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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
04.05.2011 Bin Laden? Una persona rispettabile. Guerra al terrore e terrorismo? La stessa cosa
Le teorie improponibili di Robert Fisk, Barbara Spinelli, Adel Ben Mabrouk

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Domenico Quirico - Enrico Franceschini - Barbara Spinelli
Titolo: «Il reduce di Guantanamo: Osama? Era rispettabile- Il mostro di al Qaeda»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 04/05/2011, a pag. 15, l'intervista di Domenico Quirico all'ex detenuto di Guantanamo dal titolo " Il reduce di Guantanamo: Osama? Era rispettabile ". Da REPUBBLICA, a pag. 13, l'intervista di Enrico Franceschini a Robert Fisk dal titolo " Quando Osama tentò di arruolarmi. Fisk racconta i suoi giorni con lo sceicco  ", a pag. 1-33, l'articolo di Barbara Spinelli dal titolo "  Il mostro di al Qaeda  ".
Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:

La STAMPA - Domico Quirico : " Il reduce di Guantanamo: Osama? Era rispettabile "

Come fa notare anche Quirico in fondo all'intervista, Adel Ben Mabrouk, ex detenuto di Guantanamo, non usa mai la parola 'terrorismo' per riferirsi a bin Laden. Una scelta lessicale che si commenta da sè.
Ecco l'intervista: 

Chi ci capirà mai nulla in questo ragazzo di quarant’anni: se è un perseguitato come dice la sentenza del giudice italiano che lo ha mandato libero perché vittima di «una detenzione del tutto illegale», o un diavolo, come dicono i dossier americani; o una loro capricciosa combinazione. E’ fuso nel bronzo, Adel Ben Mabrouk, questo è certo; visto che è uscito vivo dall’Afghanistan e da Guantanamo, per non contare altre mille più domestiche galere. Ho parlato con lui tre ore, fitto fitto; quanto basta per credere alla fine di averlo acchiappato e di tenerlo fermo, che non può più scappare. E proprio allora si riesce meno a capacitarsi dell’essere suo.

Terrorista o solo qualcuno travolto da eventi più grandi di lui? La verità è una sola, non due. Il caso ha voluto che lo incontrassi il giorno in cui l’uomo che ha segnato, o intrappolato, la sua vita, Bin Laden, è stato ucciso. Alla televisione, nel salotto di casa, sulla rete in arabo di France 24 scorre la piena delle immagini, quelle immagini: le torri che spariscono in una vampa di fumo, il miliardario del terrore che cammina quieto come un pastore su montagne verdeggianti, che prova con scrupolo un mitra, che minaccia. E vittime, tante vittime, carne viva, gli anni del Grande Terrore, l’aria sembra impregnata dalle loro grida e dai loro lamenti. Mabrouk non commenta, guarda con uno strano sorriso febbrile: «Gli americani… sono contemporaneamente furbi e stronzi…». Poi afferra il telecomando e comincia a cercare senza riuscirci il canale della Rai: «Io in televisione guardo il calcio, il vostro calcio. Che cosa ha fatto ieri l’Inter, una bella squadra...?».

Ma insomma, Bin Laden, per te, chi era: un martire, un pazzo, un assassino? «Era un uomo rispettabile, anche i suoi nemici devono riconoscere che era un uomo degno di rispetto, un uomo degno di onore».

Per trovarlo, dopo che due settimane fa il giudice milanese Spataro l’ha liberato e poi è stato espulso dall’Italia a cui l’avevano consegnato gli americani dopo otto anni di Guantanamo («Spataro è un bravo giudice… In Europa tornerei, in Italia mai, dopo che ho visto come trattate noi musulmani nelle carceri…»), bisogna venire nel quartiere di Zaharouni a Tunisi, una banlieue che con la sera diventa proibita perché troppo pericolosa. La moschea, grigia, cementizia, che è vicina alla sua casa, è simile a una chioccia che lo difende. Ai piedi del minareto si stringono bottegucce che per entrarvi devi abbassare il capo, casette col solo pianterreno, palme squamate come da una inarrestabile malattia della pelle, passan donne velate che hanno nelle movenze una certa barbara spavalderia che sembra il vestigio di qualità remote e più alte che ora debbono nascondere.

La moschea è la nuova vita di Mabrouk, i pochi metri che la separano dalla casa e dal garage dove con il fratello ammonticchia oggetti da rivendere sono la sua Storia. Davanti al garage la gente passa e saluta. E c’è nella voce un sfumatura evidente di rispetto, di ammirazione. E’ il fratello che l’ha convinto ad accettare l’intervista: anche lui «un afghano», ha scontato sette anni per terrorismo ma la sua Guantanamo non si è mai spostata dalla Tunisia..

Già, le prigioni: Pesaro Asti Fossombrone Macomer Benevento Milano Kandahar Guantanamo e tante altre. Sono la sua vita, le prigioni. La prigione impasta come il lievito i suoi racconti, i ferri, ad esempio, usati dai pachistani, «roba che era uguale ai tempi di Gesù: ti mettono due anelli alle caviglie, collegati da una sbarra, un’altra lungo le gambe, così che per camminare devi tenerla sollevata…». Tutto questo ha lasciato delle tracce? «Forse, ma non me ne accorgo o forse noi, quelli di Guantanamo, in realtà siamo tutti pazzi senza saperlo, e ce ne accorgiamo solo quando andiamo in mezzo alla gente, nel modo in cui ci guardano…». E lo dice con un risolino secco secco, rado rado.

Mabrouk è una tragedia che parla a bassa voce, come se le cose che ti dice fossero state vestite e spogliate dieci volte almeno. Ogni tanto si rannicchia in silenzi impenetrabili. Me lo ha detto subito, alla seconda domanda: «Guarda, è meglio che sia io a raccontare. Non mi piace rispondere perché ho l’impressione di essere di nuovo là. Ho passato 200 interrogatori a Guantanamo, la Cia, i Ros, la Digos e quei bastardi dei nostri servizi tunisini, quelli di Ben Ali. E’ come se le domande le sapessi in anticipo, sempre le stesse. Ce ne sono tre a cui non rispondo mai: che pensi dei kamikaze? Come sei diventato fondamentalista? Hai sparato?».

Ma sulla fede, poi, risponde. «Il carcere e gli imam estremisti? Tutte storie: ero uno che aveva tanti peccati da confessare, tutto qui. E’ stato come nascere di nuovo, ma noi musulmani Dio l’abbiamo dentro, la fede ci esce dall’anima… Niente più droga, lavoravo come barbiere, e poi a volantinare per una ditta di Cernusco. Avevo perfino chiesto il permesso di soggiorno, regolare, ma c’era sempre quella vecchia condanna per spaccio, sempre quella…».

E allora, allora irrompe l’Afghanistan, febbraio 2001. «In Afghanistan ci sono andato solo perché era un posto dove i buoni musulmani erano a casa loro. Avevo paura che gli italiani mi consegnassero a Ben Ali in quanto estremista islamico. Sì, vivevo in un campo per stranieri, i taleban ci ospitavano, ci davano una casa». La storia riprende, per lui, quando dopo l’undici settembre e il potere dei taleban a pezzi ripassa sotto le bombe americane la frontiera e viene arrestato con altri 150 fuggiaschi dai pachistani: «Sono loro che mi hanno venduto agli americani per 5000 dollari. Perché Bush aveva bisogno di gente per riempire le galere della lotta al terrorismo».

E poi Guantanamo: «Guarda, c’era molto bene a Guantanamo, non solo il male, mi piacerebbe scriverci un libro, lo intitolerei appunto Guantanamo tra il bene e il male. Sì, lì abbiamo capito chi sono davvero gli americani e abbiamo capito meglio la nostra fede. Eravamo di 50 Paesi diversi e l’80 per cento di noi ha imparato a memoria il Corano. Perché quella non è una prigione, è un campo di guerra dove comandano gli psicologi e gli psichiatri: se non hai la fede non sopravvivi in quelle condizioni. Posso raccontare gesti straordinari, persino dei guardiani. Già, a Guantanamo ho capito una cosa: che l’uomo è buono, persino lì».

Mabrouk non mai pronunciato, in tre ore, la parola «terrorismo».

