venerdi 29 marzo 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
25.04.2009 Iraq: secondo attentato kamikaze della settimana
Cronaca e analisi di Guido Olimpio, editoriale dal Foglio, intervista di Cecilia Zecchinelli a Marina Nemat

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Guido Olimpio - Cecilia Zecchinelli - La redazione del Foglio
Titolo: «Bagdad, strage di sciiti Due donne kamikaze -L’Iran entra nel grande gioco: il piano per aiutare i 'fratelli'- L’America sta perdendo l’Iraq - Marina, torturata a Evin: 'Non restiamo in silenzio'»

Ieri un altro attentato kamikaze a Bagdad. E' il secondo della settimana. Riportiamo da pagina 15 del CORRIERE della SERA di oggi, 25/04/2009,  la cronaca di Guido Olimpio dal titolo " Bagdad, strage di sciiti Due donne kamikaze ", la sua analisi dal titolo " L’Iran entra nel grande gioco: il piano per aiutare i 'fratelli' " sul ruolo che i pasdaran iraniani stanno assumento in Iraq. Da pagina 3 de Il FOGLIO, l'editoriale dal titolo " L’America sta perdendo l’Iraq ". Sull'Iran e sul carcere di Evin, riportiamo da pagina 15 del  CORRIERE della SERA l'intervista di Cecilia Zecchinelli a Marina Nemat dal titolo " Marina, torturata a Evin: «Non restiamo in silenzio»      ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Bagdad, strage di sciiti Due donne kamikaze "

WASHINGTON — La fabbrica di morte irachena ha ripreso a funzionare ad alto ritmo con nuovi attentati. Ieri altri 60 morti a Bagdad, che seguono gli 80 di giovedì. Un bilancio al quale vanno aggiunti almeno 240 feriti. I terroristi, ancora una volta, si sarebbero affidati alle donne-bomba. Una coppia si è mescolata ai pellegrini sciiti, molti dei quali iraniani, raccolti nella moschea dedicata all’imam Khadum. Quindi hanno attivato gli ordigni. Per la polizia indossavano delle cinture esplosive, ma altre fonti hanno fornito una versione diversa. Le cariche, molto potenti, erano contenute in un paio di borsoni e innescate da una granata. Per i fedeli non vi è stato scampo.
La tattica ricorda quella usata nella giornata di giovedì, segnata da una serie di attacchi terroristici suicidi.
Almeno in un episodio l’attentatrice era una donna. Per destare meno sospetti — hanno sostenuto le autorità— teneva per mano un bambino. Un particolare che non deve sorprendere.
Da tempo i militanti usano i minori per poter aggirare le misure di sicurezza.
L’offensiva è stata accolta con molta preoccupazione dal Pentagono in quanto segnala una ripresa della violenza in grande stile. Attacchi che colpiscono soprattutto la comunità
sciita nell’intento di riaprire la guerra civile. E sfruttano le tensioni tra il governo e le milizie tribali sunnite, decisive in questi mesi nella repressione del terrore. Commentando gli ultimi sviluppi, il generale David Petraeus ha rivelato che in quattro recenti attacchi i kamikaze erano tunisini. Militanti reclutati da una delle molte filiere operanti all’estero e che riforniscono di volontari i gruppi estremisti. Negli ultimi due anni sembrava che il flusso si fosse ridotto, ma evidentemente in vista di un ripiegamento americano i qaedisti vogliono riaffermare la loro presenza e dimostrare che non sono stati sconfitti. Infine il mistero Al Bagdadi, presunto leader di Al Qaeda in Iraq. Dopo l’annuncio del suo arresto, non sono arrivate conferme ufficiali e gli stessi portavoce americani rimangono piuttosto prudenti sulla sua cattura.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " L’Iran entra nel grande gioco: il piano per aiutare i fratelli' "

