivato Mohamed ElBaradei, candidato alle presidenziali: è stato accolto con entusiasmo dai giovani. Il premio Nobel del 2005 ha rifiutato l'offerta dei militari di guidare la transizione. «Non ha voluto fare il segretario del maresciallo Tantawi», commentava uno dei suoi collaboratori. Il grande imam Ahmed Al Tayeb, la più alta autorità dei sunniti, due giorni fa aveva chiesto alla giunta militare di non sparare «al petto degli egiziani» e ieri ha fatto sapere ai giovani di «essere con loro». Completano la lista due figure di segno opposto. Hazem Saleh Abou Ismail, leader salafita (islamici radicali), avvistato più volte tra i tappeti per la preghiera e Abdel-Aziz Makkyoun, ex attore e promotore della lista laica Kefaya («Basta!») .
Ma all'appello mancano, ancora una volta, i Fratelli musulmani, il gruppo cardine degli equilibri del nuovo Egitto. Probabilmente anche loro sono divisi. Meno due giorni al voto: l'incertezza e l'inquietudine non si dissolvono.

Corriere della Sera-Cecilia Zecchinelli: " Turisti in fuga, stipendi congelati, l'altra faccia della crisi infinita "

IL CAIRO — «Nessuno slogan nella rivoluzione era apertamente economico e nemmeno oggi a Tahrir se ne sentono molti a parte quelli contro la corruzione. Il che è davvero molto strano». Abdel Moneim Said, direttore del Centro studi strategici Al Ahram, si stupisce a ragione, pur ammettendo che «il Paese non è arrivato ancora alla fame e che la piazza non rappresenta 84 milioni di egiziani silenziosi». Proprio in questi giorni, con la rinnovata protesta e la crescente incertezza politica, sono risuonati nuovi inequivocabili segnali d'allarme. Standard & Poor's ha tagliato il rating del debito sovrano da B+ a BB- con outlook negativo, seguendo Moody's nel giudicare «in deciso deterioramento» l'economia del Paese. La lira egiziana ha toccato i minimi da 5 anni e il rendimento dei Bot a un anno è schizzato oltre il 14%, 350 punti base in più da gennaio. La Borsa, chiusa fino a martedì, dai valori pre-rivoluzione ha perso quasi la metà. E se l'interscambio commerciale regge bene, le riserve valutarie sono crollate in nove mesi di un terzo, il deficit pubblico è aumentato della stessa percentuale. La crescita, se in parte si è risollevata dal tonfo del 4,2% nel primo trimestre, resta lontana anni luce da quell'espansione del 7% nel 2006-2009. «Solo un aiuto straniero può compensare tutto questo», ha scritto Sherine Abdel Razek su Al Ahram. «Ma i generali hanno rifiutato in estate il prestito del Fmi di 3,2 miliardi di dollari e dei 10 miliardi promessi dai Paesi del Golfo ne è arrivata meno della metà, probabilmente perché non gradiscono che il loro ex alleato Mubarak sia sotto processo».
Non ci sono solo gli indicatori macroeconomici, ovviamente. «Per la maggioranza degli egiziani, nonostante siamo abituati agli stenti, la vita è sempre più dura», dice Ashraf Ibrahim, artista che da mesi non ha redditi, attualmente pendolare tra Tahrir dove passa le notti e la città operaia di Helwan dove ha casa. «Chi lavorava in proprio, e sono tantissimi, ora è nei guai. Un mio amico che aveva un'officina meccanica si è ridotto a portare i caffè in un bar di periferia. Ai dipendenti pubblici gli stipendi sono pagati in ritardo. Se sognavamo a gennaio aumenti per tutti, oggi anche chi difende la rivoluzione come me ammette che le difficoltà sono aumentate». E poi c'è il turismo: crollato dell'80% in febbraio, aveva iniziato a riprendersi. Ma per i 15 milioni che lavorano nel settore gli ultimi avvenimenti sono una disgrazia forse più grande della transizione infinita dei generali. «Anch'io voglio un governo civile ma dopo decenni di dittatura posso aspettare ancora un po' — dice il tassista Mohammed Kamel —. Ma intanto come mangeremo se l'economia non riprende?»
In questo grande e complesso Paese ognuno hai i suoi tempi e priorità: i giovani a Tahrir e parte dei politici chiedono subito il ritorno dei generali in caserma, i militari dopo 60 anni al potere tentano (ammesso che la tentino) una graduale uscita di scena, la gente normale vuole soprattutto un Paese altrettanto «normale», senza dittature né miseria, e in sostanza aspetta. Un atteggiamento che in fondo riflette quello dei grandi gruppi internazionali che sull'Egitto hanno scommesso. Per restare tra quelli italiani, da Intesa Sanpaolo che controlla la grande Bank of Alexandria, all'Eni che qui produce un decimo del suo totale mondiale tra gas e petrolio, dall'Italcementi che in Egitto ricava il 12% del fatturato, all'Edison che dal 2009 opera nel giacimento di Abu Qir, il loro commento è lo stesso. «Per chi investe nel medio lungo termine — dicono al Corriere — soprattutto se è nel Paese da anni, quanto sta succedendo non è indifferente ma non cambia l'intenzione di restarci». Voci di rinazionalizzazioni? Timori che lo Stato ritardi i pagamenti, cosa che sta già avvenendo? Come per tanti egiziani si può resistere, aspettare ancora. L'importante, per tutti, è che la situazione non peggiori, che non duri in eterno.

