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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera-La Stampa Rassegna Stampa
21.06.2009 Iran: come si realizza la repressione. E l'Occidente sta a guardare
Cronache, interviste,analisi di Panebianco,Olimpio,Caretto, Parsi,Quirico, Molinari

Testata:Corriere della Sera-La Stampa
Autore: Angelo Panebianco-Guido Olimpio-Ennio Caretto-Vittorio Emanuele Parsi-Domenico Quirico-Maurizio Molinari
Titolo: «Sangue e morte a Teheran»

Ancora l'Iran in primo piano. Riprendiamo cronache, interviste e analisi dal CORRIERE della SERA e dalla STAMPA, che ci paiono i quotidiani  con i servizi che più si prestano ad essere commentati. Angelo Panebianco, pur con il profilo più basso arrivato con la nuova direzione, muove ad Obama seri interrogativi sulla sua politica, criticata in America non solo dai repubblicani ma anche da buona parte dei democratici. Ecco il suo editoriale:

Corriere della Sera- Angelo Panebianco: " Il dilemma dell'Occidente "

Ciò che è acca­duto ha tutta l'aria di esse­re un salto di qualità irreversibile nel conflitto che oppone l'ala dura del regime iraniano ai riformisti. La manifesta­zione non autorizzata de­gli oppositori è stata af­frontata con la violenza dagli apparati repressivi. Un attentatore kamikaze si è contemporaneamente fatto esplodere presso il mausoleo di Khomeini (e si tratta, come ognun capi­sce, di un fatto di grande impatto simbolico). So­prattutto, Mousavi, il can­didato sconfitto alle ele­zioni per la Presidenza, si è ribellato apertamente al­la Guida Suprema Khame­nei, è sceso in piazza con gli oppositori, si è dichia­rato pronto a morire e ha chiesto l'azzeramento del­le elezioni («i brogli erano pianificati da mesi» ha detto). Non sappiamo co­me finirà questa prova di forza, anche se al momen­to le carte migliori (gli ap­parati della forza, le mili­zie armate) sembrano es­sere saldamente nelle ma­ni di Khamenei e di Ahma­dinejad. Sappiamo però che il mondo occidentale deve ora fronteggiare un terribile dilemma.
Prima che arrivassero le nuove notizie sulla pro­va di forza in atto a Tehe­ran, le difficoltà di fronte a cui si trova l'Occidente erano ben illustrate da una apparente contraddi­zione. Nello stesso mo­mento in cui l'Unione Eu­ropea (con fermezza) e l'Amministrazione Oba­ma (con circospezione) condannavano i brogli elettorali e le violenze del regime contro gli opposi­tori, l'Italia confermava di avere invitato, in accordo con gli Stati Uniti, il mini­stro degli Esteri iraniano Mottaki a partecipare alla conferenza sull'Afghani­stan che si terrà a Trieste, in occasione del G-8, dal 25 al 27 giugno. Cinica re­alpolitik?
No, la contraddizione era figlia di un dilemma autentico. Da un lato, c'è infatti la necessità di assi­curarsi la collaborazione di una potenza regionale del peso dell'Iran per veni­re a capo della guerra in Afghanistan (e per stabi­lizzare l'Iraq). Dall'altro la­to, c'è il fondato timore che l'evoluzione in atto in Iran, la scelta della Guida Suprema Khamenei di so­stenere Ahmadinejad, e la possibile, definitiva, scon­fitta delle componenti ri­formiste, possano irrigidi­re ulteriormente le posi­zioni internazionali del re­gime. Con gravissimi ri­schi per la pace.
