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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - Il Foglio Rassegna Stampa
19.05.2010 Chomsky, il linguista odiatore di Israele
Due ritratti: di Fiamma Nirenstein, Giulio Meotti

Testata:Il Giornale - Il Foglio
Autore: Fiamma Nirenstein - Giulio Meotti
Titolo: «Chomsky attacca Israele ma fa l’amico dei dittatori - Il prediletto del diavolo»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 19/05/2010, a pag. 14, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Chomsky attacca Israele ma fa l’amico dei dittatori ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "Il prediletto del diavolo".

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Chomsky attacca Israele ma fa l’amico dei dittatori "


Fiamma Nirenstein

Ok, sia che l’ordine provenisse dall’alto o che si sia dato troppo da fare uno di quei giovanotti che al confine di Israele stanno sempre spasmodicamente attenti a chi entra (magari questo era uno studente che aveva letto i libri del professore), sarebbe stato meglio che il professore del Mit (Massachusetts Institute of Technology) Noam Chomsky fosse andato a tenere la sua conferenza a Bir Zeit, Ramallah. Chi lo avesse ascoltato lo avrebbe pleonasticamente applaudito con frenesia quando avesse detto che Israele è uno stato di apartheid, una colonia americana, sostanzialmente nazista, e avrebbe battuto le mani ancora più forte quando avesse sostenuto che Hamas è un’organizzazione non solo legittima, ma anche indispensabile per la pace in Medio Oriente.

Chomsky lo dice, lo scrive, lo ripete senza sosta, e quindi impedirgli, domenica, di avviarsi attraverso Israele sulla strada per Ramallah (Netanyahu nega, per la cronaca, di averlo mai ordinato) gli ha solo consentito di ripetere al mondo che Israele è un Paese totalitario e razzista - anzi, stalinista - e di avere una grande eco in tutto il mondo. Non a caso si riporta purtroppo, che Chomsky è «uno degli autori viventi più citati», che rimbalza di sito estremista in sito estremista, che se lo bevono i professorini di sinistrissima e gli islamisti in galabya. Stavolta lo ha difeso tutta l’opinione pubblica mondiale. Non c’è telegiornale o quotidiano (il Teheran Times si è dato molto da fare, ma anche tutti i giornali israeliani o americani) che non abbia posto la grande questione della libertà di espressione. E hanno ragione: Chomsky aveva diritto di andare a raccontare ai palestinesi tutte le sue fumisterie.

Ma se per un attimo valesse un principio di verità, allora diremmo che quelle di Chomsky non sono mai state semplicemente opinioni, ma feroci, infiammatori proclami politici tesi a spingere gli animi alla violenza innanzitutto verso il suo proprio Paese, gli Stati Uniti, e in secondo luogo verso il suo popolo di origine, quello ebraico.

Se ne guardate la foto di colto ottantenne, così magro, ispirato, elegantemente casual anche quando abbraccia (il 26 agosto del 2009) Hugo Chavez che cita dottamente il suo libro di odio antiamericano «Hegemony or survival» e gli dice furbo: “Noi abbiamo optato per la sopravvivenza, come ci suggerisce qui uno dei più grande difensori della pace, uno dei più grandi pionieri di un mondo migliore”, dopo, per capire chi è il professore, dovete ascoltare le sue parole: «È facile scrivere... Ma è difficile creare un mondo migliore, ed è così eccitante visitare il Venezuela e poter testimoniare che un mondo migliore è stato creato».

Per lui il Venezuela è migliore perché si contrappone oggi in prima fila all’odiato, feroce imperialismo americano (Chomsky ce l’ha anche con Obama); ma è solo una delle sue ultime passioni, insieme all’Iran e a Hamas: prima ha tenuto per tutti quelli che l’America ha combattuto, per ogni totalitarismo e terrorista sul campo. Il regime comunista sovietico, la Cina di Mao, il regime Cubano, i vietcong, i terroristi islamici... Naturalmente oggi è un fan della corsa al nucleare dell’Iran, che ritiene legittima e doverosa («L’Iran è percepito come una minaccia perché non ha ubbidito agli ordini degli Usa... Militarmente la sua minaccia è irrilevante»).