La REPUBBLICA - Enrico Franceschini : " Quando Osama tentò di arruolarmi. Fisk racconta i suoi giorni con lo sceicco  "


Robert Fisk

Il tono con cui Robert Fisk parla di Osama bin laden suona un po' troppo rispettoso e ossequioso. Sì, bin laden peccava di ignoranza su alcune questioni, per il resto era "alto, bello, bravo a parlare ". Il fatto che fosse un terrorista non viene mai detto con chiarezza nel corso dell'intervista, evidentemente per Fisk non era il tratto saliente del personaggio.
Ecco l'intervista:

«Mister Robert - cominciò a dire lo sceicco col turbante - uno dei nostri fratelli ha fatto un sogno, ha sognato che lei veniva a trovarci su un cavallo, che lei aveva la barba e che lei indossava una veste come la nostra. Questo significa che lei è un vero musulmano». Il luogo era un accampamento sulle montagne dell´Afghanistan. La data era il 19 marzo 1997. Lo sceicco col turbante era Osama Bin Laden. E "mister Robert" era Robert Fisk, il più famoso corrispondente estero britannico, seduto sotto una tenda a gambe incrociate davanti al capo di Al Qaeda. «Sogno, cavallo, barba, musulmano, era chiaro dove voleva arrivare», ricorda il giornalista, al telefono dalla sua casa di Beirut, dove vive da oltre un quarto di secolo. «Era una trappola e un invito al tempo stesso. Bin Laden stava cercando di reclutarmi. Voleva che mi unissi alla sua lotta. E compresi immediatamente che cosa poteva significare un occidentale, un inglese bianco, un reporter di un rispettabile quotidiano occidentale, per Osama. Nessuno avrebbe sospettato di me. Avrei potuto diventare un diplomatico, entrare nell´esercito o addirittura - un pensiero che mi venne 4 anni più tardi - imparare a pilotare un aereo di linea. Dovevo rispondergli, ovviamente rifiutando. Ma come l´avrebbero presa? Ero terrorizzato. Fu uno dei momenti più spaventosi della mia vita».
Di spaventi ne ha passati tanti, "mister" Fisk, oggi 65enne, corrispondente di tante guerre in Medio Oriente, inviato del Times e poi dell´Independent, autore di libri, «Il martirio di una nazione», «Cronache mediorientali» sono due dei titoli (in Italia pubblicati da Il Saggiatore), che hanno contribuito a farne un mito del giornalismo. Nessun cronista, o meglio forse nessun occidentale, conosceva Bin Laden bene come lui, che è l´unico ad averlo intervistato 3 volte.
Cosa ha provato alla notizia che lo hanno ucciso?
«Indifferenza. Né piacere né dolore, ma come se un peso si fosse sollevato dalle mie spalle. Osama mi nominava nei suoi discorsi. Venivo chiamato "il giornalista di cui Bin Laden si fida". Credenziali che non mi avrebbero procurato il tappeto rosso alla Casa Bianca».
Che impressione faceva, trovarselo davanti?
«La gente cambia con l´età: da giovane vestiva in modo semplice, volutamente modesto, appartenendo a una famiglia molto ricca. Alla fine, nei video che distribuiva con i suoi proclami, era addobbato come uno sceicco, con vesti eleganti e fili d´oro. Era diventato vanitoso, e la vanagloria dell´apparenza rifletteva probabilmente quello che pensava di sé».
Le sembrava intelligente?
«Aveva una caratteristica che non ho mai riscontrato in alcun arabo, e ora che ci penso nemmeno in alcun occidentale. Quando gli facevo una domanda, non rispondeva subito: aspettava uno, due, anche tre lunghissimi minuti, masticando un bastoncino, rimuginando, e poi quando apriva finalmente bocca parlava come un libro stampato. Non so se questa si possa definire intelligenza, ma non era certo uno stupido».
Era colto?
«Aveva lacune enormi. Gli ho sentito dire delle incredibili sciocchezze. Non sapeva che cos´era la guerra civile americana, per esempio. Poi era seriamente convinto che, finanziando le guerre, l´America sarebbe andata in bancarotta, sebbene oggi questa profezia possa apparire non del tutto inimmaginabile. Aveva una difettosa concezione della realtà. Mi diceva che siccome lui aveva sconfitto l´Armata Rossa sovietica, avrebbe sconfitto anche l´America. A parte che non aveva sconfitto i russi da soli, provavo a obiettare che l´America era un´altra cosa, ma non voleva sentire ragioni».
Come ha fatto a diventare il capo di Al Qaeda?
«Ci sono varie ragioni ma una su tutte: era alto, bello, bravo a parlare. E diceva le cose sull´Occidente che i leader arabi, i Mubarak, i Ben Ali, non potevano o non volevano dire, cose che eccitavano la parte più povera, ignorante, arrabbiata, delle loro società».
Aveva paura di morire?
«Mi disse varie volte che non si sarebbe mai fatto prendere vivo, che non si sarebbe arreso al nemico. E quando provavo a provocarlo, insinuando che era ormai un uomo braccato, replicava che il pericolo fa parte della nostra vita».
Com´era vivergli vicino?
«Una volta gli scattai una foto. Prese accanto a sé due dei suoi figli, si mise in posa, fece un bel sorriso. Dopo avere rimesso la macchina fotografica nella borsa, domandai, così d´istinto, a uno dei suoi figli: sei felice? E lui rispose di sì. Ma poi anni dopo quel figlio ha scritto un libro, un´autobiografia, "Living with Osama bin Laden", e ha voluto correggersi: ha scritto che, se Robert Fisk gli avesse ripetuto la stessa domanda, avrebbe risposto di no, che non era felice».
Non deve essere stato facile intervistare Bin Laden. Come faceva a trovarlo?
«No, non è mai stato facile. Ma non ero io a trovare lui. Era lui, in un certo senso, a trovare me. Un giorno ero seduto nel mio ufficio di Beirut quando suonò il telefono. "Mister Robert - mi disse una voce in inglese con pesante accento arabo - un amico che lei ha già incontrato una volta in Sudan vuole vederla". Chiesi dove voleva vedermi. "Nel posto in cui l´amico si trova ora". Compresi che alludeva all´Afghanistan, poiché si diceva che Osama, che io avevo intervistato in precedenza in Sudan, si fosse spostato là. "Vada a Jalalabad e qualcuno la contatterà", continuò la voce. Così feci e finii nell´accampamento sulle montagne sotto una tenda con Bin Laden».
Dove ricevette l´offerta di reclutamento. Come fece a rifiutare senza rischiare di perdere la vita?
«Sceicco Osama, gli dissi, no, io non sono e non diventerò un musulmano. Io sono un giornalista. E il lavoro di un giornalista è raccontare la verità. Lui mi guardava con uno sguardo da falco. Stette zitto un po´, mentre gli altri aspettavano la sua reazione, poi disse: "mister Robert, se lei dice la verità, vuol dire che è un buon musulmano. Tutti gli uomini sotto la tenda annuirono in segno di approvazione per la sua sagacia". Bin Laden sorrise. E io fui salvo».
E adesso Bin Laden è morto.
«Avrei preferito che lo portassero a New York e lo processassero. Chissà quante cose interessanti avrebbe potuto raccontare: a me ha sempre detto che non collaborò con la Cia durante la resistenza dei mujaheddin afgani all´Armata Rossa, ma non gli credevo. In ogni modo la primavera araba degli ultimi mesi aveva già spento il suo sogno di un grande califfato fondamentalista islamico da Bagdad al Cairo. Osama era già uno sconfitto. Da morto, se sarà trasformato in un martire dai suoi seguaci, potrebbe fare più danni che da vivo».