Non c'è, al momento, molto che dall'esterno si possa fare per favorire un' evoluzione della politica di Teheran che sia coeren­te con le aspirazioni di li­bertà di tanti iraniani e fo­riera di cambiamenti nel­la politica estera del regi­me. Anzi, come è illustra­to dal dibattito americano (di cui il
New York Times ha dato ieri un ampio re­soconto) è anche possibi­le che un aperto sostegno occidentale, soprattutto americano, agli opposito­ri di Ahmadinejad e di Khamenei possa risultare controproducente, possa essere proprio ciò che ser­ve all'ala dura del regime per gridare al complotto internazionale e sbarazzar­si con la violenza degli op­positori. Ciò spiegherebbe, secondo questa interpretazione, la cautela diplomatica fin qui tenuta da Obama nonostante la netta presa di posizione, quasi unanime, del Congresso a favore degli oppositori scesi in piazza a Teheran. Se la situazione precipita è difficile che Obama possa mantenere a lungo la posizione prudente assunta.
Se, come allo stato degli atti sembra probabile (ma c'è sempre, in questi frangenti, la possibilità di svolte repentine e imprevedibili), il regolamento di conti in atto mettesse completamente fuori gioco le componenti più moderate del regime, la politica estera iraniana diventerebbe ancora più pericolosa di come oggi è.
Finora, gli estremismi di Ahmadinejad erano, a detta degli specialisti di politica iraniana, parzialmente frenati dalla necessità, per Khamenei, di tenere conto dell'equilibrio delle forze fra le diverse componenti del regime. Rotto quell'equilibrio, spostato definitivamente il baricentro verso l'ala dura, sarebbe difficile immaginare una politica estera iraniana meno aggressiva. Tanto più che i fallimenti economici interni richiederebbero, per essere nascosti, una escalation della conflittualità con il mondo esterno. Con ricadute sul conflitto israeliano-palestinese, sull'Iraq e su altri scacchieri.
Nel suo discorso in Egitto di due settimane fa Obama ha proposto al mondo islamico di voltare pagina. Una parte di quel mondo ha accolto con favore l'invito. Ma un'altra parte no.
Quel discorso, pur innovativo, aveva un punto debole. Che succede se gli «uomini di buona volontà» delle diverse civiltà e religioni non riescono a tenere sotto controllo i fanatici e i propagatori d'odio?
L'universo politico (come scriveva il giurista Carl Schmitt) è in realtà un «pluriverso»: oltre che per le possibilità di compromesso lascia sempre spazio per differenze e odi irriducibili. Mentre si offre il dialogo occorre disporre anche di strategie alternative. E' il tema di una discussione che appare assai serrata all'interno dell'Amministrazione americana. Se in Iran la situazione precipita, se la fazione di Ahmadinejad, sostenuta da Khamenei, si sbarazza, anche fisicamente, degli oppositori, Obama dovrà presto dotarsi di qualche carta di riserva.

Guido Olimpio, nel pezzo che segue, racconta come si organizza in concreto una sanguinaria repressione. I vari bracci operativi, i simboli utilizzati per colpire più crudelmente, una polizia del terrore che non ha nulla da invidiare a quella nazista.

Corriere della Sera-Guido Olimpio: " Bastoni, coltelli moto, i volonterosi repressori al servizio degli ayatollah "

Sono i «bravi» del regime. Invece del ca­vallo, usano le motociclette con le quali si spostano da una parte all’altra delle città, si infilano nei cortei, seguono i sospetti. Al po­sto della spada impugnano bastoni, catene e coltelli. Possono portare la barba «d’ordi­nanza » come un buon mullah oppure han­no il volto rasato per mescolarsi ai contesta­tori.
Sono i basiji, i difensori ad oltranza, insie­me ai loro «fratelli maggiori» pasdaran, del potere degli ayatollah. Se c’è da spazzare via un corteo, se c’è da condurre una spedi­zione punitiva all’università, se c’è da im­partire una lezione «ai moderati», la teocra­zia si affida a loro. Perché non hanno dubbi e credono ciecamente a quello che gli è sta­to insegnato nel corso di trent’anni.
I basiji, con gli Ansar Hezbollah, altra mi­lizia veloce di mano e di rasoio, sono nati dopo la rivoluzione del 1979. Anzi, potrem­mo dire che sono i figli prediletti. L’imam Khomeini ne aveva mobilitati a milioni du­rante il terribile conflitto con l’Iraq e li ave­va lanciati in ondate umane contro le trin­cee nemiche. Scene da primo conflitto mon­diale. Aprivano sentieri nei campi minati fa­cendosi saltare per aria, assalivano le posta­zioni dei soldati di Saddam con coraggio, si esponevano senza timori agli attacchi chi­mici. Andavano incontro alla morte con il sorriso, al fianco dei guardiani hanno impedito che il «piccolo Satana» potesse prevale­re e per questo si sono guadagnati l’onore dei leader.
Poi, a conflitto finito, una piccola parte è stata tramutata in forza repressiva. Gli ayatol­lah, non fidandosi della sola polizia, hanno deciso di impiegare i basiji come scudo. E lo hanno perfezionato estendendo la loro pre­senza in modo capillare nell’intero Paese.
Ogni moschea ha un ufficio del movimen­to — che significa «mobilitazione» —, i mili­tanti ricevono salari e benefit (accesso alle università, impieghi) e rispondono agli ordi­ni dei pasdaran. Su quanti siano circolano nu­meri diversi: la propaganda parla di «12 milio­ni », le stime degli oppositori ritengono che siano tra i 500 mila e il milione. I gradi supe­riori dispongono di armi da fuoco mentre la bassa forza si accontenta delle mazze. Ma suf­ficienti a imporre il terrore.
L’altro mezzo che li contraddistingue è la moto. Un simbolo che troviamo nella sto­ria del khomeinismo e dei gruppi sciiti. Nel­l’ 82, in Libano, gli iraniani sono impegnati in una meticolosa attività di proselitismo e per raggiungere i villaggi più remoti crea­no dei piccoli team. Un pasdaran e un mul­lah sulle due ruote. Un sistema poi copiato dall’Hezbollah libanese. E le moto sono ri­comparse in queste ore nelle vie di Tehe­ran: è la cavalleria del regime.
I basiji rivestono per i pasdaran e per la polizia segreta Vevak una perfetta massa di manovra. Li possono far scendere nelle
strade presentandoli come paladini sponta­nei dell’ordine islamista. Oppure si tramu­tano in ferro di lancia per ferire gli avversa­ri. O assumono il ruolo di custodi della mo­ralità punendo — con l’acido o uno sfregio — le donne che a loro giudizio violano i co­dici di condotta.
Se necessario sono disponibili per attivi­tà clandestine e inconfessabili. Ma, all’oc­correnza, indossano i panni degli attivisti politici. Battono i quartieri popolari, mobili­tano le teste calde nelle moschee, girano nelle zone extraurbane per diffondere i va­lori «rivoluzionari». Diverse fonti hanno sottolineato il loro impegno nella campa­gna elettorale del 2005 e nell’ultima sem­pre schierati in favore della componente ra­dicale incarnata da Ahmadinejad. E adesso che la guida suprema Khamenei ha demo­nizzato l’opposizione sono di nuovo pronti a mordere. Perfetti cani da guardia di un po­tere delegittimato.

Se invece vogliamo capire come l'Occidente perderà la partita, sarà sufficiente seguire i consigli dello storico Paul Kennedy, intervistato da Ennio Caretto. Intervenire in aiuto di chi protesta contro la dittatura è una follia, dice Kennedy, si devono esportare solo idee e tolleranza.