Gli piacciono molto anche tutti quelli che ce l’hanno con gli ebrei. No, non ha dimenticato il padre William Chomsky, studioso di Torah che gli impediva di parlare l’yiddish, la lingua degli ebrei della diaspora, e gli impose l’ebraico, suo primo expertise nel campo della linguistica. Tutto quanto il suo cuore e le sue argomentazioni sono dalla parte dei palestinesi («...quelli che si denominano sostenitori di Israele sono di fatto sostenitori della sua degenerazione morale e quindi, alla fine, della sua prossima distruzione»), non ha dubbio che Israele sia uno stato illegittimo e di apartheid, e che non sia altro che la longa manus in Medio Oriente del male assoluto, gli Usa. Ma il suo disprezzo antiebraico non si ferma a Israele: in nome della libertà di opinione la sua difesa del negazionismo di Faurisson assunse toni così spasmodici da indurre gli analisti a indagare su un suo nesso col neonazismo.

Più di tutto resta stupefacente tuttavia la sua reazione, pur dopo decenni di battaglie antiamericane, all’attentato delle Twin Towers: purtroppo ebbe immensa diffusione la sua teoria che l’America se l’era voluta, che qualsiasi cosa Bin Laden avesse fatto, era una risposta alla ben peggiore criminalità americana. Chomsky spacciò la guerra terrorista per una risposta all’attacco di Clinton, nottetempo e a edificio vuoto, alla falsa fabbrica di farmaceutici in Sudan dopo che erano saltate per aria due ambasciate americane in Africa. Il suo accanimento teorico per cercare di impedire ogni reazione morale e pratica all’attacco dell’11 di settembre restano una pietra miliare sulla strada dell’estremismo mondiale, una fonte viva di continua menzogna che tuttora attecchisce fra i giovani. Sì, è uno scandalo che Chomsky non sia andato a ripeter tutte le sue teorie a Bir Zeit (cui però ha parlato in collegamento). Ma più ancora che si scambi la diffusione delle sue idee per libertà di opinione. www.fiammanirenstein.com

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Il prediletto del diavolo "