WASHINGTON — Gli sciiti in Iraq sono sotto il tiro degli estremi­sti sunniti. Agguati, esplosioni, azioni suicide eseguite quasi sem­pre dai qaedisti. A Teheran seguo­no con attenzione gli spasmi di violenza che coinvolgono la comu­nità amica e i simboli della fede sci­ita. Moschee, santuari, luoghi ve­nerati. Un’offensiva che potrebbe estendersi con l’annunciato disim­pegno americano. Gli iraniani so­no ansiosi di vedere il giorno in cui gli Usa leveranno le tende. Ma intanto pensano al futuro.
Pazienti, lungimiranti, bravi nel «cucire» rapporti, gli ayatollah pre­parano le loro carte. La Guida su­prema, Alì Khamenei, ha, infatti, varato il «piano Iraq» e lo ha affida­to a quelli che il suo predecessore, Khomeini, chiamava il sangue del­la rivoluzione. I pasdaran. Un’ope­razione iniziata da pochi mesi con l’afflusso costante di guardiani del­la rivoluzione e poggiata su quat­tro pilastri. Tutti fondamentali.
I clandestini —
Teheran ha cominciato ad ampliare la presen­za dei pasdaran in Iraq nell’intento di rafforzare i legami con i gruppi armati alleati. In particolare — so­stengono fonti mediorientali nella capitale americana — gli iraniani useranno la «Associazione dei giu­sti » e il «Kataeb Hezbollah». Im­portanti risorse saranno gestite dalla Fondazione dei martiri che ha già inviato mezzo milione di dollari per l’acquisto di armi e ma­teriale. I «clandestini» saranno de­terminanti in caso di scontri e po­tranno dare una mano a tenere a bada gli irrequieti sunniti. Sia la componente moderata (o pragma­tica) sia quella oltranzista, sensibi­le agli appelli dei vertici qaedisti. Solo pochi giorni fa Ayman Al Zawahiri ha ribadito che l’Iran è un avversario.
Le banche –
Gli ayatollah hanno deciso di irrobustire la cooperazio­ne economica e commerciale con gli istituti finanziari iracheni con­trollati da personaggi vicini al­l’Iran. In base a informazioni rac­colte da ambienti dell’opposizione iraniana saranno tre entità ad ac­compagnare la manovra: le ban­che Al Bilad Al Islami, la Rafidain e la Alhuda. Oltre a cementare i lega­mi già forti, il «fronte» economico dovrà adoperarsi per creare socie­tà di copertura, indispensabili per qualsiasi attività politica. Inoltre è prevista l’estensione di un appara­to parallelo per il movimento di de­naro affidato a cambiavalute nelle zone meridionali del paese.
Le società —
Il network economico, unito a quello dei mili­tanti, dovrà poi collaborare attiva­mente all’aggiramento delle san­zioni da parte dell’Iran. Le impre­se, le banche, i singoli individui possono fare da sponda a triango­lazioni e traffici per aiutare i mul­lah. Di nuovo è rilevante, nelle in­tenzioni di Khamenei, il ruolo dei pasdaran e del suo braccio eversi­vo, l’Armata Qods e dei «gruppi speciali».
I politici —
Teheran non nasconde di considerare l’Iraq co­me il cortile di casa. Un alto espo­nente della nomenklatura, Sayed Alì Shirazi, ha di recente dichiara­to che l’Iran ha titoli per interveni­re nelle questioni sciite ovunque si palesino. E l’Iraq è uno dei teatri di interesse. In occasione della visi­ta del presidente iracheno Jalal Ta­labani in Iran — 12 marzo — gli ayatollah hanno messo le carte in tavola senza alcun timore. Vi aiute­remo in modo generoso — è stata la proposta — ma voi dovete la­sciare spazio ai nostri progetti. E dunque le autorità irachene do­vrebbero ignorare quanto combi­nano gli amici iraniani.
I mullah intendono diventare uno «stato nello stato» sfruttando la debolezza delle strutture irache­ne, le rivalità e il particolare qua­dro economico. Società miste, fi­nanziamenti e interventi diretti po­trebbero essere la risposta per ri­spondere alle esigenze del paese e costruire una testa di ponte formi­dabile. A quel punto il «piano Iraq» avrà raggiunto il suo obiettivo.


Il FOGLIO - " L’America sta perdendo l’Iraq "

Nelle ultime tre settimane, quattro volte lo stesso avvertimento: la pace in Iraq non è definitiva e per sempre, è una conquista laboriosa e complessa, va difesa ogni giorno, perché il nemico è il più insidioso di sempre e non dorme mai. E perdere la pax irachena di nuovo sarebbe ancora più terribile, dopo i sacrifici e gli sforzi compiuti dai soldati americani e dagli iracheni nel 2007 e nel 2008. Il generale Petraeus aveva creato un sistema in cui erano gli stessi sunniti a combattere i terroristi di al Qaida e a impedire che arrivassero da fuori a fare macelli di iracheni sciiti. Il premier iracheno Maliki sta facendo invece crollare il sistema: snobba i sunniti e non li integra nello stato, senza che l’Amministrazione Obama faccia su di lui alcun tipo di pressione diplomatica – il nuovo ambasciatore americano è arrivato a Baghdad soltanto tre giorni fa. Il risultato è che i sunniti cessano la loro opera indispensabile di sorveglianza, se pure non arrivano a unirsi ai ranghi dei terroristi, e negli ultimi due giorni un network esterno di tunisini ha colpito con quattro attentati: 120 morti. Ora anche i critici più ideologizzati vedono che la guerra in Iraq non era, come ci raccontavano, quella tra resistenza araba e invasori americani: Obama ha promesso di ritirarsi e i fanatici stranieri vanno avanti con le stragi nei ristoranti e nelle moschee.