La Stampa-Domenico Quirico: "Egitto le due facce della rivolta "

Nelle analisi di Domenico Quirico sul mondo musulamno, c'è sempre un grande assente, la teocrazia islamica. Non se ne accorse nelle corrispondenze dalla Tunisia, non la vede ooggi a piazza Taharir. Quando ne prenderà atto, lascerà l'Egitto per una nuova destinazione, se la vedano gli egiziani, come oggi dovrenno vedersela i tunisini dopo che le elezioni hanno dato il potere ai Fratelli Musulmani. Sharia ? non conosco....

Il bambino mi segue con il suo pigolio di zanzara, tenace insistente pacato come chi ha tutto il tempo per vivere e per morire. Vuole vendermi la bandiera egiziana, nera bianca e rossa con l’aquila dorata, enorme, in taglia XXL, che potrebbe avvolgere perfino la sfinge. Lavora già, all’alba, in piazza Tahrir, piccolo addetto al suk rivoluzionario dove puoi addobbarti come per un pellegrinaggio.

Piazza Tahrir: ancora avvolta dalle nebbia sottile che sale dal Nilo e appanna questi edifici di coraggiosa bruttezza, facciate stanche e sporche placcate di insegne di fast food e di studi medici. Oggi è un altro giorno importante, per questo luogo decrepito e giovane, giorno di manifestazione immensa, ottanta, centomila persone. La piazza respira ansima rugge, farcita di insulti slogan imprecazioni, si stordisce di mortaretti, di fuochi artificiali, fischia i nuovi padroni, i generali. La rivoluzione egiziana nutrita di nuovi martiri, eccitata, cerca dentro di sé, un’altra volta, la forza, perché come a gennaio riunendosi marciando partecipa finalmente a qualcosa, determina il proprio destino, influisce, decide, esiste. Eppure si sente che l’anima, il di dentro, la fodera soffre. L’impeto struggente di questi ragazzi lotta per non dover ammettere che anche qui la primavera araba è appassita, che si battono per qualcosa che forse è già morto.

Ieri un’altra folla, con le stesse bandiere bianche rossi e nere cantava, ruggiva, applaudiva i fuochi d’artificio a venti minuti d’auto, in Abbasia Square, dedalo di orribili viadotti davanti al ministero della Difesa, a un passo dalla scintillante moschea di Noor. Convocata da un teleimbonitore, Tawfik Gkasha, per gridare l’appoggio del popolo all’esercito. Erano meno numerosi dieci, forse ventimila: famiglie con bambini, ragazzi, facce da funzionari. Non parevano plebi prezzolate. E ora ci sono due folle che agitano la stessa bandiera e dicono di essere «il popolo».