Giulio Meotti

Marx. Lenin. Shakespeare. Aristotele. La Bibbia. Platone. Freud. Chomsky. Hegel. Cicerone. Nel celebre indice “The Arts and Humanities Citation”, il famoso linguista e patriarca del dissenso americano viene dopo Freud e prima di Hegel. Noam Chomsky è l’unico vivente a comparire nella lista dei dieci principali riferimenti umanistici di tutti i tempi. Siamo nel cuore dello scandalo Chomsky e della doppia biografia di quello che il Washington Post, con formula icastica, ebbe a definire “eminenza senza ombre”: pioniere scientifico e guru radical, divo e paria, anarchico anticapitalista e borghese di rango, superpacifista e colluso di tiranni e ideologie sanguinarie, nume della mente e icona antiamericana, mandarino raffinato e bastonatore del demi monde. A Chomsky, che compare anche fra i celebri “Modern Masters” di John Lyons, si deve una delle teorie scientifiche più rivoluzionarie del Novecento, da alcuni paragonata perfino a quella della relatività di Einstein. Secondo questa scuola, che si oppone alla linguistica strutturalista e funzionalista, il linguaggio è il risultato di una facoltà umana innata basata su una “struttura profonda”; lo scopo della linguistica è quello di descrivere tale struttura, individuando una “grammatica universale” che possa contemplare tutta la gamma delle variazioni linguistiche umanamente possibili. Le ripercussioni della “rivoluzione chomskiana” sono state profonde e non soltanto nel campo della linguistica, ma anche nella psicologia e nella metodologia della scienza. Chomsky da un lato ha aperto nuove vie in una branca della matematica moderna (la teoria formale dei linguaggio), dall’altro ha riaffermato il carattere mentalistico e astratto (invece che comportamentistico ed empiristico) della psicologia cognitiva e della linguistica. I coniugi Chomsky, Noam e Carol, sono stati una fervida coppia di rivoluzionari del linguaggio che amavano paragonare il proprio lavoro ai “collezionisti di farfalle” (compito della scienza è descrivere, non spiegare). La moglie, scomparsa un anno fa, la linguista Carol Doris Schatz, aveva spiegato le modalità con cui i bambini apprendono il linguaggio nella primissima infanzia. Lei accademica di rango alla Harvard Graduate School of Education, lui guru al celebre Mit del Massachusetts, al punto da essere definito “l’Elvis dell’Accademia”. Tre giorni fa Israele ha negato a Noam Chomsky il visto d’ingresso. L’ottantaduenne accademico, pamphlettista e agitatore di idee era arrivato al posto di controllo del ponte di Allenby, da Amman, in Giordania. Dopo aver attraversato il Giordano, quando è stato il momento di superare i controlli che danno accesso ai Territori palestinesi, le guardie di frontiera israeliane l’hanno invitato a tornare indietro. Sul passaporto c’è scritto “Rifiutato”. E alla sua accusa di “stalinismo” rivolta a Israele ha dovuto rispondere sul New York Times direttamente l’ufficio del premier Bibi Netanyahu. Chomsky era diretto all’Università Bir Zeit, a Ramallah, dove avrebbe dovuto tenere una lezione e le sue parole sarebbero state trascritte e fatte circolare come accade ogni volta che fa il pienone a Manhattan e a Boston. Gli israeliani non gli hanno mai perdonato di aver inneggiato a Hezbollah un mese prima che il movimento terroristico libanese uccidesse due loro soldati e scatenasse la guerra contro Gerusalemme. Si chiama “intelligenza col nemico” e Chomsky ne è da sempre un maestro. Sono lontani i giorni in cui il linguista, esponente della cultura ebraica americana, scandalizzava i compagni di sinagoga affermando il diritto palestinese all’autodeterminazione. Da anni Chomsky è ormai schierato contro i fondamenti stessi d’Israele, facendosi ospitare dai suoi nemici, Hamas e Hezbollah. Le esibizioni di sostegno ai jihadisti libanesi da parte del guru del Massachusetts Institute of Technology potrebbero essere considerate una bizzarria senile, nulla di più che un’ulteriore prova di come la mente geniale di questo famoso scienziato, che ha dato un contributo rivoluzionario alla ricerca linguistica, venga obnubilata dalla sua controversa ideologia politica. Ma gli elogi profusi dal professore alle marionette libanesi di Ahmadinejad, l’idea che i movimenti islamisti siano legittimi movimenti di liberazione, fanno parte a pieno titolo di questa doppia scandalosa autobiografia. Al quartier generale di Hezbollah, a Beirut, il soft spoken Chomsky ha persino abbracciato il segretario generale del movimento, Sayyed Hassan Nasrallah, capo terrorista che i corpi dei soldati ebrei li ha branditi come merce di scambio. Gli argomenti