Corriere della Sera-Ennio Caretto: L'Occidente esporti solo idee e tolleranza", intervista con Paul Kennedy

WASHINGTON — Secondo lo storico Paul Kennedy — l’autore di Ascesa e declino delle grandi potenze e Il parlamento dell'uo­mo — il contributo che l’Occi­dente può dare all’Iran «è un contributo di idee e di tolleran­za ». Più che cercare d’interveni­re in quella che definisce «la len­ta, dolorosa alba della democra­zia in Iran», l’America e l’Euro­pa, dice lo storico, devono cerca­re di alimentarne i principi che la guidano, la libertà e l’egua­glianza.
Il richiamo di Obama agli ayatollah al rispetto dei diritti ci­vili e la rinuncia alla violenza rientra in questa strategia. Il pre­sidente si è forse esposto ad ac­cuse d’interferenza da parte di Teheran ma, aggiunge Kennedy, «appellarsi all’umanità e alla ra­gione è diverso dal prendere du­re misure».
Finora Obama non è stato troppo attendista? L’Iran non è sull’orlo dell’abisso?
«Credo che sostanzialmente il futuro dell’Iran sia nelle mani del popolo iraniano e che l’Ame­rica abbia un connotato così ne­gativo nell’Islam da rendere con­troproducente delle sue eventua­li iniziative. Storicamente, in si­tuazioni quale questa, i grandi statisti come Bismarck si sono astenuti dal prenderle. Quasi un secolo e mezzo fa, l’Europa dibat­té se intervenire nella guerra ci­vile americana. Ma se lo avesse fatto sarebbe stata una follia».
Potrà però Obama astenersi dall’adottare nuove sanzioni contro Teheran se la situazio­ne peggiorerà?
«Presumo che si aprirà un di­battito al riguardo dentro l’am­ministrazione e con gli alleati. Ma sono del parere che abbia più senso un confronto con un paese come la Corea del Nord che non un confronto con una nazione come l’Iran. Tra l’altro, noi ignoriamo chi abbia davvero vinto le elezioni, se le autorità iraniane siano davvero unite, se lo scontro sia davvero tra le for­ze religiose e quelle secolari co­me sembra. Il mondo iraniano è molto complesso».
La repressione in Iran non neutralizzerà il contributo che l’Occidente può dare al popolo iraniano?
«La repressione ha quasi sem­pre successo fisicamente, ma non intellettualmente. L’Iran è la nazione islamica che ha più studiosi, medici e ingegneri. È un’antica civiltà, ed è capace di cambiamenti per quanto difficili siano. Inoltre il dissenso si avva­le di un medium che qualsiasi dittatura è impreparata ad af­frontare, Internet. Non dimenti­chiamo che il linguaggio degli iraniani riparati in Occidente è secolare, non religioso».
Secondo lei, a Teheran è in corso una rivoluzione?
«Non saprei come definirla. Alle dimostrazioni prima del vo­to mi colpì che i maschi giovani fossero in maggioranza a favore dell’ordine musulmano, e le fem­mine giovani a favore dei cam­biamenti, un fatto che induce al­cuni a parlare di un movimento dei diritti civili, e quindi di un’in­surrezione pacifica. Comunque, è chiaro che l’Iran è in preda a gravi, anzi gravissime scosse. Noi vediamo quelle di Teheran, ma si verificano in altre città, co­me accadde a Marsiglia o Lilla nella rivoluzione francese».
È possibile una sua risoluzio­ne pacifica?
«Gli islamici dicono che se uno azzecca una previsione non è perché è intelligente ma per­ché è fortunato. Tuttavia dubito che le due parti trovino un accor­do. La situazione in Iran mi ricor­da la Guerra dei trent’anni nel­l’Europa del Seicento tra cattoli­ci e protestanti. Sono di fronte due mondi opposti. Il conflitto è appena incominciato e finirà so­lo con la vittoria di una delle due parti».
Attualmente non vincono gli ayatollah?
«Sì, ma credo che dietro le quinte la situazione resti in bili­co. È dalla caduta dello scià trent’anni fa che il potere religio­so non si trovava alle prese con un problema di tali dimensioni. Quanto a lungo potrà tenerlo sotto controllo? Solo la Cina s’il­lude di mantenere sempre lo sta­tus quo. Ma ripeto, nell’età di In­ternet se un paese vuole progre­dire è quasi impossibile fermar­lo ».

