Ieri un altro attentato kamikaze a Bagdad. E' il secondo della settimana. Riportiamo da pagina 15 del CORRIERE della SERA di oggi, 25/04/2009, la cronaca di Guido Olimpio dal titolo " Bagdad, strage di sciiti Due donne kamikaze ", la sua analisi dal titolo " L’Iran entra nel grande gioco: il piano per aiutare i 'fratelli' " sul ruolo che i pasdaran iraniani stanno assumento in Iraq. Da pagina 3 de Il FOGLIO, l'editoriale dal titolo " L’America sta perdendo l’Iraq ". Sull'Iran e sul carcere di Evin, riportiamo da pagina 15 del CORRIERE della SERA l'intervista di Cecilia Zecchinelli a Marina Nemat dal titolo " Marina, torturata a Evin: «Non restiamo in silenzio» ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Bagdad, strage di sciiti Due donne kamikaze "
WASHINGTON — La fabbrica di morte irachena ha ripreso a funzionare ad alto ritmo con nuovi attentati. Ieri altri 60 morti a Bagdad, che seguono gli 80 di giovedì. Un bilancio al quale vanno aggiunti almeno 240 feriti. I terroristi, ancora una volta, si sarebbero affidati alle donne-bomba. Una coppia si è mescolata ai pellegrini sciiti, molti dei quali iraniani, raccolti nella moschea dedicata all’imam Khadum. Quindi hanno attivato gli ordigni. Per la polizia indossavano delle cinture esplosive, ma altre fonti hanno fornito una versione diversa. Le cariche, molto potenti, erano contenute in un paio di borsoni e innescate da una granata. Per i fedeli non vi è stato scampo.
La tattica ricorda quella usata nella giornata di giovedì, segnata da una serie di attacchi terroristici suicidi.
Almeno in un episodio l’attentatrice era una donna. Per destare meno sospetti — hanno sostenuto le autorità— teneva per mano un bambino. Un particolare che non deve sorprendere.
Da tempo i militanti usano i minori per poter aggirare le misure di sicurezza.
L’offensiva è stata accolta con molta preoccupazione dal Pentagono in quanto segnala una ripresa della violenza in grande stile. Attacchi che colpiscono soprattutto la comunità sciita nell’intento di riaprire la guerra civile. E sfruttano le tensioni tra il governo e le milizie tribali sunnite, decisive in questi mesi nella repressione del terrore. Commentando gli ultimi sviluppi, il generale David Petraeus ha rivelato che in quattro recenti attacchi i kamikaze erano tunisini. Militanti reclutati da una delle molte filiere operanti all’estero e che riforniscono di volontari i gruppi estremisti. Negli ultimi due anni sembrava che il flusso si fosse ridotto, ma evidentemente in vista di un ripiegamento americano i qaedisti vogliono riaffermare la loro presenza e dimostrare che non sono stati sconfitti. Infine il mistero Al Bagdadi, presunto leader di Al Qaeda in Iraq. Dopo l’annuncio del suo arresto, non sono arrivate conferme ufficiali e gli stessi portavoce americani rimangono piuttosto prudenti sulla sua cattura.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " L’Iran entra nel grande gioco: il piano per aiutare i fratelli' "
WASHINGTON — Gli sciiti in Iraq sono sotto il tiro degli estremisti sunniti. Agguati, esplosioni, azioni suicide eseguite quasi sempre dai qaedisti. A Teheran seguono con attenzione gli spasmi di violenza che coinvolgono la comunità amica e i simboli della fede sciita. Moschee, santuari, luoghi venerati. Un’offensiva che potrebbe estendersi con l’annunciato disimpegno americano. Gli iraniani sono ansiosi di vedere il giorno in cui gli Usa leveranno le tende. Ma intanto pensano al futuro.
Pazienti, lungimiranti, bravi nel «cucire» rapporti, gli ayatollah preparano le loro carte. La Guida suprema, Alì Khamenei, ha, infatti, varato il «piano Iraq» e lo ha affidato a quelli che il suo predecessore, Khomeini, chiamava il sangue della rivoluzione. I pasdaran. Un’operazione iniziata da pochi mesi con l’afflusso costante di guardiani della rivoluzione e poggiata su quattro pilastri. Tutti fondamentali.
I clandestini — Teheran ha cominciato ad ampliare la presenza dei pasdaran in Iraq nell’intento di rafforzare i legami con i gruppi armati alleati. In particolare — sostengono fonti mediorientali nella capitale americana — gli iraniani useranno la «Associazione dei giusti » e il «Kataeb Hezbollah». Importanti risorse saranno gestite dalla Fondazione dei martiri che ha già inviato mezzo milione di dollari per l’acquisto di armi e materiale. I «clandestini» saranno determinanti in caso di scontri e potranno dare una mano a tenere a bada gli irrequieti sunniti. Sia la componente moderata (o pragmatica) sia quella oltranzista, sensibile agli appelli dei vertici qaedisti. Solo pochi giorni fa Ayman Al Zawahiri ha ribadito che l’Iran è un avversario.
Le banche – Gli ayatollah hanno deciso di irrobustire la cooperazione economica e commerciale con gli istituti finanziari iracheni controllati da personaggi vicini all’Iran. In base a informazioni raccolte da ambienti dell’opposizione iraniana saranno tre entità ad accompagnare la manovra: le banche Al Bilad Al Islami, la Rafidain e la Alhuda. Oltre a cementare i legami già forti, il «fronte» economico dovrà adoperarsi per creare società di copertura, indispensabili per qualsiasi attività politica. Inoltre è prevista l’estensione di un apparato parallelo per il movimento di denaro affidato a cambiavalute nelle zone meridionali del paese.
Le società — Il network economico, unito a quello dei militanti, dovrà poi collaborare attivamente all’aggiramento delle sanzioni da parte dell’Iran. Le imprese, le banche, i singoli individui possono fare da sponda a triangolazioni e traffici per aiutare i mullah. Di nuovo è rilevante, nelle intenzioni di Khamenei, il ruolo dei pasdaran e del suo braccio eversivo, l’Armata Qods e dei «gruppi speciali».
I politici — Teheran non nasconde di considerare l’Iraq come il cortile di casa. Un alto esponente della nomenklatura, Sayed Alì Shirazi, ha di recente dichiarato che l’Iran ha titoli per intervenire nelle questioni sciite ovunque si palesino. E l’Iraq è uno dei teatri di interesse. In occasione della visita del presidente iracheno Jalal Talabani in Iran — 12 marzo — gli ayatollah hanno messo le carte in tavola senza alcun timore. Vi aiuteremo in modo generoso — è stata la proposta — ma voi dovete lasciare spazio ai nostri progetti. E dunque le autorità irachene dovrebbero ignorare quanto combinano gli amici iraniani.
I mullah intendono diventare uno «stato nello stato» sfruttando la debolezza delle strutture irachene, le rivalità e il particolare quadro economico. Società miste, finanziamenti e interventi diretti potrebbero essere la risposta per rispondere alle esigenze del paese e costruire una testa di ponte formidabile. A quel punto il «piano Iraq» avrà raggiunto il suo obiettivo.
Il FOGLIO - " L’America sta perdendo l’Iraq "
Nelle ultime tre settimane, quattro volte lo stesso avvertimento: la pace in Iraq non è definitiva e per sempre, è una conquista laboriosa e complessa, va difesa ogni giorno, perché il nemico è il più insidioso di sempre e non dorme mai. E perdere la pax irachena di nuovo sarebbe ancora più terribile, dopo i sacrifici e gli sforzi compiuti dai soldati americani e dagli iracheni nel 2007 e nel 2008. Il generale Petraeus aveva creato un sistema in cui erano gli stessi sunniti a combattere i terroristi di al Qaida e a impedire che arrivassero da fuori a fare macelli di iracheni sciiti. Il premier iracheno Maliki sta facendo invece crollare il sistema: snobba i sunniti e non li integra nello stato, senza che l’Amministrazione Obama faccia su di lui alcun tipo di pressione diplomatica – il nuovo ambasciatore americano è arrivato a Baghdad soltanto tre giorni fa. Il risultato è che i sunniti cessano la loro opera indispensabile di sorveglianza, se pure non arrivano a unirsi ai ranghi dei terroristi, e negli ultimi due giorni un network esterno di tunisini ha colpito con quattro attentati: 120 morti. Ora anche i critici più ideologizzati vedono che la guerra in Iraq non era, come ci raccontavano, quella tra resistenza araba e invasori americani: Obama ha promesso di ritirarsi e i fanatici stranieri vanno avanti con le stragi nei ristoranti e nelle moschee.
CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Marina, torturata a Evin: «Non restiamo in silenzio» "
Marina Nemat aveva 16 anni quando fu arrestata, trascinata in cella, torturata come «sovversiva comunista» per qualche protesta in classe e un paio di articoli sul giornalino del liceo. Era il 1982, a Teheran. E il lugubre carcere dove rimarrà due anni era Evin, che oggi rinchiude la reporter irano- americana Roxana Saberi e molti altri «dissidenti». Marina riuscirà a evitare la morte: già davanti al plotone d’esecuzione fu salvata da una Guardia della rivoluzione che l’amava, le impose di convertirsi all’Islam (lei era ed è cristiana), la sposò. Poi la fuga in Canada, un nuovo marito (il suo primo amore), due figli. E nel 2007 un libro: Prigioniera di Teheran (Cairo Edizioni), proibito in Iran, tradotto in 23 lingue, che presto diventerà un film.
Del caso Saberi si sta parlando molto in Occidente. Ma dei prigionieri politici iraniani si sa poco in realtà. Come mai?
«Roxana, a cui sono vicina, è un caso speciale: ha doppia nazionalità, è parte del gioco politico tra Iran e Usa, verrà usata, credo, come 'merce di scambio'. Per questo staranno ben attenti a non torturarla né ucciderla. Hanno gli occhi del mondo su loro. Ma in Iran ci sono da decenni migliaia di detenuti innocenti, giovanissimi, ragazze, ignorati da tutti in Occidente. Solo negli anni 80 i prigionieri politici erano 40-50 mila. E il 90% di loro erano adolescenti, come me».
Eppure anche lei ha aspettato quasi 20 anni per parlare, nemmeno suo marito sapeva tutto. Perché?
«È quasi impossibile uscire da simili traumi e parlarne subito. È successo alle vittime delle torture in Cile e in Argentina, quasi tutte restate in silenzio anche con l’arrivo della democrazia. Dopo quei traumi si vive in una bolla, si diventa come un maratoneta condannato a correre fino alla morte o a cadere. Io sono caduta. Dopo la morte di mia madre, nel 2000, ho capito che lei non aveva mai saputo chi fossi io davvero. Nessuno mi conosceva. Ho iniziato ad avere incubi, flashback, perfino episodi psicotici. Ho capito che il silenzio mi avrebbe ucciso. Mi ero sbagliata sperando di poter rimuovere Evin: era dentro di me. Dovevo farlo uscire».
Cos’è il carcere di Evin per lei e gli iraniani?
«L’orrore in cui entri e sparisci. L’incubo assoluto. Un tabù nazionale. Se qualcuno sopravvive e ne esce non ne parla: per paura di tornarci, di rappresaglie sui propri cari, perché è 'nella bolla'. Evin è parte del sistema dai tempi dello Scià, che lo costruì. Non è cambiato nemmeno con il moderato Khatami: la reporter irano- canadese Zahra Kazemi fu uccisa a Evin sotto la sua presidenza. Ora con Ahmadinejad è peggio. Da poco è morto in cella il blogger Omid Mir Sayafi, uno dei tanti».
Qualcosa sta cambiando però: le aperture di Obama a Teheran, le prossime presidenziali in Iran. Siamo a una svolta?
«Obama porta una nuova speranza, dopo i disastri di Bush. E credo che in giugno il candidato moderato Mir-Hossein Mousavi abbia buone chance, la gente ma anche i khomeinisti sono stanchi di Ahmadinejad. Ma perché le cose cambino davvero ci vuole la caduta del regime, per ora impossibile. La Storia ci ha insegnato che né l’islamismo né il marxismo portano alla democrazia. E sarebbe ingenuo illuderci ».
Che fare, allora? Shirin Ebadi ritiene che sanzioni o, peggio, una guerra sarebbero un disastro per tutti.
«Concordo in pieno. Piuttosto, l’Occidente dovrebbe alzare la voce contro ogni violazione dei diritti umani, non solo di cittadini con doppia nazionalità. E aiutare la nascita di un’opposizione non ideologica, una vera alternativa. In quanto a me, non posso tornare in Iran, ho subito minacce, ma resto in contatto con il mio Paese. Sto preparando un secondo libro, insegno. E cerco altri ex prigionieri di Evin per convincerli a parlare. Ma è difficile. Quasi tutti scelgono di restare nella loro bolla, in silenzio ».
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