di Hezbollah, ha detto Chomsky, l’uso che fa delle armi sono pienamente “ragionevoli e giustificabili”. Parola dell’intellettuale definito dal Guardian “la coscienza di una nazione”, dal New Yorker “una delle più grandi menti del Ventesimo secolo”, e dal suo biografo ufficiale Robert F. Barsky come qualcuno che “rappresenterà per le future generazioni quello che Galileo, Cartesio, Newton, Mozart o Picasso hanno rappresentato per noi” (in Italia di Barsky è uscito presso Datanews “Noam Chomsky. Una vita di dissenso”). Dalla fine degli anni Sessanta, Chomsky è l’emblema dell’intellettuale impegnato, sempre pronto a denunciare l’imperialismo “sinoamericano” e a chiudere più di un occhio sulle tirannie. E con più di una figuraccia. La difesa del regime genocida di Pol Pot, che fra il 1975 e il 1979 sterminò quasi un terzo della popolazione cambogiana, macchierà per sempre la sua reputazione. Nel giugno del 1977, su The Nation, definiva “distorsioni di quarta mano” le testimonianze giornalistiche sulle condizioni di Vietnam e Cambogia dopo la vittoria dei comunisti. Per Chomsky le “storie fantasiose sulle atrocità comuniste” avevano lo scopo di minare la credibilità di chi si opponeva alla politica estera statunitense. Lui presentava un’immagine idilliaca della situazione cambogiana e minimizzava il numero delle vittime (“poche migliaia”) paragonandole ai collaborazionisti giustiziati dai movimenti di resistenza alla fine della Seconda guerra mondiale. “Il cosiddetto massacro dei khmer rossi – concludeva – è una creazione del New York Times”. Due anni dopo, quando gli orrori non poterono essere più negati, Chomsky disse che gli aspetti negativi del regime andavano bilanciati con “le realizzazioni costruttive”. “Gli aspetti positivi dei khmer rossi…”, scriveva Chomsky in “After the Cataclysm”. Il peggio di sé Chomsky l’ha offerto dopo l’11 settembre. In Italia suoi scritti sono stati fatti circolare da epigoni mediocri come Giulietto Chiesa. E ha ragione Tom Wolfe ad aver liquidato Chomsky come “un nonsense”. “Chomsky è al di là della responsabilità intellettuale”, ha detto Marty Peretz, proprietario e già editor di New Republic. La peggior prova di sé il guru del Mit l’ha data quando ha scritto che i tremila morti dell’11 settembre erano meno gravi dei sudanesi rimasti uccisi in un bombardamento ordinato da Clinton di una fabbrica a Khartoum. Noam Chomsky costituisce un mistero culturale, politico e umano. Il New Yorker lo ha definito “una delle più grandi menti del XX secolo ma anche una delle più odiate”. La storia del linguaggio è stata divisa in B.C. e A.D.: “Before Chomsky” (prima di lui) e “After his Discoveries” (dopo le sue scoperte). Con i suoi abiti da apparatchik socialista, quell’ostentato e snob disinteresse per le cose materiali, Chomsky merita tutta la fama di pioniere del linguaggio. Con il suo primo libro del 1957 “Syntactic Structures” scatenò un terremoto intellettuale. Disse che il linguaggio non era un artificio culturale che esisteva là fuori, nel mondo; è invece parte dello sviluppo umano. Fu bollato come “medievale” e paragonato alla scuola di Port- Royal, che riteneva la grammatica innata e una manifestazione divina. Nei geni di Chomsky, citato persino da Osama bin Laden e definito dal magazine ultraliberal The Nation “l’ebreo che odia se stesso più famoso d’America”, scorre un pezzo d’Europa scampata all’Olocausto. Il padre William è stato un pioniere della lingua ebraica medievale, sfuggito all’arruolamento coatto della Russia zarista. Non si nominava Dio in casa Chomsky, sebbene si rispettasse lo shabbath e le leggi kosher sull’alimentazione. La storia di Chomsky è anche quella di un ripudio ebraico. La madre, arrivata direttamente da uno villaggio lituano e nota insegnante di ebraico, fu autrice di libri per bambini su coraggiosi combattenti ebrei che sfidavano i terroristi arabi nella fondazione d’Israele. Pochi forse sanno che Chomsky è stato attivo in una corrente del sionismo, quella “culturale” che predicava l’avvento di uno stato binazionale di lavoratori ebrei e arabi affratellati in pace. Un sionismo minoritario, utopico e puerile ma ben attrezzato nell’intellighenzia ebraica, con Martin Buber, Hannah Arendt ed Erich Fromm. Questo guru della sinistra radicale, strana specie di anarchico libertario e anticomunista, con la moglie Carol avrebbe trascorso alcuni mesi a lavorare in un kibbutz: “Amavo quella vita, il lavoro fisico, ma mi disturbava l’omologazione ideologica, stalinista”, dirà Chomsky. Da allora il rapporto con Israele, soprattutto dopo la guerra del 1967, ha portato il linguista