La REPUBBLICA - Barbara Spinelli : " Il mostro di al Qaeda "


Barbara Spinelli

Barbara Spinelli, nel suo lungo articolo, arriva a scrivere che : " Terrorismo e guerre imperiali al terrore sono stati in tutti questi anni fratelli gemelli, e insieme barcollano. Si sono nutriti a vicenda, fino ad assomigliarsi ". Come possa Spinelli scrivere una cosa simile è un mistero.
Com'è possibile paragonare l'Occidente al terrorismo islamico solo perchè il primo, dopo l'11 settembre, non è rimasto fermo ad aspettare altri attentati? La guerra al terrore ha uno scopo preciso, trovare ed eliminare i terroristi islamici, la difesa dal terrorismo islamico.
Ecco l'articolo:

FESTEGGIATA con grida di trionfo negli Stati Uniti, l'uccisione di Bin Laden crea nelle menti più sconcerto che chiarezza, più vertigine che sollievo. La storia che mette in scena somiglia ben poco a quel che effettivamente sta accadendo nel mondo: è parte di una guerra contro il terrore che gli occidentali non stanno vincendo in Afghanistan, e da cui vorrebbero uscire senza aver riparato nulla. È un'operazione che rivela la natura torbida, mortifera, dell'alleanza tra Usa e Pakistan: una potenza, quest'ultima, che usa il terrorismo contro Afghanistan e India, e che per anni (cinque, secondo Salman Rushdie) ha protetto Bin Laden. Che lo avrebbe custodito fino a permettergli di costruirsi, a Abbottabad, una casa-santuario a 800 metri dal primo centro d'addestramento militare pakistano.

Ma l'operazione nasconde due verità ancora più profonde, legate l'una all'altra. La prima verità è evidente: Bin Laden era già morto politicamente, vanificato dai diversi tumulti arabi, e la cruenza della sua esecuzione ritrae un Medio Oriente e un Islam artificiosi, datati, che ancora ruotano attorno a Washington. Il terrorismo potrebbe aumentare, anche se l'America, che ha visto migliaia di connazionali morire nelle Torri Gemelle, gioisce comprensibilmente per la giustizia-vendetta. Come in M  -  Il mostro di Düsseldorf l'assassino è stato punito, ma l'ultima scena manca: quella in cui una mano potente agguanta il colpevole, lo sottrae alla giustizia sommaria, lo porta in tribunale. La parola che sigilla il film di Fritz Lang è: "In nome della legge". È la formula performativa che non s'è sentita, a Abbottabad. Con i nostri tripudi avremo forse contribuito alla trasfigurazione di M  -  il mostro di Al Qaeda.

Oltre che morto politicamente Bin Laden era divenuto irrilevante, prima di essere ucciso. La sue cellule gli sopravvivono, non avendo in realtà bisogno d'un capo per agire. Ma il suo desiderio di forgiare l'Islam mondiale era già condannato. Il mondo arabo e musulmano sembra aver imboccato una via, dal dicembre 2010, che rompe radicalmente con la visione che egli aveva dell'Islam, dell'indipendenza e dignità araba, della democrazia occidentale. La rivoluzione araba è cominciata con un evento, in Tunisia, che lui avrebbe ripudiato: la decisione di un giovane arabo di protestare contro il regime uccidendo se stesso, non seminando morte come un kamikaze, immaginando l'inferno fuori di sé.

Il terrorismo come metodo emancipatore non ha più spazio nelle cronache odierne, perché il suo obiettivo strategico è percepito da milioni di arabi come la radice stessa del male: come atto che espropria di potere il cittadino ordinario, che lo trasforma in uomo nudo, infantilizzato, mosso da paura. Seminando panico, l'atto terrorista congela l'emancipazione dal basso, proprio perché agisce in nome del popolo, non con il popolo. Gran parte dell'Islam non seguì questa via, dopo l'11 settembre, e meno che mai condivise il sogno di un califfato teocratico mondiale, che Bin Laden coltivava. Le sommosse arabe lo hanno ucciso prima degli americani, con le proprie forze e i propri martiri: in Tunisia, Egitto, Yemen, Siria, Marocco, Libia. Le piazze non si sono risvegliate grazie a lui, per il semplice motivo che Bin Laden non aveva scommesso sul loro risveglio ma sul loro sonno, e il più delle volte sulla loro morte (Al Qaeda ha ucciso più musulmani che non-musulmani, secondo uno studio pubblicato nel dicembre 2009 dal Combating Terrorism Center di West Point).

La seconda verità è strettamente connessa alla prima, e concerne le guerre americane ed europee posteriori all'11 settembre. Terrorismo e guerre imperiali al terrore sono stati in tutti questi anni fratelli gemelli, e insieme barcollano. Si sono nutriti a vicenda, fino ad assomigliarsi. La guerra al terrore che oggi vince una delle sue battaglie è la stessa che ha prodotto Guantanamo e Abu Ghraib: le prigioni senza processi, la tortura banalizzata. Una volta abbattute le frontiere del possibile, scrive Clausewitz, è difficilissimo rialzarle: e infatti Obama non ha avuto la forza di chiudere Guantanamo. Forse non ha neppure rinunciato alla tortura, come ha lasciato intendere il portavoce del dipartimento di Stato Philip Crowley prima di dimettersi, il 13 marzo scorso. Lunedì, alla Bbc, Crowley non ha escluso che sia stata usata la tortura, per estrarre dai detenuti di Guantanamo informazioni sul rifugio di Bin Laden. Alla vigilia delle dimissioni aveva parlato di torture e maltrattamenti del soldato Manning (colpevole d'aver fornito documenti a WikiLeaks) inflitte nella prigione di Quantico in Virginia. Senza attendere il processo Obama ha detto, il 21 aprile: "Manning ha infranto la legge".

Fred Halliday, il compianto studioso del Medio Oriente, ha scritto nel 2004 che la nostra modernità ha al suo centro questa complicità fra terrorismo e esportazione della democrazia dall'esterno: "Ambedue hanno imposto con la forza le proprie politiche e le proprie visioni a popoli ritenuti incapaci di proteggere se stessi, proclamando le proprie virtù storiche mondiali, richiamandosi a progetti politici che solo loro hanno definito". Halliday concludeva: "Il terrorismo può essere sconfitto solo se quest'arroganza centrale (evidente nel colonialismo di ieri come nel terrorismo di oggi, ndr) viene superata" (Opendemocracy, 22-4-04).

Ambedue le violenze sui popoli (terrorismo e guerra al terrorismo) sono figlie di ideologie apocalittiche che della realtà non si curano. I popoli che dovevano esser "salvati" hanno dimostrato di voler vigilare su se stessi senza voce del Padrone. Anch'essi sono pronti a morire, ma senza glorificare la morte come i kamikaze. Senza quello che Unamuno chiamò, durante la guerra civile spagnola, il "grido necrofilo" di chi sceglieva come motto "Viva la muerte!". L'uccisione di Bin Laden è un'ennesima salvezza venuta da fuori, che chiude gli occhi.

Eppure è venuto il momento di aprire gli occhi, anche per gli europei che usano seguire l'America senza discutere. Di capire come mai la potenza Usa ha attratto su di sé tanto odio. Quel che è perverso nell'odio, infatti, è che esso nasconde sempre una dipendenza, una segreta ammirazione, un bisogno dell'altro, idolo o Satana. La guerra al terrorismo non comincia l'11 settembre 2011, così come la prima guerra mondiale non comincia con lo sparo a Sarajevo. Comincia nella guerra fredda, quando Washington decide di combattere l'espansione sovietica con ogni mezzo: aiutando regimi autoritari, e anche finanziando e aizzando il radicalismo islamico in Afghanistan.

Non dimentichiamolo, mentre ascoltiamo Obama che annuncia di aver voluto "consegnare Bin Laden alla giustizia" (bring to justice) nel preciso momento in cui invece lo faceva giustiziare. Durante la guerra sovietica in Afghanistan, Reagan chiamava i mujaheddin non jihadisti ma freedom fighters, combattenti per la libertà. Eppure si sapeva che erano terroristi e basta. In un'intervista al Nouvel Observateur, il 15-1-98, il consigliere per la sicurezza di Carter, Brzezinski, racconta come Washington aiutò i jihadisti contro il governo prosovietico di Kabul, nel luglio '79, sei mesi prima che l'Urss intervenisse. L'intervento del Cremlino fu scientemente forzato "per infliggergli un Vietnam" politico-militare. Brzezinski non rimpiange l'aiuto ai futuri terroristi, e al giornalista esterrefatto replica: "Cos'ha più peso nella storia del mondo? I Taliban o il collasso dell'impero sovietico? Qualche esagitato musulmano o la liberazione dell'Europa centrale e la fine della guerra fredda?".

Sono dichiarazioni simili a creare sconcerto, vertigine. Tanti morti - a New York, Madrid, Londra, e in Tanzania, Kenya, Indonesia, India, Pakistan - quanto pesano, nei Grandi Disegni delle potenze? Valgono l'esecuzione d'un sol uomo? Sono solo qualcosa di politicamente utile? Parole come quelle di Brzezinski erano ricorrenti nel comunismo: nelle democrazie sono veleno. E se così stanno le cose, perché ci hanno detto che la guerra contro qualche esagitato terrorista musulmano era la cruciale, l'infinita, la madre di tutte le guerre? Bin Laden era il mostro di Frankenstein che ci siamo fabbricati con le nostre mani: negli anni '70-'80 pedina di vasti giochi euro-russi, nel XXI secolo nemico esistenziale.

I giovani protagonisti delle sommosse arabe chiedono ben altro: non un nemico esistenziale (lo hanno avuto per decenni: erano l'America e Israele), ma costituzioni pluraliste, leggi uguali per tutti, separazione dei poteri. Non è detto che riescano: il dispotismo li minaccia, cominciando da quello integralista. Ma per difenderci dal demone di Frankenstein non possiamo sperare che in loro.

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