Vittorio Emanuele Parsi scrive con chiarezza che l'Iran non deve essere più invitato  al prossimo vertice di Trieste. Se l'Occidente non  ha il coraggio di intervenire, si risparmi almeno la vergogna di invitare il ministro degli esteri di Khamenei. Ma l'inizio del pezzo di Parsi, quando attribuisce la caduta dello Scià ad una sua incomprensione di quanto stava avvenendo, non ci trova d'accordo. Lo Scià perdette il trono, e l'Occidente un paese che stava per entrare nella moderrnità, non tanto per la cecità del suo sovrano, o almeno non solo per quello. Lo Scià fu sconfitto dal cinismo e dalla politica degli interessi messi in atto da un paese europeo, la Francia, che, ospitando Khomeini e orchestrando la sua campagna politica, intendeva creare le premesse per sostituire gli Stati Uniti quale paese "amico" della Persia. Fu questa la carta vincente che portò al potere Khomeini e i suoi mullah, ai quali Reza Pahlavi stava per ridurre l'enorme ricchezza derivata dal possesso dei latifondi. Una riforma che avrebbe modernizzato l'economia persiana e che fallì grazie alla complicità della Francia con la teocrazia che Khomeini annunciava. Oggi, l'Occidente, sta commettendo lo stesso errore.

La Stampa-Vittorio Emanuele Parsi: "  Ciechi come fu lo Scià "

Come nel 1978. Il regime si illude che usando la forza o, per meglio dire, la violenza che dà libero sfogo alla rabbia, riuscirà a prevalere e a sconfiggere il «suo» popolo. Chiunque abbia avuto l’occasione di assistere, 30 anni fa, alla cecità con cui lo scià commentava la rivoluzione non potrà non restare colpito dall’assonanza tra le parole dell’ultimo imperatore e quelle che la Guida Suprema Kahmenei ha pronunciato durante il sermone di venerdì scorso.
Può darsi che maggiore fortuna arrida al duo Khamenei/Ahmadinejad (dove il secondo appare il «puparo» del primo), ma di sicuro né l’uno né l’altro sembrano volersi arrendere all’evidenza che, dopo oltre 30 anni, ogni minima legittimità del regime è tramontata. Ahmadinejad e Khamenei sono riusciti, in meno di dieci giorni, ad affossare il regime, come nessuno dei suoi oppositori poteva anche solo lontanamente sperare di riuscire a fare.
Può darsi che, come accadde per l’Urss nella stagione delle lunga stagnazione brezneviana, che il regime si consumi con estrema lentezza. Ma, di sicuro, la credibilità residua di quel peculiare compromesso inventato da Khomeini tra legittimità popolare e legittimità sapienziale si è ormai esaurita. Come 30 anni fa, le milizie del regime sparano sulla folla. Come 30 anni fa i soldati si ribellano ai comandanti, e la confusione è il tratto più caratterizzante della situazione. Il regime non finirà in una notte, ma la sua fine è probabilmente irreversibile, in un crollo verticale della legittimazione che ricorda il grido del bimbo nella favola di Hans Christian Andersen: «Il re è nudo!».
E il re è davvero nudo, perché dopo il suo vile discorso del venerdì, Khamenei ha chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che, pur di mantenere il suo potere personale e pur di tutelare i corposi interessi politici ed economici che rappresenta, è disposto a tradire quella costituzione che ha giurato di difendere e stringere un patto scellerato con Ahmadinejad e il suo «partito dei reduci». Khamenei, in realtà, rischia di giocare con Ahmadinejad lo stesso ruolo di Hindenburg rispetto ad Hitler nel 1933. La crisi costituzionale in cui Khamenei ha precipitato l’Iran, è paragonabile a quella che si avrebbe in Inghilterra se la regina prendesse parte alla contesa politica per Downing Street, favorendo smaccatamente un candidato e danneggiandone un altro. Questo ha fatto Khamenei, e questo ha ribadito in occasione del sermone del venerdì, consapevole di provocare la folla e di legittimare l'inasprimento della repressione.
Di fronte a ciò che sta avvenendo in Iran, alla violenza omicida di un regime dalla legittimità evanescente, anche il presidente Obama, fin qui prudentissimo e per questo duramente criticato in patria, ha rotto gli indugi, ammonendo il governo iraniano sul fatto che nessuna censura potrà impedire al mondo di vedere che cosa sta avvenendo in Iran. A maggior ragione apparirebbe stonato, oggi più che mai, mentre i morti accertati si contano ormai a decine, insistere nel reiterare l’invito al ministro degli Esteri di Ahmadinejad di partecipare al vertice di Trieste. Le democrazie devono essere disponibili a trattare anche con i regimi non democratici: ma non a qualunque prezzo. Rinunciare a far crollare un regime ostile non implica l'accettazione a trasformarsi nel puntello di governi che non esitano a sparare sui propri cittadini.
Dal punto di vista della comunità internazionale, la domanda è una sola: quale scenario preferiamo tra la rivoluzione khomeinista del 1978 e la rivoluzione ungherese del 1956? Il punto non è se riusciremo a impedire che il regime massacri i suoi stessi cittadini, dopo averli derubati del diritto di voto. Il punto è se lasceremo intendere alla teocrazia iraniana che, qualunque cosa faccia, non pagherà nessuna conseguenza. Non dipende da noi il fatto che Khamenei abbia, consapevole o meno, venduto ad Ahmadinejad quei principi della Repubblica islamica che aveva giurato di difendere. Ma dipende da noi chiarire che ogni violenza compiuta contro il popolo iraniano comporterà un prezzo che il regime non potrà non pagare.

L'islam fondamentalista ha sui nostri media un grande fascino, e nessuno lo rappresenta meglio di Tariq Ramadan. Furbo e scaltro quanto basta, dal suo ricco buen retiro svizzero, conosce bene il nostro lato debole. E' l'estremista più ascoltato dai nostri media, che continuano a presentarcelo come l'uomo del dialogo, persino quando giustifica la repressione del regime teocratico iraniano. Come di fronte a un serpente, l'Occidente del dialogo con le dittature, ne è affascinato, Ramadan sa benissimo come usare il grimaldello del "rispetto reciproco" e con quella chiave riesce ad aprire molte porte.

La Stampa-Domenico Quirico: " Attenti, il regime ha il sostegno delle masse povere ", intervista con Tariq Ramadan.

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Tariq Ramadan è il nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, Hasan al-Banna, il padre del fondamentalismo politico. Al centro di vivaci polemiche in Francia al tempo del divieto del velo negli uffici pubblici, oggi è «visiting professor» di Islamologia all’Università di Oxford. È appena uscito in Francia il libro «L’autre en nous» (Archipel, presto tradotto in Italia per Rizzoli), in cui traccia un vibrante appello al dialogo tra le civiltà, le fedi e le culture. Molti vi hanno letto una svolta del suo pensiero.
Professor Ramadan, secondo lei i cittadini che scendono in piazza in Iran si battono per un Islam più complesso e pluralista? Per la democrazia?
«La situazione è più complessa di questa definizione, non bisogna commettere errori sull’Iran. L’Iran negli ultimi anni ha aperto la via a molti dibattiti nel mondo musulmano, permessi da Khatami e Ahmadinejad. All’estero la gente pensa che ci sia in Iran un grande movimento maggioritario che sostiene e si raccoglie attorno a Mousavi. Ma questo è vero solo nelle grandi città, e siamo molto lontani dal sapere che cos’è successo nelle campagne. Negli ultimi anni i discorsi di Ahmadinejad ruotavano attorno ai temi che più colpivano la sensibilità popolare, tutte le reazioni indignate alle dichiarazioni su Israele hanno avuto un impatto interno enorme. Hanno colpito l’emozione del popolo: ma nelle città, dove la popolazione è molto più critica, non c’è stata la stessa sensibilità alle sue parole. È innegabile che la tendenza verso il pluralismo in Iran non sia a portata di mano. Ma noi, dall’esterno, dobbiamo stare attenti a non sbagliarci sulla dislocazione delle forze in gioco in Iran».
Lei pensa dunque che ci sia veramente in Iran una maggioranza che sostiene Ahmadinejad?
«Sì».
Lei si definisce un musulmano europeo: quale ne è l’identità? «Fondamentalmente, i principi sono quelli dell’Islam, alcuni dei quali sono anche universali. Però la mia cultura è europea. Oggi ci sono milioni di fedeli, uomini e donne, che come me sono di cultura europea. È un certo modo di guardare al mondo, razionale, che, secondo i fondamenti di una fede, potrebbe anche essere considerato critico: un fedele in Europa non potrebbe affidarsi a una fede che non abbia una dimensione critica. Da questo punto di vista, il fatto che esistano critiche è la prova che ormai esse sono ammesse. Ci sono anche elementi legati alla cultura, al gusto, all’arte, a una certa idea dei rapporti interpersonali che compongono una forma specifica, a un modo di essere musulmano, un modo di vivere. Quello oggi lo vedo ovunque in Europa».
Suo nonno ha scritto: «Il futuro è l’Islam». Lei dichiara: «Sono profondamente occidentale». C’è un cambiamento, una contraddizione?
«No, c’è il tempo, la storia e anche il fatto che io non sono mio nonno! Lui è nato all’inizio del ‘900 e pensava che per la gente l’avvenire fosse l’Islam e il contributo che poteva dare al mondo. Pensava l’Islam come la soluzione, più che come il futuro. Dal punto di vista personale, la mia soluzione personale resta l’Islam. Dopo di che, la soluzione per tutti risulta essere il dialogo e il rispetto reciproco. È così che vedo le cose».
Come giudica il discorso pronunciato al Cairo da Barack Obama?
«Credo che in questo discorso ci siano una visione e un atteggiamento. La sua visione è diversa da quella del suo predecessore, George W. Bush. È una visione multipolare, Obama considera che di fatto gli Usa lavorano con il mondo e devono partecipare alla marcia di questo mondo che è diventato pluralista. Dopo la sostanza, è anche il tono a essere diverso, molto più umile sul ruolo degli Stati Uniti. Tra l’altro quel discorso non era unicamente destinato al mondo musulmano, com’è stato detto. Era anche indirizzato agli stessi Stati Uniti, Obama voleva dire al suo Paese che deve studiare meglio che cos’è l’Islam. E l’Islam, a sua volta, dovrebbe evitare d’individuare l’essenza dell’Occidente o demonizzarlo. Tutto ciò è un punto di vista interessante. Mancano delle cose, ovviamente, ma si tratta di un discorso di un’ora, quindi di un discorso di politica generale. Ma non è un discorso fondatore».

Il governo iraniano fermi le violenze contro il suo popolo, dichiara Obama, ma non dice che cosa intende fare se Khamenei e la sua banda non gli danno retta. Finora Obama ci ha elargito molte belle parole, ma prima o poi dovranno arrivare i fatti, altrimenti sarà la sua stessa presidenza a vacillare. Gli americani, anche fra quelli che l'hanno votato, cominciano ad avere il sospetto che non sia l'uomo giusto a guidare una democrazia. Gli Stati Uniti non sono un set televisivo o cinematografico, guidare una nazione è altro. Prima se ne rende conto meglio è.

La Stampa-Maurizio Molinari: " Obama alza il tiro, stop alle violenze "

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Il governo iraniano fermi le violenze contro il suo popolo». Al termine di una giornata di riunioni nello Studio Ovale con i più stretti consiglieri, Barack Obama firma un comunicato di undici righe che segna una brusca inversione di rotta rispetto alla prudenza dei giorni scorsi. «Il governo iraniano deve capire che il mondo sta guardando, siamo in lutto per ogni vita innocente perduta», esordisce il testo, chiedendo di «fermare tutte le violenze e le azioni ingiuste contro la gente». Le righe seguenti contengono il più esplicito sostegno ai manifestanti finora giunto dalla Casa Bianca: «Devono essere rispettati i diritti universali di libertà di riunione e libertà di parola, gli Stati Uniti sono al fianco di chi tenta di esercitarli».
La scelta di Obama è di premiare quei consiglieri - come il Segretario di Stato Hillary Clinton e il vicepresidente Joe Biden - che gli avevano chiesto di rispondere ai fatti di Teheran rifacendosi al discorso all’Islam pronunciato in Egitto il 4 giugno, per questo il comunicato continua così: «Come ho detto al Cairo sopprimere le idee non riesce mai a farle sparire». La parte centrale del testo riflette i contatti in atto con le capitali europee, Mosca e Pechino per arrivare ad una posizione comune: «Sarà il popolo iraniano a giudicare le azioni del suo governo», ma «se il governo iraniano cerca il rispetto della comunità internazionale deve prima rispettare la dignità della sua gente, e governare attraverso il consenso non la coercizione». Come dire, la repressione isolerà il regime di Teheran nel mondo. Le ultime righe sono una sorta di firma personale di Obama perché contengono una citazione di Martin Luther King, il leader delle battaglie per i diritti degli afroamericani a cui il presidente si richiama spesso: «Martin Luther King una volta disse che "L’arco della morale universale è lungo ma tende verso la giustizia". Lo credo. Lo crede la comunità internazionale. Siamo testimoni che il popolo iraniano crede in questa verità».
A spingere il presidente ad alzare i toni nei confronti di Alì Khamenei sono state le informazioni raccolte dall’intelligence sulle violenze in atto da parte del regime, che fanno temere un pesante bilancio di sangue. A far trapelare l’opinione prevalente a Washington è Karim Sadadpour, l’analista di affari iraniani della Fondazione Carnegie, secondo il quale «siamo arrivati al punto dove qualsiasi cosa avverrà è difficile prevedere un ritorno alla situazione precedente» perché «i manifestanti stanno violando le sacre linee rosse del regime, mettendo in dubbio il Velayat-i-Faqih, il principio della superiorità dei giuristi islamici sul quale l’ayatollah Khomeini creò l’attuale sistema nel 1979». Per Daniel Byman, politologo della Brookings Institution, «l’alternativa è fra una repressione stile-Tiananmen e la presidenza di un Mousavi che potrebbe tentare di riformare la Repubblica Islamica emulando ciò che fece Mikhail Gorbaciov in Unione Sovietica».
Mentre lo Studio Ovale rendeva pubblico il monito a Khamenei fuori la Casa Bianca centinaia di iraniani-americani protestavano contro la repressione a Teheran mentre la California del Sud si sta rivelando uno dei maggiori centri di sostegno al movimento dell’«onda verde» di Mousavi. A Los Angeles infatti hanno base numerose tv e radio in lingua persiana che ricevono dall’Iran notizie sulle manifestazioni e le ritrasmettono verso Teheran, al fine di garantire alla popolazione locale le informazioni che il regime sta censurando. Channel One Tv, diretto da Shahram Homayoun, raccoglie foto e filmati messi dai manifestanti su Twitter e li trasmette via satellite 24 ore su 24. La stazione radio Krsi riceve migliaia di email, che legge poi in diretta agli ascoltatori. La mobilitazione massiccia di una comunità di oltre mezzo milione di esuli genera anche iniziative sofisticate: Channel One Tv ha spedito per posta migliaia di penne-telecamera stile-James Bond chiedendo agli iraniani di «usarle per mandarci immagini».

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