su posizioni favorevoli allo smantellamento dello stato ebraico e alla collusione con i suoi più spietati nemici. Divulgatore infaticabile (settanta libri e migliaia di articoli) e accademico straordinario (di ruolo al Mit ad appena 29 anni), Chomsky è stato un bambino prodigio. Il primo articolo lo scrisse ad appena dieci anni per un giornale locale ed era dedicato alla guerra civile spagnola. Chomsky, già bastian contrario, parteggiava per i trotzkisti contro gli stalinisti. “La sua è un’analisi marxista vecchio stile: non importa quel che accade, è la classe dominante a trarne vantaggio”, dice da Harvard Nathan Glazer, intellettuale liberal che fu compagno di studi di Chomsky. Norman Mailer, con il quale Chomsky finì in cella durante le marce sul Vietnam, ebbe a definirlo “magro, ascetico, gentile e di un’autorità morale assoluta”. Chomsky fu il primo ad attaccare il padre del neodarwinismo, Burrhus Skinner, capofila del comportamentismo, una forma di riduzionismo antiumanista secondo cui tutto si riduce all’azione dell’ambiente: “Un metodo perfetto che non spiega nulla”, dirà Chomsky scatenando un mare di polemiche. Quando Skinner ideò la cosiddetta “scatola di Skinner”, trasparente e sterile, dove per un anno chiuse come un topo sua figlia Deborah, convinto che le tecniche di condizionamento dovessero applicarsi alla vita quotidiana, Chomsky la bollò come “un campo di concentramento ben funzionante”. La storia avrebbe dato ragione a Chomsky e oggi la teoria skinneriana è ampiamente superata. Uno scimpanzé al quale i ricercatori neodarwiniani cercarono invano di insegnare il linguaggio sarà persino soprannominato “Nim Chimpsky”. “Chomsky ha fatto per la scienza cognitiva quello che Galileo ha fatto alla scienza fisica”, dirà forse con un po’ troppa enfasi Neil Smith, linguista all’University College di Londra. Steven Pinker, collega di Chomsky al Mit e su posizioni opposte alle sue, dice che quella generativa è diventata “la teoria da battere”. Leonard Bernstein avrebbe utilizzato la teoria chomskiana a fini musicali. E dalla sua teoria innatista è emersa persino una nuova scuola: il cognitivismo. La sua condanna del potere dei media come “sacerdozio laico” lo avrebbe inviso al giornalismo mainstream. A differenza degli altermondisti italiani, gli eroi di Chomsky non sono mai stati Lenin e Marx, quanto Adam Smith e Wilhelm von Humboldt. Per Chomsky il vero libero mercato non esiste, c’è invece la collusione di stato e interessi privati. Sorprende leggere nel suo profilo la definizione del postmodernismo francese come un “nonsense”. Non è cosa da poco, considerando che avrebbe bollato Lacan, Derrida e Foucault, icone di molta sinistra blasonata, come “ciarlatani” e “illetterati”. Ma a furia di criticare il sistema, Chomsky è scivolato anche in un grottesco paragone fra gli ufficiali della Cia e i gerarchi nazisti. Restano epocali in ogni caso le sue bastonate agli intellettuali definiti “commissari della mente”. All’origine del suo successo mediatico c’è anche lo stile da patologo della democrazia. Chomsky scrive in maniera ripetitiva e monotona per rendere asettiche e incontrovertibili le accuse che rivolge all’occidente: atrocità, uccisione, omicidio, genocidio, massacro e ancora atrocità, uccisione, omicidio, genocidio, massacro. Così facendo, le parole perdono d’importanza, tutta la scrittura diventa un enorme, tecnicissimo capo d’accusa. Per questo il filosofo Avishai Margalit lo ha chiamato “il contabile del diavolo”. La morale chomskiana è un banalissimo calcolo aritmetico, c’è soltanto questa brutale conta dei morti. Citare oggi il nome Chomsky nelle accademie americane significa suscitare sorrisetti di biasimo e ilarità. Perché Chomsky è rimasto solo a sinistra nella critica radicale del ruolo dell’America. Se negli anni Sessanta trascinava i compagni liberal nella critica sul Vietnam e negli anni Ottanta faceva opinione pubblica sull’America latina defraudata da Washington, oggi gli amici e i seguaci di un tempo lo guardano come un ideologo semplicistico. “Pensavo fosse un uomo esemplare" dice Christopher Hitchens, un figlio della covata chomskiana fino all’11 settembre. “Ma è lunatico”. In un articolo memorabile dal titolo “Of Sin, the Left & Islamic Fascism”, Hitchens definì Chomsky “soft sul fascismo”. A dirigere Dissent, rivista di ultrasinistra che ha sempre ospitato le idee di Chomsky, sarebbe arrivato il filosofo della politica Michael Walzer, uno che avrebbe perfino aperto alla guerra al terrore di Bush. La rottura con il guru era inevitabile. “Chomsky è stato consegnato all’oblio da parte della classe intellettuale d’America”, dice Steve Wasserman, già direttore dell’inserto libri del Los Angeles Times. L’anziano anarchico del Mit continua a condurre la sua vita da middle class benestante a Lexington, nel Massachusetts, mentre l’estate va a trascorrerla a Cape Cod. La creatura più simile a lui è la figlia Aviva, storica dell’America Latina al Salem State College e che con il padre finiva spesso sotto una pioggia di uova marce durante le sfilate pacifiste. Harry, il più giovane dei tre figli, è il meno politico, aspirante violinista che vive a Berkeley e che ha insegnato al padre Noam l’uso del computer (prima faceva tutto a mano). C’è chi dice che la macchia più grave di Chomsky sia stato quell’appello in difesa di Robert Faurisson, negazionista dell’Olocausto e della “menzogna” delle camere a gas. Non perché Chomsky giustificasse il negazionismo, ma perché secondo lui la libertà di parola andava garantita a tutti. Una macchia, per così dire, libertaria. Solo che poi il nome di Chomsky è anche finito in copertina come prefazione a un libro proprio di Faurisson. “O difendiamo il diritto alla libertà di espressione per idee che detestiamo, oppure ammettiamo, se siamo onesti e non cerchiamo scappatoie, di essere d’accordo con le dottrine di Goebbels e di Zdanov”, ha scritto il nostro. “Anch’essi difendevano volentieri il diritto d’espressione per le idee che andavano loro a genio”. Una difesa scandalosa ma in sintonia con l’idea chomskyana dell’accademia come “rifugio dalla politica”. Chomsky sarà per tutta la vita chiamato a giustificare quell’appello su Faurisson. Suoi scritti sono stati persino pubblicati dalla Aram, la casa editrice di Istanbul associata al Pkk, il movimento terrorista curdo. Chomsky fu chiamato in Turchia a testimoniare perché nel libro attaccava duramente le azioni del governo turco contro la minoranza curda. Il processo fu un evento mediatico. Quando Chomsky arrivò a Diyarbakir fu accolto da una massa di donne curde ululanti in suo onore. Il dissenso, d’altra parte, è anche uno star-system. Ma il suo grande retaggio resta la teoria linguistica. E di tanto in tanto si scoprono nuove conferme. Come quando nel 2004 per la prima volta i linguisti osservarono a Managua, piccolo villaggio del Nicaragua, la nascita di una lingua creata non dagli adulti, ma da bambini, partendo da zero, senza basarsi su nessuna lingua precedente. Ma sempre in nome di questa “doppia biografia”, poco lontano da Managua stava conducendo la sua vita ribelle una delle figlie di Chomsky, Diane, che in Nicaragua arrivò per sostenere i guerriglieri sandinisti – ne avrebbe sposato uno – e che dice di essere “diventata una nativa”. Il leader venezuelano Hugo Chávez, consigliando all’Onu la lettura di un libro di Noam Chomsky, ha detto – serio, senza ridere – che il suo più grande dispiacere è di non aver conosciuto il linguista- dissidente prima della sua morte. Gli era sfuggito che il “contabile del diavolo” è ancora in mezzo a noi e non ha smesso di scandalizzare e di esagerare a ottant’anni suonati e con una fedina penale segnata dai numerosi arresti per non aver pagato le tasse in segno di protesta contro il “governo tiranno”. Lo scherzo più brutto lo ha giocato a Chomsky il paradosso moralista. In “Do As I say”, straordinaria galleria di “profili d’ipocrisia liberal”, il saggista Peter Schweizer, che le ha suonate senza paura ai nuovi radical chic, ha rivelato che il pauperista e anarchico Chomsky possiede una casa del valore di 850 mila dollari, che ne ha un’altra da oltre un milione nella placida Wellfleet e che alcuni dei suoi libri e delle sue iniziative sono stati finanziati dal “complesso militare-industriale” (tra cui il Pentagono, definito da Chomsky “l’istituzione più odiosa della terra”). Il cash per una conferenza del guru del Mit schizzò da nove a dodicimila dollari il 12 settembre 2001, quando Noam Chomsky prese a riempire stadi e campus contro “i profittatori della guerra”. In fin dei conti il giudizio migliore su Chomsky è venuto proprio da uno “della famiglia”, Norman Podhoretz. Destini paralleli quelli dei due intellettuali ebrei americani. Non c’è stata polemica culturale che non li abbia visti in prima fila. Quando la beat mania e Chomsky cominciarono a imperversare nei flat del Village e sugli scaffali delle librerie, Podhoretz scrisse un saggio feroce e precoce, in cui li accusava di “nichilismo e barbarie bohèmienne”. Ma il bello di chi vive del proprio dissenso è che raramente viene chiamato a rispondere della propria obliqua idea di verità.

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