Ma anche Tahrir non è più la stessa, mesce il nuovo alambicco della rivoluzione egiziana, più ambiguo, sfumato e complesso: gli arrabbiati della piazza, gli islamisti avidi di potere e una gioventù che non vuole capitolare. Che ieri all’alba dicevano: ancora una notte guadagnata. Sperano che in questa distesa di cupi stracci tesi sulle punte di pertiche e bastoni la Storia non abbia ancora scelto con chi stare.

E’ nei gironi estremi della piazza, dove sono fitte le righe di venditori di tè e di termiss che la rivoluzione si svela più fragile e isolata. La gente flaneggia indifferente nei caffè sul fiume, o si imbestia nelle auto aggrovigliate da ingorghi interminabili, qui incontri un uomo furibondo che schiacciando freneticamente il clacson ti urla: «Ma che vogliono questi forsennati? Abbiano cacciato Mubarak: basta! Non c’è più pane, non ci sono più soldi!». Sono già tornati nella loro secolare guaina di indifferenza, un popolo eternamente paziente abituato da secoli a obbedire al faraone, al kedivè, al rais. Per loro questo è «un periodo intermedio» tra le dinastie. Vogliono un altro faraone, e presto. Il male arabo.

Nelle rivoluzioni, a un certo punto, l’euforia si placa e tutto si smorza, ci si guarda intorno, quelli con cui combattevamo fino a ieri ci sembrano estranei, ci guardiamo negli occhi con malanimo, abbiano fastidio l’uno dell’altro. Per questo il popolo di Tahrir anche se gonfia ancora la piazza, sotto lo smeriglio del tempo, non è più unito, litiga, è intarsiato di vibrazioni interne. I ragazzi del 25 gennaio ne sono ancora l’anima e il fumo più acre nei loro occhi è un apparato militare discreto ma onnipresente, e il suo capo, il maresciallo Tantawi: «Un Mubarak copia e incolla», grida Amr, contabile di 35 anni. Lo accusano di voler ridurre la rivoluzione a un esasperato tumulto, politicamente inetto. Per animarli ieri è venuto in piazza uno dei loro leader, El Baradei. Promettendo, cupo, senza parole cubitali, vittoria. E la piazza lo ha ripagato con un coro: «Non aver paura, ci batteremo». I giovani respingono il nuovo governo di Ganzuri e propongono un esecutivo guidato dal premio Nobel per la pace. Ma neppure lui è riuscito a diventare la faccia della rivoluzione. Forse aiuterà di più le speranze di Tahrir la presa di posizione degli Stati Uniti che hanno chiesto un governo civile. Subito.

Vicino alla moschea Omar Maktam c’era la piazza fitta di barbe. E neppure queste sono tutte eguali. Quelle più corte e curate appartengono ai Fratelli musulmani, che hanno fretta di vincere le elezioni che iniziano lunedì per islamizzare, come in Tunisia, una rivoluzione che non era loro. E poi ci sono le barbe all’assira, a ventaglio, dei salafiti, squadristi incendiari vestiti come sacerdoti, ogni giorno più numerosi e impettiti. Nel centro della piazza la loro tenda gialla, made in China, è un alveare. Che ruota attorno a Ashrat Abdelronem, professore e sceicco. Srotola parole di miele infarinate di certezze: per salvare l’Egitto tutti devono unirsi e ci vuole un governo civile e democratico. Ma appena cade la parola democrazia gli altri lo incalzano, inferociti. E allora lui si affanna a spiegare che libertà si traduce giustizia e che la democrazia varia da un Paese all’altro e deve essere «conforme alla nostra cultura musulmana».

La Stampa-Alberto Mattioli: " I Fratelli musulmani ? Oggi preferiscono il potere alla piazza"

Una azzeccata caricatura di Tariq Ramadan, due linguaggi, per vendere meglio il prodotto Sharia

Nella pagina accanto al pezzo di Quirico c'è questa intervista a Tariq Ramadan, cosa c'è di meglio per informare i lettori del quotidiano torinese su chi sono i Fratelli Musulmani ? una bella intervista al nipote del fondatore, che sarà anche un famoso intellettuale, ospite nelle più illustri università, gradito nei salotti politicamente corretti, peccato però che le sue idee sulla sharia che dovrebbe guidare il mondo non vengano ricordate. Altrimenti si capirebbe di quale pasta è fatto l'esimio Ramadan.

È uno dei più celebri intellettuali arabi. E anche dei più discussi. Però per cercare di capire cosa sta succedendo in Egitto (e magari cosa succederà), Tariq Ramadan è la persona giusta. Islamista, professore a Oxford, in Qatar e in Giappone, giornalista, saggista, vive a Ginevra ma è egiziano. Suo nonno, Hasan alBanna, fu il fondatore dei Fratelli musulmani.

Professor Ramadan, Egitto la primavera araba prosegue o finisce?

«Non credo che al Cairo si possa parlare di primavera araba. L’Egitto non è la Tunisia: Mubarak è caduto, ma non è stato sostituito da un potere democratico. Per il momento, chi comanda è l’Esercito».

I Fratelli musulmani hanno partecipato alle prime manifestazioni contro il regime militare ma non alle ultime e in piazza non c’erano nemmeno ieri. Perché?

«Chi è oggi alla testa dei Fratelli musulmani, o almeno a una parte del movimento, ha deciso che con i militari si poteva trattare. Evidentemente, ha ricevuto delle garanzie. Soprattutto quella, fondamentale per il movimento, che le elezioni non saranno rimandate e che quindi lunedì si voterà. Ma oggi i Fratelli musulmani sono molto divisi. Anzi, spaccati fra vecchi e giovani, fra un’ala conservatrice che vuole trattare con il potere e una radicale molto più vicina a chi manifesta in piazza Tahrir».

Il loro Partito della Giustizia e della Libertà resta, però, il grande favorito delle elezioni.

«Credo che il risultato più probabile per il partito sia simile a quello di Ennahda, il partito islamico che ha vinto in Tunisia: un 30-35% dei voti. Il che significa avere la maggioranza relativa, non quella assoluta».

Con i Fratelli musulmani al potere, come cambierà la politica estera egiziana, per esempio verso Israele?

«Non penso che ci saranno grandi cambiamenti. Intanto perché, senza maggioranza assoluta, i Fratelli musulmani non potranno decidere da soli. Poi perché sono divisi anche su questo, cioè fra chi sostiene che bisogna rispettare gli accordi di pace con Israele e chi invece vuole denunciarli. Infine, l’Esercito e gli Stati Uniti appoggeranno l’ala favorevole alla pace».

Come vede il futuro del Paese?

«Penso che l’avvenire dell’Egitto si giocherà fra tre protagonisti. Il primo è il Consiglio supremo delle Forze armate, che intende difendere le sue prerogative. Il secondo sono appunto i Fratelli musulmani. Il terzo è un personaggio che si credeva scomparso e che invece tornerà. Mi riferisco a Mohammed El Baradei».

Nobel per la Pace ed ex capo dell ’ A i e a , l’Agenzia atomica dell’Onu.

«Lui è accettabile sia per l’Esercito che per i Fratelli musulmani. Ricordo che sette mesi fa, al momento della caduta di Mubarak, questi si dissero disposti ad appoggiare un governo guidato da El Baradei. È una figura non troppo connotata politicamente, un esponente della società civile sul quale si può trovare un compromesso. In più, c’è l’America».

Ma El Baradei fece molto arrabbiare l’amministrazione Bush all’epoca della seconda guerra all’Iraq.

«Appunto. Gode quindi di una perfetta copertura presso l’opinione pubblica araba. Proprio per questo, penso che l’amministrazione Obama punti su di lui per trovare in futuro un punto d’accordo fra l’Esercito e l’ala moderata dei Fratelli musulmani».

Con i Fratelli musulmani alle soglie del potere, crede che suo nonno oggi sarebbe soddisfatto?

«È molto difficile immaginare cosa penserebbe. Forse no. La situazione dell’Egitto oggi è fragile ed esplosiva insieme. Soprattutto, non è ancora chiaro se quel che sta succedendo in Egitto sia davvero una rivoluzione. O solo una rivolta abortita».

Il Foglio- "Quant'è pessimista il tycoon Naguib Sawiris sulle elezioni in Egitto "

Naguib Sawiris

 Il Cairo, dal nostro inviato. Tre settimane fa sembrava finito, Mohammed ElBaradei, candidato presidenziale con appena il 13 per cento dei consensi e uno staff elettorale così stanco di lui da abbandonarlo in blocco. Negli ultimi due giorni però l’ex direttore dell’Agenzia atomica delle Nazioni Unite, criticato per le sue posizioni troppo morbide con Teheran, ha avuto un colpo d’ala: prima ha rifiutato con sprezzo la convocazione a un incontro con i generali del Consiglio supremo e poi è andato in piazza Tahrir nel venerdì della melioneya, “la marcia di un milione” contro la “dittatura militare”. E’ un paradosso: il candidato meno carismatico di tutti è stato adottato dagli egiziani più combattivi e ieri circolava una petizione che chiede ai militari di consegnare il potere a un governo di unità nazionale presieduto da lui. Per riflesso automatico, i sostenitori dei generali hanno subito cominciato a odiarlo: a una manifestazione a favore del Consiglio nella piazza di Abbasiyah, gridavano davanti alle telecamere: “Piuttosto che ElBaradei primo ministro, la morte!”. Non corrono rischi immediati: la proposta suona come un balsamo per un candidato che sembrava essersi perso nella campagna elettorale, ma è considerata poco realistica. Ieri anche Washington ha chiesto ai militari di cedere il potere “il prima possibile”. ElBaradei è riuscito almeno a entrare nel ciclo delle notizie, dominato a due giorni dall’inizio delle elezioni (estese anche a martedì) dalle richieste anti militari di Tahrir e dai Fratelli musulmani. Un intero settore di partiti e di candidati è scomparso dai discorsi degli egiziani. Il più importante tra loro è senza dubbio Naguib Sawiris, il magnate delle telecomunicazioni, che tre giorni fa era impegnato in campagna elettorale, ma a New York. L’invitato presente a una sua cena di raccolta fondi nella ricca comunità araba che vive negli Stati Uniti riferisce di averlo sentito dire che “scioperi e proteste hanno distrutto l’economia egiziana” e anche che “è stata al Jazeera a istigare l’attacco all’ambasciata israeliana”. L’uditorio ha risposto con applausi e brindisi. Ma in Egitto i moderati e il centro che avrebbero dovuto opporsi alla marea ben organizzata dei Fratelli musulmani e alla tenacia dei sei partiti salafiti stanno conducendo una campagna rinunciataria, anche se hanno una piattaforma assolutamente ragionevole. Spiega Sawiris, in un’intervista al canadese Globe and Mail: “Voglio un paese dove un islamico può andare alla moschea, un cristiano in chiesa e io se lo desidero a prendermi uno scotch al bar”. Il magnate è duro con la piazza: “Questi sono andati a suonare la chitarra a Tahrir e sono tornati a casa quando il party è finito, non c’è stato nessuno sforzo per costruire un qualcosa di politico. Poi vengono da me e chiedono: ‘Come sta andando?’”. Sawiris è sincero e pessimista, per militare in una campagna: “La Tunisia è un paese davvero liberale, là le donne sono forti come dieci uomini. Eppure gli islamisti hanno vinto con il 45 per cento. Cosa succederà qui?”.

Per inviare a Corriere della Sera, Stampa, Foglio la propria opinione, cliccare sulle e-mail sottostanti.


lettere@corriere.it
lettere@lastampa.it
lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT