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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - Il Riformista - Europa - Il Messaggero Rassegna Stampa
24.01.2008 Bombe per aprire il valico di Rafah: cronache e analisi
rassegna di quotidiani

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - Il Riformista - Europa - Il Messaggero
Autore: Lorenzo Cremonesi - Antonio Ferrari - Francesca Paci - Paola Caridi - Janiki Cingoli - Maurizio Debanne - Eric Salerno
Titolo: ««E' l'ora della tregua: basta missili e fame» - Due Hamas in guerra - Gli ayatollah alla conquista del Cairo - Il tacito accordo tra egiziani e Hamas - Se Gaza scoppia - Vilan: «I caschi blu nella Striscia» - Zayyad: Olmert sgomberi le colonie - Mubarak»

Dal CORRIERE della SERA del 24 gennaio 2008, riportiamo un intervista ad Abraham b. Yehoshua

«Che si accetti la Hudna, il cessate il fuoco! I palestinesi di Gaza non hanno alternative e neppure noi israeliani: il cessate il fuoco, subito, da ora, senza più ritardi». Così Avraham Yehoshua fa un passo indietro, torna a quei mesi dopo la vittoria elettorale di Hamas, nel gennaio 2005, quando l'allora neo-premier palestinese Ismail Haniyeh proponeva la tregua ed Ehud Olmert la rifiutava. «Allora era allora, adesso è adesso, con le file di profughi che da Rafah scappano verso l'Egitto, le immagini della loro povertà disperata sono qui sotto gli occhi di tutti. Ma anche i missili Qassam su Israele e soprattutto la profonda divisione tra Gaza-Hamas e Cisgiordania-Fatah», dice a giustificare una radicale revisione della politica israeliana nei confronti della Hudna. Lo scrittore israeliano è particolarmente contento di parlare con un giornalista italiano. Il nostro Paese resta uno dei mercati principali per i suoi libri. Tra due settimane verrà a presentare la traduzione del suo ultimo romanzo,
Fuoco amico. E va particolarmente fiero del fatto che il suo celebre
Viaggio alla fine del Millennio sarà rappresentato sotto forma di opera a Roma il 7 e 8 maggio prossimi, eseguito dalla compagnia d'opera nazionale israeliana.
Cosa prova vedendo le immagini dei profughi palestinesi, colonne di poveracci affamati dal blocco israeliano che da Gaza vanno in Egitto a cercare cibo?
«Penso che dovrebbero chiedere ai responsabili di Hamas di rendere conto della loro situazione. Se avessero bloccato per tempo i tiri di missili Qassam su Sderot e sulle altre città israeliane del sud tutto questo non sarebbe successo. Gaza non sarebbe affamata sino a questo punto. Non ci sarebbe fuga da Rafah ».
Lei così giustifica il pugno di ferro voluto dal ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak?
«Lo posso capire. Barak ha il dovere di rendere sicura la vita degli israeliani. È inammissibile che una larga fetta delle regioni meridionali del Paese restino a rischio missile. È durato troppo tempo. La situazione si sta facendo intollerabile. Però occorre rilanciare nel contempo una proposta politica. La repressione militare non basta».
E cioè?
«Si negozi immediatamente il cessate il fuoco. Non credo affatto alle argomentazioni di Olmert e dei suoi portavoce, per cui non è possibile un accordo di tregua con chi non ti riconosce. La storia dello Stato ebraico è invece ricca di precedenti proprio in questo senso. Durante la guerra d'indipendenza, nel 1948, l'allora leader David Ben Gurion concluse ben due accordi di cessate il fuoco con i Paesi vicini, che pure non ci riconoscevano e anzi erano determinati a gettare a mare tutti gli ebrei. Altri accordi in questo senso vennero conclusi durante i conflitti del 1967 e del 1973. Persino un leader conservatore come Menachem Begin nel 1981 raggiunse un'intesa con l'Olp in Libano. Dunque tutti i pareri in senso contrario sono soltanto pretesti. La
Hudna si può e si deve fare anche con Hamas».
Olmert sbagliò a non accettare le offerte di Haniyeh tre anni fa?
«Allora era una situazione diversa. C'era un governo di unità nazionale palestinese con Abu Mazen presidente. Noi avevamo tutto l'interesse a rafforzare la posizione del leader dell'Olp, che al contrario di Haniyeh ci riconosce ed è pronto a trattare la pace. Se noi avessimo trattato con Hamas per conseguenza Abu Mazen si sarebbe indebolito ».
E adesso?
«Ormai Cisgiordania-Fatah e Gaza- Hamas sono due entità diverse. Israele deve continuare a negoziare la pace con il Fatah e raggiungere la tregua con Hamas. Poi da cosa nasce cosa. Il cessate il fuoco potrebbe rappresentare il primo passo per creare il dialogo e un fronte moderato all'interno di Hamas».
E se Hamas continuasse a sostenere che non è in grado di controllare i gruppuscoli che sparano Qassam?
«Impossibile, non ci credo. Gaza non è l'Afghanistan, Hamas conosce esattamente chi spara i Qassam, da dove e quando. C'è tutta una serie di professionisti della provocazione, pagati e armati proprio per lanciare i razzi sulle nostre città. Hamas deve poterli fermare. Sono loro i responsabili, su loro ricade la colpa dei poveracci che scappano nel Sinai in cerca di cibo».

L'editoriale di Antonio Ferrari, sempre dal CORRIERE:

È un impressionante esodo di massa, per placare i morsi della fame, quello di almeno 350 mila palestinesi, quasi un quarto della popolazione di Gaza, verso l'Egitto, diventato l'approdo della sopravvivenza, quasi un'oasi di benessere in vendQuesta fuga disperata riassume il dramma del popolo della Striscia, vittima e complice del proprio destino.
Vittima due volte: paga infatti le colpe del vertice di Hamas, padrone di Gaza, che si oppone violentemente alla leadership del presidente Abu Mazen, e che continua a lanciare razzi mortali sulla città israeliana di Sderot; e paga la dura rappresaglia dello Stato ebraico, che con l'embargo del 17 gennaio sta privando Gaza del necessario. Scuole chiuse, ospedali senza elettricità e medicine, penuria di cibo e di acqua.
Vittima, ma anche complice, perché quello sfortunato lembo di terra è diventato una prigione di miseria e di violenza a causa del sostegno offerto a coloro che non soltanto si rifiutano di riconoscere Israele, ma non accettano neppure gli accordi sottoscritti dall'Anp, da Yasser Arafat in poi.
La disperazione ora è diventata incontenibile. All'alba, i palestinesi si sono aperti i varchi servendosi delle bombe, facendo saltare parte del muro che taglia Rafah in due: per metà Palestina, per metà Egitto. Poi, dopo la decisione del presidente Hosni Mubarak di lasciarli entrare temporaneamente perché «hanno fame», il flusso è diventato inarrestabile. Fare dei calcoli è praticamente impossibile, ma alcune migliaia di profughi hanno portato con sé tutto ciò che hanno, nella speranza di trovare rifugio altrove. Per la maggioranza, che non coltiva speranze alternative, esiste soltanto la possibilità di rifocillarsi e tornare a casa, dopo aver svuotato i negozi della Rafah egiziana e della vicina El Arish. Un autentico assalto, in molti casi dominato dagli speculatori, che vogliono rivendere a Gaza, a prezzi quintuplicati, ciò che hanno acquistato, per l'inattesa gioia dei commercianti egiziani.
È chiaro che quanto sta accadendo è insostenibile anche per il Cairo, che sta facendo del suo meglio ma non era preparato ad affrontare questa emergenza. Il problema è umanitario, ma il nodo di questa tragedia collettiva è politico. Da Damasco è partito un segnale che invita i palestinesi alla «riconciliazione nazionale», ma la verità, al di là di sterili dichiarazioni, è che vi sono sempre due Hamas: quella del primo ministro Ismail Hanije, che da Gaza chiede un urgente incontro ad Abu Mazen e al vertice egiziano per fronteggiare l'emergenza, tendendo quindi la mano al presidente, che da tempo chiede elezioni anticipate, vincolando i partiti ad accettare le regole dell'Anp; e quella del falco Khaled Meshal, che vive in Siria, e che continua ad opporsi a qualsiasi compromesso. Quel compromesso necessario alle parti per porre fine a un disastroso «conflitto civile», che umilia le speranze di riavviare il negoziato di pace.
Finché non si scioglierà questo nodo, sarà impossibile trovare una soluzione.
Ora, c'è già chi sostiene che l'odio degli abitanti di Gaza per Israele crescerà, e rafforzerà la linea dura di Hamas. Ma ci potrebbe essere anche l'effetto opposto. Il rigetto della linea dura di Hamas, che ha accresciuto le sofferenze della gente, potrebbe rafforzare proprio il disegno di Abu Mazen, che punta a convincere il popolo della Striscia di poter essere, con il suo realismo e con la sua volontà negoziale, l'unico in grado di offrire a Gaza la speranza di un futuro migliore.
Non resta da sperare che ci riesca.

Il titolo scelto dal CORRIERE per la cronaca di Alessandra Coppola è "Cade il muro di Gaza, fuga in egitto per il cibo" . Su di esso si possono fare due osservazioni: il "muro" in questione può facilmente essere confuso con la barriera di sicurezza israeliana, situata non a Gaza, ma in Cisgiordania.
Inoltre, la tesi che a Gaza ci sia "la fame" è presa semplicemente per buona, senza discussioni. Così anche sulla STAMPA ("Gaza affamata dilaga in Egitto, titolo della cronaca di Ibrahim Refat). L'articolo di Alberto Stabile su REPUBBLICA che descrive un clima di solidarietà umana e di "accordo tra i popoli" dimenticando il contesto strategico e politico degli avvenimenti ( e il popolo israeliano vittima dell'aggressione terroristica che parte da Gaza) è intitolato "Gaza, evasione di massa, in 350 mila fuggono in Egitto", riproponendo l'idea di Gaza "prigione a cielo aperto", senza però spiegare da cosa trae origine la necessità dei controlli alle frontiere. Paola Caridi sul RIFORMISTA loda l'Egitto che fa i suoi interessi nazionali e non quelli di Israele. Gli "interessi di Israele" sono i controlli ai confini per evitare infiltrazioni di armi e di terroristi. Illegittime ingerenze, per Caridi ?

La STAMPA pubblica un importante articolo di Francesca Paci su un retroscena politico degli avvenimenti di Rafah. L'avvicinamento tra il Cairo e Teheran:

Cosa resta sotto le macerie del muro di Rafah, travolto da 17 cariche di dinamite e 350 mila palestinesi? La frontiera, presto o tardi, sarà ripristinata. Neppure Hamas, che ieri ha segnato un punto importante, ha interesse all’esodo di massa da Gaza. Difficile sarà ricostruire il dialogo tra Egitto e Israele, quella «pace fredda» mai accettata dalla piazza araba che resta ancora l’unica chance per la regione. Tra le rare dichiarazioni filtrate dalla Knesset c’è la preoccupazione del ministro degli Esteri Tzipi Livni per «l’impennata inevitabile» del traffico di armi e il transito dei leader di Hamas verso Siria e Iran. Ma Israele guarda oltre. Gaza è lo specchio di una crisi cominciata mesi fa, quando Teheran si è messa a corteggiare il Cairo.
L’inimicizia tra le due capitali ha l’età della rivoluzione khomeinista. Mentre i pasdaran rovesciavano lo Shah nel 1979, il presidente egiziano Sadat firmava la pace di Camp David con l’arcinemico Israele. Una macchia indelebile quanto il sostegno egiziano a Saddam nella guerra Iran-Iraq per Teheran, dove una strada ricorda Khakid Al-Islambouli, l’assassino di Sadat. Invece, secondo un rapporto dell’agenzia americana The Media Line, la situazione sta cambiando.
«L’Iran ha lanciato un’offensiva mediatica nel mondo arabo», conferma John Bolton, ex ambasciatore Usa all’Onu, ospite del Forum di Herzilya. Un’operazione complicata quanto il dialogo tra sunniti e sciiti, che non può escludere la patria delle maggiori scuole coraniche. A dicembre - sottolinea il rapporto - Ali Larijani, allora capo negoziatore iraniano per il nucleare, ha incontrato al Cairo il politburo del presidente Mubarak per offrire assistenza a un eventuale programma atomico.
«La tensione tra Egitto e Usa può aver indotto l’Iran a forzare l’alleanza storica», osserva Ephraim Kam, analista del Jaffee Center for Strategic Studies di Tel Aviv. Durante il tour mediorientale di George W. Bush la tappa a Sharm el Sheik è stata la più breve e la meno calorosa, con l’Egitto che fremeva per l'assegno di 2 miliardi di dollari (1,3 per spese militari) e la Casa Bianca che chiedeva garanzie preventive su riforme e lotta al traffico d’armi. Gli interessi strategici si sono allontanati, sostiene Hala Mustafa, direttore della rivista dell’Al-Ahram Foundation Democracy Review: «L’Egitto deve adottare in pubblico la politica americana ma sta cercando di ricollocarsi nello scacchiere mediorientale sempre più dominato dall’Arabia Saudita, anche attraverso l’asse con l’Iran».
Gli Usa, per ora, stanno a guardare. «Non interferiamo nelle relazioni bilaterali di uno Stato nazionale», commenta Edgar Valesquez, portavoce del Dipartimento di Stato. Washington potrebbe sfruttare l’influenza del Cairo per dissuadere l’Iran dal nucleare. E Israele? La «pace fredda» è surgelata dalla fine del 2007: il governo egiziano non ha perdonato al ministro Livni le accuse di «un pessimo lavoro» nel contrastare il traffico di armi dal Sinai a Gaza. Chi sostituirà, adesso, Shalom Cohen, l’ambasciatore israeliano al Cairo?
L’Egitto non è solo un mediatore nel conflitto israelo-palestinese, ma un giocatore attivo. Da Rafah l’ex premier palestinese Ismail Haniyeh ha già proposto un incontro a tre con il presidente Mubarak e Abu Mazen per legalizzare Hamas e archiviare gli accordi seguiti al ritiro di Israele da Gaza, nel 2005. Cosa farà Mubarak dopo aver permesso ai palestinesi di penetrare nel Sinai per «evitare la crisi umanitaria»? Ingloberà l’intera Striscia di Gaza, come auspica parte dell’intelligence israeliana? L’ipotesi di una fornitura di nuove armi iraniane ad Hamas allerta l’ex consigliere per la sicurezza di Sharon, Zalman Shoval: «L’Egitto ha già aperto Rafah a trafficanti e terroristi durante il pellegrinaggio alla Mecca. Siamo alla fase numero due o è la consueta goffagine egiziana?». Il corteggiamento iraniano è in corso, ammette Robert Pelletreau, ex ambasciatore americano in Egitto. Ma è ancora presto per i fiori d’arancio: «Nella relazione tra il Cairo e Teheran le contraddizioni sono più forti delle affinità. L’Egitto non può sostenere la pressione di un Hamas rafforzato al confine». Anche perché i confini franano, come a Rafah.

EUROPA pubblica un articolo di Janiki Cingoli:

Duecentomila abitanti della città di Gaza, che attualmente conta un totale di un milione e mezzo di persone, si sono riversati in Egitto, attraverso gli ampi squarci aperti nella barriera di confine dai miliziani di Hamas, per acquistare viveri e rifornimenti.
Non si può affermare che la strategia adottata dal governo di Tel Aviv per reagire alla continua pioggia di razzi Kassam su Sderot sia risultata molto felice. Ha coniugato l’estensione degli attacchi e degli assassini mirati contro i leader militari di Hamas e delle altre organizzazioni islamiche alla progressiva escalation nel taglio del carburante e delle altre forniture energetiche, e al blocco degli accessi alle frontiere, con la sola eccezione per gli episodici rifornimenti per i generi di prima necessità.
Questa scelta ha provocato i ripetuti interventi della Unione Europea e degli stessi Stati Uniti, che hanno chiesto che si evitasse di provocare una grave crisi umanitaria.
Ma è risultata ancora più insostenibile per le diverse leadership arabe, sottoposte alla crescente pressione delle loro opinioni pubbliche, e al martellamento delle diverse emittenti arabe. Peggio di tutti sta il presidente Abu Mazen, che deve sempre più tormentosamente giustificarsi davanti ai suoi cittadini, che vedono i negoziatori della Anp abbracciare e stringere la mano agli esponenti di quel governo che assedia Gaza. Tutto ciò non fa che indebolirlo e screditarlo, rendendolo agli occhi della sua gente sempre più simile a quel Generale Lahad, che controllava la parte meridionale del Libano per conto degli israeliani, quando ancora durava la loro occupazione. E per converso rafforza Hamas, che pure affronta crescenti difficoltà per la morsa israeliana.
Non si discute, qui, la gravità e la inaccettabilità della continua pioggia di razzi sulle città di confine israeliane. È evidente che la stessa leadership israeliana non riesce a reggere questa situazione, mentre deve prendere decisioni molto difficili sul piano negoziale e deve fronteggiare la possibilità di una crisi di governo, dopo l’uscita di Liberman e le minacce del partito religioso Shas. E la scelta del pugno forte a Gaza può consentire loro di fronteggiare la pressione crescente cui sono sottoposti. Ma si tratta di una scelta a breve termine, senza prospettiva. Non si può pensare di portare avanti il negoziato, a prescindere dal concreto sviluppo della situazione sul terreno.
Quest’ultima considerazione riguarda anche la situazione in Cisgiordania.
Il negoziato non può procedere, in concreto, se non si realizza un miglioramento della vita quotidiana della popolazione, oggi soffocata dalle centinaia di blocchi stradali, e mentre i cosiddetti avamposti illegali non solo non sono rimossi, ma anzi continuano a crescere e a ramificarsi.
È di tutto questo che si è discusso nel recente seminario riservato, organizzato dal Centro italiano per la pace in Medio Oriente a Milano (con il supporto del ministero degli esteri e della presidenza del consiglio comunale di Milano e la collaborazione della regione Lombardia) e che ha visto la presenza di importanti esponenti israeliani e palestinesi.
Colette Avital, vicepresidente della Knesset e responsabile internazionale laburista, presiedeva la delegazione israeliana, composta da parlamentari di Labour, Kadima, Meretz e del Partito dei pensionati, mentre alla testa di quella palestinese, composta da molti membri del consiglio legislativo palestinese di area Fatah, vi era Fares Kaddoura, già ministro dell’Anp, l’esponente più vicino a Marwan Barghouthi, il leader della seconda intifada detenuto nelle carceri israeliane. Vi è stato accordo sulla necessità che gli israeliani rimuovano gli “insediamenti illegali” (anche se i palestinesi sottolineano che tutti gli insediamenti sono illegali, e rifiutano questa distinzione), blocchino ogni crescita degli insediamenti, rimuovano i blocchi stradali, secondo quanto previsto dalla prima fase della road map. Si è tuttavia concordato, dall’altra parte, che la riduzione dei blocchi stradali deve procedere in parallelo con una maggiore assunzione di responsabilità, palestinese, dei problemi della sicurezza, sia per assicurare il rispetto della legge e dell’ordine nelle loro città, sia per procedere al disarmo delle milizie armate e allo smantellamento delle fabbriche di armi.
Per quanto riguarda i missili Kassam che piovono da Gaza, i rappresentanti palestinesi li hanno decisamente condannati, ma hanno sottolineato come Abu Mazen non è in grado, da solo, di bloccare questi lanci, se non in presenza di un rinnovato accordo interpalestinese con Hamas, che riporti quella formazione all’interno del contesto negoziale, pur senza prevedere una sua diretta partecipazione alla trattativa.
Ciò richiede che Israele non rifiuti questo possibile sviluppo, minacciando di bloccare il negoziato in corso, e comprenda che solo un accordo di quel genere può assicurare la sua stessa sicurezza.
Su questa indicazione c’è stata una sostanziale intesa degli israeliani presenti, al di là delle modalità concrete di attuazione. Unanime è stata la valutazione che si deve evitare una drammatica crisi umanitaria a Gaza. La discussione si è poi focalizzata sulla necessaria creazione di una forza internazionale di interposizione, a partire da Gaza (analoga a quella operante in Libano, a guida italiana).
È impossibile attuarla, si è detto, attraverso una imposizione internazionale, ma solo attraverso un accordo di tutte le parti, sia palestinesi (Fatah e Hamas) che israeliana. E non si deve necessariamente attendere l’accordo finale di pace, ma, se c’è accordo, potrebbe essere attuata anche come misura intermedia e di garanzia per costruire la fiducia.

Un'intervista al parlamentare israeliano del Meretz (estrema sinistra) Avshalom Vilan:

Avshalom Vilan è da tempi non sospetti favorevole al dispiegamento di una forza internazionale d’interposizione nella Striscia di Gaza. «Non c’ è alternativa che non usare una forza militare», dichiara a Europa il parlamentare israeliano del Meretz, formazione di sinistra guidata da Yossi Beilin, firmatario degli accordi di Ginevra del 2003. Ma la forza immaginata da Vilan, che la settimana scorsa ha partecipato in Italia a un seminario organizzato dal Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (Cipmo), non è quella bruta della repressione militare. Sarebbe, piuttosto, una missione da attivare sotto l’egida dell’Onu, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo economico e sociale nella Striscia di Gaza.
Se a suo giudizio la comunità internazionale deve impegnarsi maggiormente a Gaza, cosa invece potrebbe fare Israele per rilanciare il processo di pace?
Il primo passo che dovrebbe compiere il governo israeliano è smantellare i cosiddetti insediamenti illegali, come tra l’altro Olmert aveva promesso a Bush e come richiesto dalla road map.
Gli insediamenti illegali sono però una piccola parte dell’occupazione israeliana in Cisgiordania.
Innanzitutto smetterei di definirli illegali. Lo dico non perché voglio sottrarre Israele dalle sue responsabilità, ma perché la questione è politica e non legale. E dunque la soluzione al problema sarà frutto di un negoziato politico, non di una sentenza di un tribunale. Fatta questa premessa non c’è dubbio che dobbiamo smantellare le colonie, ma per farlo abbiamo bisogno di aiuti economici. Il 50 per cento dei coloni è comunque già pronto ad andarsene, il 70 per cento degli israeliani è favorevole alla soluzione dei due stati.
Secondo quanto sostiene Bush è possibile raggiungere la pace in Medio Oriente entro il 2008.
Bush ha solo un anno di lavoro davanti a sé, ma è comunque molto importante che abbia messo tra le sue priorità il Medio Oriente. Le caratteristiche dell’intesa finale tra israeliani e palestinesi sono ben note: fine dell’occupazione e al tempo stesso piena garanzia di sicurezza per lo Stato ebraico. Su Gerusalemme la questione è più complessa, ma credo si debba riprendere il discorso interrotto a Camp David nel 2000.
Il problema è capire in che modo arrivarci a quest’intesa.
Rimango un convinto sostenitore dei negoziati segreti. Sono gli unici in grado di far avanzare il processo di pace. Il carattere riservato dei colloqui, che garantisce la lontananza dai riflettori dei media e dalle pressioni dell’opinione pubblica, ha reso possibile in passato la costruzione di un dialogo libero e aperto su tutti i punti nodali del conflitto.

E una all'ex ministro palestinese per Gerusalemme:

Per Ziad Abu Zayyad, ex ministro palestinese per Gerusalemme, le colonie israeliane costituiscono «il più grande ostacolo» alla pace. « Tutti gli insediamenti in Cisgiordania sono illegali. Su questo voglio sentire parole nette e chiare dagli israeliani, che fino a questo momento non sono riusciti a sgomberare una sola casa in Cisgiordania», dichiara a Europa.
In che modo l’Anp può aiutare Israele a far rientrare i coloni?
Lo sgombero dei coloni è un problema di Olmert, non nostro. Il premier israeliano farebbe bene a occuparsi dei tanti militari dell’esercito israeliano conniventi con i coloni. Molti soldati infatti risiedono negli insediamenti. Ciò rappresenta un conflitto di interessi gravissimo.
I generali israeliani sostengono però che l’Anp non è in grado di garantire la sicurezza dello Stato ebraico.
Questa storia deve finire. È normale che i generali siano contrari all’adozione di misure che allentino la pressione sui territori. D’altronde vogliono dormire sonni tranquilli. Ma non va dimenticato che i militari rispondono alla politica.
Dunque, se Olmert volesse effettivamente sgomberare gli insediamenti non dovrebbe trovare particolari ostacoli tra le forze armate dello stato ebraico. I blocchi stradali interni alla Cisgiordania non hanno poi niente a che vedere con la sicurezza.
Ci sarà pure qualcosa che i palestinesi possono fare, per esempio concordare un cessate il fuoco.
La violenza nei territori è incoraggiata dall’occupazione.
Detto questo, i palestinesi possono convincere gli israeliani ad andarsene chiedendo loro se vogliono realmente che Israele sia uno stato ebraico. Se la risposta è affermativa, come io credo, non c’è dubbio che devono ritirarsi dai territori. Noi non ci opporremo se alcuni ebrei vorranno rimanere a vivere all’interno di uno stato palestinese, quello che non possiamo più sopportare è la permanenza dei coloni.
Alla luce della conferenza di Annapolis, crede che ci sia uno spiraglio per la pace entro il 2008?
Abbiamo davanti a noi un’opportunità d’oro. Se non raggiungiamo un accordo con Bush, la prossima amministrazione americana, democratica o repubblicana che sia, impiegherà anni prima di mettere a punto una politica chiara per il Medio Oriente.
Raggiungendo un’intesa entro il 2008, aiuteremo il prossimo presidente Usa nel difficile compito di implementare quest’intesa.
Che fare con Hamas?
Nel movimento islamico sono presenti membri oltranzisti che subiscono le pressioni iraniane e siriane, ma anche un’ala moderata che va aiutata a emergere. Scoraggiare il dialogo tra Abu Mazen e questo segmento di Hamas è controproducente.

Eric Salerno sul MESSAGGERO intervista Gerald Seinberg, ex consigliere di Netanyahu.
Sulla forza internazionale, Steinberg nota:

Si ricorda cosa è accaduto  l'anno scorso agli osservatori europei quando mezza dozzina di uomini armati di Hamas si sono avvicinati al confine con Rafah ? Sono scappati in Israele.

Sulla proposta di  tregua:

E' la loro idea di tregua. Fermare gli scontri mentre si armano meglio e si preparano alla fase successiva di lotta. il modello Hamas non può piacere a Israele.

Il titolo della cronaca di Erica Salerno è "Hamas abbatte il muro con l'Egitto"-
Scorretta la scheda "Chi ha alzato il muroi di Rafah" "E' stato innalzato da Israele nel 2003" vi si legge "Per far questo sono state abbattute le case dei palestinesi e sono state devastate le coltivazioni in tutta l'area del muro". Nessun cenno ai traffici di armi attraverso il valico e nei tunnel sotterranei.


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