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Marina, torturata a Evin: «Non restiamo in silenzio»         "

Marina Nemat aveva 16 an­ni quando fu arrestata, trasci­nata in cella, torturata come «sovversiva comunista» per qualche protesta in classe e un paio di articoli sul giornalino del liceo. Era il 1982, a Tehe­ran. E il lugubre carcere dove rimarrà due anni era Evin, che oggi rinchiude la reporter ira­no- americana Roxana Saberi e molti altri «dissidenti». Mari­na riuscirà a evitare la morte: già davanti al plotone d’esecu­zione fu salvata da una Guar­dia della rivoluzione che l’ama­va, le impose di convertirsi al­l’Islam (lei era ed è cristiana), la sposò. Poi la fuga in Cana­da, un nuovo marito (il suo primo amore), due figli. E nel 2007 un libro: Prigioniera di Teheran (Cairo Edizioni), proi­bito in Iran, tradotto in 23 lin­gue, che presto diventerà un film.
Del caso Saberi si sta par­lando molto in Occidente. Ma dei prigionieri politici ira­niani si sa poco in realtà. Co­me mai?
«Roxana, a cui sono vicina, è un caso speciale: ha doppia nazionalità, è parte del gioco politico tra Iran e Usa, verrà usata, credo, come 'merce di scambio'. Per questo staranno ben attenti a non torturarla né ucciderla. Hanno gli occhi del mondo su loro. Ma in Iran ci sono da decenni migliaia di de­tenuti innocenti, giovanissi­mi, ragazze, ignorati da tutti in Occidente. Solo negli anni 80 i prigionieri politici erano 40-50 mila. E il 90% di loro era­no adolescenti, come me».
Eppure anche lei ha aspet­tato quasi 20 anni per parla­re, nemmeno suo marito sa­peva tutto. Perché?
«È quasi impossibile uscire da simili traumi e parlarne su­bito. È successo alle vittime delle torture in Cile e in Argen­tina, quasi tutte restate in si­lenzio anche con l’arrivo della democrazia. Dopo quei traumi si vive in una bolla, si diventa come un maratoneta condan­nato a correre fino alla morte o a cadere. Io sono caduta. Do­po la morte di mia madre, nel 2000, ho capito che lei non ave­va mai saputo chi fossi io dav­vero. Nessuno mi conosceva. Ho iniziato ad avere incubi, flashback, perfino episodi psi­cotici. Ho capito che il silenzio mi avrebbe ucciso. Mi ero sba­gliata sperando di poter rimuo­vere Evin: era dentro di me. Dovevo farlo uscire».
Cos’è il carcere di Evin per lei e gli iraniani?

«L’orrore in cui entri e spari­sci. L’incubo assoluto. Un tabù nazionale. Se qualcuno soprav­vive e ne esce non ne parla: per paura di tornarci, di rap­presaglie sui propri cari, per­ché è 'nella bolla'. Evin è par­te del sistema dai tempi dello Scià, che lo costruì. Non è cam­biato nemmeno con il modera­to
Khatami: la reporter ira­no- canadese Zahra Kazemi fu uccisa a Evin sotto la sua presi­denza. Ora con Ahmadinejad è peggio. Da poco è morto in cel­la il blogger Omid Mir Sayafi, uno dei tanti».
Qualcosa sta cambiando però: le aperture di Obama a Teheran, le prossime presi­denziali in Iran. Siamo a una svolta?
«Obama porta una nuova speranza, dopo i disastri di Bu­sh. E credo che in giugno il candidato moderato Mir-Hos­sein Mousavi abbia buone chance, la gente ma anche i khomeinisti sono stanchi di Ahmadinejad. Ma perché le co­se cambino davvero ci vuole la caduta del regime, per ora im­possibile. La Storia ci ha inse­gnato che né l’islamismo né il marxismo portano alla demo­crazia. E sarebbe ingenuo illu­derci ».
Che fare, allora? Shirin Ebadi ritiene che sanzioni o, peggio, una guerra sarebbe­ro un disastro per tutti.
«Concordo in pieno. Piutto­sto, l’Occidente dovrebbe alza­re la voce contro ogni violazio­ne dei diritti umani, non solo di cittadini con doppia nazio­nalità. E aiutare la nascita di un’opposizione non ideologi­ca, una vera alternativa. In quanto a me, non posso torna­re in Iran, ho subito minacce, ma resto in contatto con il mio Paese. Sto preparando un secondo libro, insegno. E cer­co altri ex prigionieri di Evin per convincerli a parlare. Ma è difficile. Quasi tutti scelgono di restare nella loro bolla, in si­lenzio ».

Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Foglio, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it
lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT