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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale-Il Foglio Rassegna Stampa
03.09.2011 Israele sotto assedio: I tentativo di eliminare la parola Shoah
L'intervento di Fiamma Nirenstein, Guido Vitiello e l'attacco del Foglio al 'teppista' Bauman

Testata:Il Giornale-Il Foglio
Autore: Fiamma Nirenstein-Guido Vitiello-Editoriale del Foglio
Titolo: «Chi tocca la parola Shoah attacca Israele-Shoah e Olocausto indicano due storie diverse, meglio dire Auschwitz-Teppisti intellettuali contro Israele»

Sulla polemica nata dalla decisione del governo francese di espellere la parola Shoah nei libri di testo (ma Nakba continua ad esserci), ci sono stati molti interventi, dalla analisi semantica alla proposizione di nomi alternativi.
Crediamo che la polemica può terminare con l'intervento di Fiamma Nirenstein sul GIORNALE di oggi, 03/09/2011, che inquandra la questione con una chiarezza totale.
Riprendiamo anche dal FOGLIO il dotto intervento di Guido Vitiello, che però è dotto e basta, e, per certe parti anche ambiguo. Non ci fu mai una contrapposizione tra il televisivo "Olocausto" , un onesto prodotto hollywoodiano,pensato per un pubblico vastissimo quale è quello della televisone, e "Shoah" di Claude Lanzmann, un prodotto sotto forma di film che sarebbe più giusto definire materiale di studio, di altissimo livello ma di sicuro non per le masse, anche vista la durata di 9 ore.
Non si capisce poi la citazione dello storico cattolico (aggettivo rimasto nel tasto del PC di Vitiello) che non ha capito quanto la parola Olocausto, nella sua versione americana Holocaust, ha avuto nuna diffusione mondiale unicamente grazie al fatto che l'inglese la lingua internazionale per eccellenza. Chi ne conosce l'origine, per altro riportata correttamente nel pezzo di Vitiello, si è sempre guardato bene dal pronuciarla.
Ribadiamo, sulla parola Shoah non possono esserci discussioni, quella è la parola. Alla quale va però collegato il riferimento storico-politico, come ha scritto Fiamma Nirenstein, che ha colto in pieno in centro del problema.

Chiude questa pagina un fortissimo attacco del FOGLIO contro Zygmunt Bauman, per le sue dichiarazioni su Israele. Avergli dato del teppista è ancora poco.
 Ci voleva, tutti i nostri complimenti a chi ha scritto l'editoriale.


Ecco gli articoli:

Il Giornale-Fiamma Niresntein: " Chi tocca la parola Shoah attacca Israele "


Fiamma Nirenstein

Se qualcuno giocherella con la Shoah, questo fa Ahmadinejad contento. Fa contento anche Nasrallah capo degli Hezbollah, fa contenta Hamas, fa contenta la jihad islamica e Al Qaeda, fa felice i neonazisti e tutti quelli che vanno a disegnare svastiche nei cimiteri ebraici. Decidere come ha fatto la Francia che la parola «Shoah» non si può più usare nei libri di testo, sparare errori storici sul numero dei prigionieri tedeschi uccisi per compararlo ai sei milioni di ebrei sterminati, come ha fatto Günter Grass, sono giuochi da salotto che oltre a essere cretini, dato che la storia della Shoah è un masso inamovibile e un testo trasparente per la coscienza e la conoscenza di chi ce l’ha, hanno ormai un significato politico evidente. Giocare con la Shoah, annettersi in un modo o nell’altro all’ormai grande vecchio carrozzone della sua negazione, è la maggiore arma oggi in uso per distruggere gli ebrei e Israele. Insomma, è un’arma antisemita.
E sia chiaro che io penso che di stermini ce ne sono stati di immensi, di comparabili a tratti e per segmenti (la
strage dei kulaki, gli armeni, la Cambogia, il Darfur..) ma forse non nella loro interezza di operazione crudele oltre la misura, programmata, ideologica, organizzata, perdurante, di largo successo, attuata contro persone integrate a perfezione nell’educazione e nella vita civile del popolo che l’ha decisa, immensa... La negazione della Shoah va in coppia con la promessa di «spazzare via il regime sionista»: Ahmadinejad ha citato la promessa dell’Ajatollah Khomeini di «spazzare Israele via dalla mappa» quando nel 2006 parlò ai delegati della conferenza sull’Olocausto sponsorizzata dall’Iran. C’erano David Duke, il capo del Ku Klux Klan, Faurisson, Garaudy.. ma tutti i vecchi arnesi della negazione della Shoah sono stati rapidamente rimpiazzati dall’abitudine ossessiva e ripetuta dell’idea che la Shoah sia una specie di passpartout con cui gli ebrei e Israele ingannano il mondo, fanno quello che vogliono, diventano a loro volta i perpetratori di crimini simili a quelli di cui accusano i nazisti. A queste orribili balle, che partono dalla negazione della Shoah e cui il mondo si è assuefatto e con cui gioca a dadi, segue la promessa di distruggere gli ebrei e Israele.

Il Foglio-Guido Vitiello: " Shoah e Olocausto indicano due storie diverse, meglio dire Auschwitz"

Chissà cosa sarà passato per la testa, ai funzionari del ministero dell’Istruzione francese, mentre decidevano di accantonare la parola Shoah nei manuali scolastici in favore del lindo e burocratico anéantissement, che sa appunto di circolare ministeriale, e che sarebbe piaciuto ad Eichmann. Forse avranno pensato che una denominazione comune, tale da includere ebrei e zingari, richiedesse un comun denominatore, e che annientamento potesse tenere assieme Shoah e Porraimos, “divoramento”, la parola con cui sinti e rom designano la catastrofe. Ineccepibile, dal punto di vista matematico; imperdonabile, se pensiamo a quanto delicata sia da sempre la questione del nome. Nominare è ben più che etichettare, è fornire un embrione d’interpretazione: non per caso James E. Young scelse come epigrafe al suo saggio sui nomi dello sterminio la frase di Vico secondo cui ogni metafora è una “picciola favoletta”, un mito condensato. Chi dice Shoah ha in mente una storia diversa da chi dice Olocausto: Shoah indica devastazione, distruzione, e anche se compare nella Bibbia non ha forti connotazioni teologiche. Olocausto allude allo sterminio come morte sacrificale, mistero sacro, “capitolo glorioso della nostra storia eterna” come lo definì Elie Wiesel – grande araldo del termine Olocausto, che poi si pentì di averlo diffuso, specie dopo che servì a battezzare un film che, a suo dire, aveva degradato un evento metafisico a soap opera. E già, perché la questione del nome passa per due favolette tutt’altro che “picciole”, due film monumentali per durata e ambizione che hanno, per così dire, espanso i miti compressi in poche sillabe. E’ grazie a “Shoah” di Lanzmann se l’Europa ha adottato la parola diffusa da tempo in Israele. Ed è stato lo sceneggiato “Holocaust”, nel 1978, a consacrare il nome tuttora prevalente in America – e a far infuriare Wiesel. Basta un’occhiata al finale dei due film per intuire l’abisso che li separa. L’ultima inquadratura di “Holocaust” è il sorriso del giovane Rudi Weiss, unico superstite della famiglia di ebrei tedeschi protagonista della serie, che si avvia a guidare in Palestina un gruppo di orfanelli. “Shoah” termina, senz’ombra di catarsi, sulle riprese di un treno in corsa: non sappiamo da dove sia partito, dove sia diretto, se appartenga al passato, al futuro o a un tempo apocalittico in cui ieri e domani sono una cosa sola. “Holocaust” faceva del genocidio un melodramma hollywoodiano, dove si piange molto ma in ultimo si è riscattati, e la fondazione del nuovo stato forniva l’impossibile, quasi derisorio happy end; nelle nove ore di “Shoah” si piange ben poco, e si resta con l’impressione di un male che non ha senso né riparazione. Per qualche anno, i due film parvero fronteggiarsi sdegnosamente, come la via europea e la via americana alla memoria. Poi è arrivato Spielberg. Difficile dire se “Schindler’s List” – che attinge tanto a “Shoah” quanto a “Holocaust” – sia un film americano girato in Europa o un film europeo prodotto a Hollywood. Sta di fatto che nel presentare la Shoah Foundation, nata come “costola” del film, Spielberg esordiva stabilendo l’equivalenza perfetta tra i due termini: “Shoah è la parola ebraica per Olocausto”. Ingenua scappatoia di un grande semplificatore? Può darsi: ma le parole sono più intrecciate di quanto si creda. Lo storico Peter Novick faceva notare che Olocausto è la parola con cui in Israele si scelse di tradurre Shoah già nel preambolo alla Dichiarazione d’indipendenza del 1948, e che dagli anni Cinquanta le pubblicazioni di Yad Vashem in inglese rendevano regolarmente Shoah con Olocausto. Aggiungeva che Shoah non è termine poi così profano, e che nella Bibbia è usato anche per indicare una punizione divina – connotazione che, connessa allo sterminio, non è meno infelice di quella di Olocausto. Può non piacere il piglio polemico di Novick, ma la sua riflessione spinge a chiedersi se anche Shoah non sia un termine metaforicamente sovraccarico, un mito in miniatura. E anche se ci sono ottime ragioni per difenderne l’uso – Mordechay Lewy, ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, le ha ricordate ieri sul Corriere: il rispetto per l’unicità dell’evento e per la lingua delle vittime – tra queste ragioni è difficile annoverare quella che Lanzmann invoca tutte le volte che spiega perché scelse di chiamare il suo film “Shoah”, e cioè che sia un non nome per un evento incomprensibile. Tra i molti nomi dello sterminio, forse l’unico immune dal gioco delle metafore è quello che dominava negli anni Sessanta: Auschwitz. Che per cominciare è una metonimia, più che una metafora. Indica, non spiega. E’ un toponimo che non vuol dir nulla, e proprio per questo dice tutto; non rimanda ad altro che a se stesso, e dunque alla sua assurdità, come l’Odradek di Kafka. Di certo ha il difetto di mettere in ombra la specificità ebraica; ma quando vogliamo far risuonare in una parola l’assoluto non senso, sono quelle nove ottuse lettere che dobbiamo scandire. Perché, dice Alvin Rosenfeld, “non ci sono metafore per Auschwitz, proprio come Auschwitz non è metafora di nient’altro”.

Il Foglio-" Teppisti intellettuali contro Israele "


Zygmunt Bauman

Il vandalismo antisraeliano ha un volto comune di protesta. E’ quello mostrato da una trentina di attivisti che hanno interrotto per due volte un concerto della Filarmonica di Israele, sotto la direzione di Zubin Mehta, tenuto giovedì alla Royal Albert Hall di Londra. L’emittente Bbc, che trasmetteva la serata sul terzo canale radiofonico, durante le proteste ha sospeso la diretta scusandosi con gli ascoltatori. Poi c’è un altro teppismo, più grave, sottile, perfido. E’ quello intellettuale sfoggiato dal sociologo Zygmunt Bauman, il filosofo della “modernità liquida”, la star delle chattering classes italiane, “uno dei più grandi pensatori viventi”. In un’intervista a un settimanale polacco, Politika, Bauman ha detto che “Israele sta traendo vantaggio dall’Olocausto per legittimare azioni inconcepibili” e che il fence anti terrorismo eretto da Gerusalemme per difendere i propri cittadini è come il Ghetto di Varsavia. Non si tratta di una boutade, ma di una idea che da anni circola nei quadri dell’intellighenzia europea. Nel 1982 fu il premier socialista della Grecia, Andreas Papandreou, a paragonare Israele ai nazisti. Poi venne Norbert Blum, ministro tedesco del Lavoro, un cristiano-democratico, che accusò Israele di operare sui palestinesi una “Vernichtungskrieg”, l’espressione nazista per la guerra di sterminio. La disse il Nobel José Saramago, quando paragonò Ramallah ad Auschwitz. Fino al giornale norvegese Dagbladet, che durante la guerra del Libano nel 2006 fece la caricatura del premier israeliano Ehud Olmert come il maggiore delle SS Amon Goeth, quello di “Schindler’s List” di Spielberg. Ora il famoso sociologo Zygmunt Bauman paragona una barriera provvisoria che ha fermato i kamikaze e che ha consentito di riavviare i colloqui negoziali al ghetto in cui 400mila ebrei polacchi furono rinchiusi prima di essere sterminati nelle camere a gas di Treblinka. Bauman non fa dell’umanitarismo, sta dicendo: Israele merita di fare la fine dei nazisti. La questione dell’assedio esistenziale allo stato ebraico sta diventando davvero il discrimine morale attraverso cui giudicare la salute o la perversione intellettuale dei nostri maître à penser e delle classi dirigenti occidentali.

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