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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Corriere della Sera - Libero Rassegna Stampa
25.09.2007 La propaganda d'odio di Ahmadinejad alla Columbia University
cronache e commenti

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - Libero
Autore: Maurizio Molinari - Alessandra Farkas - Alessandra Coppola - Renato Brunetta
Titolo: «Ahmadinejad: Israele è razzista - «Offrire un forum ai leader dimostra libertà» - «Ma in facoltà c'è chi l'ammira, molti applausi in sala» Appello contro l'attacco all'Iran: «Dà un pretesto alla repressione» - Fingiamo di credere al tiranno perché non si»

Da pagina 15 della STAMPA del 25 settembre 2007, la cronaca di Maurizio Molinari:

Completo grigio chiaro, camicia bianca e sorriso sulle labbra il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad sfida gli Stati Uniti dal pulpito della Columbia University con l’obiettivo di aprire un dialogo con gli americani basato sui principi in cui più crede: la scienza in mano ai «pii e ai puri», i dubbi sulla veridicità della Shoà e sulla legittimità di Israele, il diritto al nucleare, la sfida all’Occidente.
Ad accoglierlo sul palco dell’aula magna della Columbia University trova il preside Lee Bollinger che, puntando ad allontanare le polemiche della vigilia, lo accoglie con affermazioni dure e schiette: «Lei è un dittatore crudele perché perseguita gli oppositori, non rispetta le donne e fa mettere a morte gli omosessuali, la negazione della Shoà è una vergogna che deve cessare, distruggere Israele significa distruggere anche noi, ci spieghi perché sostiene il terrorismo e vuole ottenere l’atomica».
Di fronte a seicento studenti seduti in sala, Ahmadinejad prima incassa e poi risponde con un rimprovero: «In Iran rispettiamo gli ospiti, quello che lei ha fatto è stato solo leggere degli insulti». Il leader di Teheran non ci sta a essere relegato sul banco degli imputati ma il confronto duro lo attira, esalta. Esordisce nel nome di Maometto misericordioso e quindi disegna il proprio approccio alla conoscenza universale, spiega che la via occidentale è errata e propone il modello della Repubblica Islamica con la «scienza nelle mani dei pii e dei puri» ovvero la sottomissione alla fede in Allah. Ahmadinejad tiene a indicare all’America, il «Grande Satana» delle manifestazioni di Teheran, la via per «uscire dall’oscurità» mostrandosi convinto di poter essere lui a cambiare l’anima dell’Occidente.
Forte di tale determinazione messianica risponde alle domande poste dal rettore come degli studenti con una raffica di provocazioni sotto forma di contro-domande: «Se l’Olocausto è avvenuto perché mettete in prigione gli storici che vogliono fare ulteriori ricerche?», «Perché i palestinesi ne devono soffrire le conseguenze?», «Anziché chiedermi di Israele, interrogatevi sui diritti dei palestinesi», «Ci volete privare del diritto al nucleare?», «Rispondere agli attacchi contro l’Iran significa essere dei terroristi?».
Efficace nella dialettica, abile a catturare l’attenzione accennando termini in inglese e capace di raccogliere applausi nel rimproverare «cattiva ospitalità» al rettore, Ahmadinejad alla fine dell’intervento-show sente quasi di aver espugnato una delle cattedrali americane del sapere ma è proprio allora che scivola sulla domanda sul perché in Iran le donne non hanno pieni diritti e gli omosessuali vengono messi a morte. «Rispettiamo i diritti delle donne come nessun altro Paese» dice, sollevando forti brusii, e poi cade: «In Iran non esistono omosessuali, noi non ne abbiamo». Il boato degli studenti è tale da travolgere la voce del presidente che, per qualche attimo perde la flemma e arrossisce palesemente, quasi ad ammettere che si è accorto di essere caduto in fallo. Tenta un recupero in extremis lamentandosi del «torto subito» a causa del veto alla visita Ground Zero «dove volevo incontrare i parenti delle vittime» ma oramai è tardi, se puntava a mietere consensi facendo leva sui sentimenti ostili a ebrei e Israele ha fatto autogol sui gay.
Quando esce dall’Università nel corteo della sicurezza non può non vedere la selva di bandiere Usa e di Israele portate da migliaia di manifestanti determinati a incalzarlo lungo ogni sosta a New York. Innalzano cartelli con la copertina del New York Post intitolata «Go to Hell» (Vai all’inferno) mentre un clown a stelle e strisce gli grida dietro: «Se ci fosse stato Reagan avresti preso un calcio nel sedere». Ma il danno maggiore ad Ahmadinejad arriva da Arnold Schwarzenegger, il governatore della California che annuncia la totale chiusura di ogni scambio con l’Iran. E oggi Ahmadinejad replica con il discorso al Palazzo di Vetro.

Da pagina 16 del CORRIERE della SERA un' intervista a Rashid Khalidi, direttore del Middle East Institute della Columbia.
L'accademico palestinese,  tra i maggiori propagandisti dell'odio antisraeliano negli Stati Uniti, definisce Ahmadinejad  "un leader demonizzato".
Atteggiandosi a difensore della "libertà accademica"
 , sostiene che l'invito ad Ahmadinejad sia stato parte di un lodevole sforzo per  "offrire un forum ai leader mondiali ".
Se è così, a  quando un invito della Columbia a un leader israeliano ?

NEW YORK — «Dare il microfono a un leader demonizzato dai media americani e osteggiato dalla maggior parte della platea ha dimostrato i benefici della libertà accademica». Parla Rashid Khalidi, palestinese, direttore del Middle East Institute della Columbia.
Un successo, dunque?
«Le risposte civili e il tono pacato di Ahmadinejad hanno contrastato con il tono aggressivo e maleducato del rettore della Columbia che mi ha trovato in completo disaccordo. Come ha giustamente notato il presidente iraniano, non si può invitare qualcuno e poi insultarlo».
Eppure la Columbia aveva concordato l'incontro con la missione iraniana all'Onu.
«Gli iraniani erano stati avvertiti sui contenuti, non certo sul tono gratuito esibito dal presidente Lee Bollinger.
Bollinger ha parlato come il portavoce dell'amministrazione Bush, demonizzando l'Iran, come se stesse preparandosi a dichiarargli guerra. Citando il generale Petraeus e la lotta dell'America al terrorismo, ha strizzato l'occhio alla Casa Bianca».
L'invito è partito da lei?
«No, è stata un'idea della Sipa (School of international and public affairs) e del mio collega del dipartimento di storia Richard Bulliet. Ma anch'io penso che offrire un forum ai leader mondiali sia un'ottima idea».

Alle affermazioni di Khalidi risponde con chiarezza Alan Dershowitz: 

NEW YORK — «Con Ahmadinejad la Columbia ha peccato di faziosità e doppio standard». Si scalda Alan Dershowitz, il docente di Harvard e principe del foro Usa, considerato uno dei massimi difensori dello stato di Israele. «La Columbia vorrebbe farci credere di avere una politica chiara e coerente che l'autorizza ad invitare chiunque, da Hitler a Bin Laden. In verità discrimina in base alla sua preferenza ideologica per i dittatori».
Cosa intende dire?
«Che l'hanno invitato perché molti docenti e studenti della Columbia lo approvano ed ammirano, come si è visto oggi dagli applausi in sala. Gli stessi docenti e studenti non inviterebbero mai uno come me a parlare. E neppure Olmert, Bush o Cheney. Il problema non è la loro lista di invitati ma quella degli esclusi».
Da chi è partito l'invito?
«Dal Professor Rashid Khalidi, amico personale di Edward Said e direttore del Middle East Institute che ha finalità propagandistiche e non certo accademiche.
Alla Columbia molti professori sono pro-Ahmadinejad e la libertà di espressione non esiste».
Pensa che l'incontro aiuterà Ahmadinejad in patria?
«Moltissimo. E possiamo ringraziare la Columbia per averlo legittimato agli occhi di un Iran dove è sempre più in crisi, aiutandolo a rimanere al potere».

Sempre dal CORRIERE un articolo sull'appello promosso dal dissidente iraniano  Akbar Ganji e firmato, tra gli altri, da  Jürgen Habermas, Orhan Pamuk e Umberto Eco contro l'ipotesi   le violazioni dei diritti umani In Iran, ma anche contro  un attacco alla Repubblica islamica.
Sembra che anche tra gli oppositori del regime l'antiamericanismo e il vittimismo nei confronti dell'Occidente non siano malattie del tutto guarite: altrimenti ci si renderebbe conto che è la crescente minaccia iraniana agli stati mediorentali e alla stabilità del mondo a rendere concreto il rischio di una guerra.
E gli appelli sarebbero rivolti contro Ahmadinejad e Khamenei, non contro Bush.

Ecco il testo:


«Ognuno fa il suo lavoro». Il presidente Mahmoud Ahmadinejad a rappresentare Teheran alle Nazioni Unite. Il dissidente Akbar Ganji a scrivere una lettera al segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon perché si esprima contro un attacco all'Iran e al tempo stesso condanni le violazioni dei diritti umani nella Repubblica islamica; in calce, la firma di trecento intellettuali, dal filosofo tedesco Jürgen Habermas, al premio Nobel turco Orhan Pamuk, fino allo scrittore italiano Umberto Eco.
«Ahmadinejad è a New York, e ci siamo pure noi», riassume Ganji al telefono. Giornalista e tenace accusatore del regime degli ayatollah, dalla scarcerazione (a marzo 2006, dopo sei anni in cella) Ganji ha trascorso alcuni mesi a Parigi e ora è negli Stati Uniti. Il 18 settembre è stato ricevuto dal vice di Ban Ki-moon al Palazzo di Vetro e ha colto l'occasione per consegnare la lettera, diffusa ieri.
Attraverso la mediazione del responsabile per l'Iran di Reporters sans frontières Reza Moini, il più celebre dei dissidenti iraniani spiega al Corriere
il senso dell'iniziativa. E il filo che ha tracciato nel testo dell'appello tra la minaccia di un conflitto e la repressione nella Repubblica islamica.
Punto primo: la condanna della guerra. «La rifiutiamo categoricamente — scrive Ganji —. Nessun iraniano vuole vedere ripetersi in Iran quello che è successo all'Iraq o all'Afghanistan». Corollario: la politica miope degli Stati Uniti, che ha finanziato solo istituzioni e media legati a Washington («rendendo facile a Teheran la definizione di mercenari»), ha sostenuto movimenti separatisti. E soprattutto: ha alimentato questo clima di pericolo.
Lo scontro continuo, negli anni, tra le varie amministrazioni Usa e l'Iran, sostiene Ganji, ha «reso le condizioni interne molto difficili per i sostenitori della libertà e dei diritti umani». Perché, ed è il punto secondo: «Sfruttando la minaccia degli Stati Uniti, il regime ha affidato il governo alle forze militari e di sicurezza, ha chiuso tutti i media indipendenti, e sta imprigionando gli attivisti per i diritti umani». Tutti accusati di essere «agenti del nemico». «La minaccia della guerra diventa un pretesto per la repressione — aggiunge Ganji al telefono —. Per questo la prima richiesta è la condanna al conflitto».
È poi, però, il secondo passaggio quello che sta più a cuore al dissidente e agli intellettuali che ha mobilitato: «L'Iran ha firmato numerosi trattati internazionali, anche sui diritti dell'uomo, il segretario generale intervenga per farli rispettare. E chieda il rilascio di tutti i prigionieri politici».
Che risposta si aspetta da Ban Ki-moon e dalla comunità internazionale? «Quale migliore occasione della presenza di Ahmadinejad all'Assemblea generale dell'Onu (oggi, ndr) — risponde Ganji —: potrà chiedergli direttamente il rispetto dei diritti umani. Quanto ai Paesi occidentali e alle organizzazioni internazionali, noi riteniamo che si siano eccessivamente concentrati sul dossier nucleare, perdendo di vista la condizione in cui si trovano gli iraniani».
Quali saranno le tappe successive della campagna? «Il nostro obiettivo è una mobilitazione costante della società civile internazionale che faccia pressioni sull'Iran. Andremo avanti, ci saranno certamente altri appelli e raccolte di firme».
I primi nomi sono già di peso. Ai già citati Habermas, Pamuk ed Eco, si aggiungono il premio Nobel per la Letteratura sudafricano J.M. Coetzee, lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, la collega cilena Isabel Allende, lo storico britannico Eric Hobsbawm. Moltissimi gli accademici statunitensi. Dai più prevedibili Noam Chomsky e Marshall Berman, alla sorpresa del politologo Michael Walzer, che aveva sostenuto la guerra in Iraq.

Da LIBERO, un commento di Renato Brunetta sui rapporti Italia - Iran:

L'Italia è pronta alla guerra con l'Iran? L'interrogativo, a cui devono rispondere Romano Prodi, Massimo D'Alema e la loro coalizione pacifista, è di stretta attualità dopo la svolta della Francia di Nicolas Sarkozy e Bernard Kouchner. Il presidente francese ha recentemente evocato una «alternativa catastrofica» di fronte alla quale si trova l'Occidente mentre Teheran corre verso la bomba islamica: «La bomba iraniana o bombardare l'Iran». Il suo ministro degli Esteri ha detto che occorre «prepararsi al peggio», cioè la «guerra». «Guerra» non significa necessariamente bombe, ma questa ipotesi non può essere esclusa se si vuole che il regime iraniano prenda sul serio l'Occidente. «Guerra» vuole dire soprattutto assumersi la responsabilità di scelte difficili e dolorose, in primo luogo per la stessa Europa: imporre sanzioni unilaterali talmente severe da costringere l'Iran a interrompere il programma di arricchimento dell'uranio, anche se questo significa per l'Occidente pagare un prezzo alto. Una cosa è certa: Prodi, D'Alema e i pacifisti non possono più nascondersi dietro al paravento del multilateralismo e dell'Onu. Le sanzioni imposte dal Consiglio di sicurezza con due risoluzioni del dicembre 2006 e del marzo scorso non hanno prodotto risultati. L'Iran è sempre più vicino alle tremila centrifughe necessarie per produrre combustibile sufficiente a una bomba atomica e i mullah non intendono fare marcia indietro. Anzi, alla vigilia della sessione annuale dell'Assemblea generale dell'Onu, sono venute nuove provocazioni da Teheran: il presidente che vuole cancellare Israele dalla mappa, Mahmoud Ahmadinejad, ha dichiarato che le sanzioni non fermeranno l'Iran e, in una parata militare, ha presentato un nuovo super missile in grado di centrare obiettivi a 1.800 chilometri di distanza. Lo stesso Consiglio di sicurezza, nella sua risoluzione di marzo, aveva promesso nuove sanzioni in caso di mancato arresto del programma nucleare. Invece l'Onu è paralizzato, perché la Russia ha annunciato la sua intenzione di mettere il veto alla terza risoluzione. È in questa chiave che vanno lette le dichiarazioni di Kouchner sulla guerra e la proposta di Sarkozy di sanzioni unilaterali europee. Sanzioni unilaterali di Francia e Germania

Sarkozy ha stabilito che le imprese francesi non potranno più investire in Iran, nonostante questo implichi la perdita di contratti multimiliardari per la Francia. I colossi energetici Total e Gaz de France dovranno rinunciare a uno dei giacimenti di gas più grandi al mondo, quello di South Pars. La banca Bnp Paribas sarà costretta a limitare le sue transazioni finanziarie con l'Iran. La Renault dovrà bloccare i progetti di sviluppo per vendere automobili agli iraniani. Ma non basta. La Francia si appresta a chiedere ai partner europei di applicare sanzioni unilaterali fuori dal quadro dell'Onui. Il Regno Unito e l'Olanda hanno già risposto positivamente, così come la Germania. Anche Berlino, il più importante partner commerciale europeo dell'Iran, ha già cominciato a applicare sanzioni economiche unilaterali: il governo ha appena rafforzato i controlli sulle esportazioni verso Teheran; Deutsche Bank, Dresdner Bank e Commerzbank hanno chiuso i loro sportelli iraniani; il ministero dell'Economia tedesco ha tagliato le garanzie ai crediti alle esportazioni da 3,3 miliardi di dollari nel 2004 a 1,2 miliardi lo scorso anno. Come alle Nazioni Unite, anche nell'Unione europea occorre l'unanimità e, secondo diverse fonti diplomatiche citate dalla stampa internazionale, Italia e Spagna sarebbero contrarie. In effetti, dal governo Prodi non è arrivata nessuna risposta chiarificatrice. D'Alema, si è limitato a dire che l'Italia è pronta a votare la terza risoluzione del Consiglio di sicurezza - e ci mancherebbe: chi, se non Russia e Cina, non vuole quella risoluzione? Il sottosegretario Bobo Craxi ha invece affermato che «un eventuale inasprimento dell'impianto sanzionatorio non favorirebbe il successo del dialogo». Anzi, la Farnesina appoggia un accordo firmato dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica e dall'Iran che, secondo i nostri alleati, è una bufala che serve solo come scusa «per guadagnare tempo» nella corsa verso la bomba dei mullah. Insomma, l'Italia sembra opporsi alla guerra meno violenta che c'è - le sanzioni economiche dure - che, secondo i nostri partner, è l'unica strada per evitare la guerra più violenta che c'è - i bombardamenti - o l'alternativa di una bomba nucleare islamica in grado di distruggere Israele. La linea della Farnesina e gli interessi dell'Eni

Le obiezioni di Prodi, D'Alema e Compagni pacifisti le conosciamo già: ci vogliono le Nazioni Unite, che però abbiamo visto che non funzionano; serve altro dialogo con Teheran. E allora sfatiamo anche il mito della diplomazia a tutti i costi. L'Europa sta dialogando con il regime iraniano da quattro anni senza ottenere alcun risultato. L'Unione europea ha offerto ponti d'oro all'Iran per farlo rinunciare al programma nucleare: aiuti economici, la costruzione di centrali, l'arricchimento dell'uranio in patria ma con un consorzio euro-iraniano, perfino un riconoscimento politico come potenza regionale da parte degli Stati Uniti. La risposta è stata semplicemente «no». O meglio, le risposte sono state: la promessa di distruggere Israele; il finanziamento e l'addestramento dei terroristi di Hamas e Hezbollah per destabilizzare il Libano e i territori palestinesi; la fornitura di armi ai terroristi; gli arresti di studiosi occidentali di origine iraniana con la falsa accusa di fomentare una rivoluzione anti-regime; un atto di pirateria internazionale con l'arresto di marinai britannici che pattugliavano il confine iracheno; una conferenza per negare l'Olocausto; i super-missili che potrebbero raggiungere una parte dell'Europa. L'elenco non è esaustivo e, ovviamente, va aggiunto il programma nucleare in violazione di tutte le norme internazionali. Le scelte iraniane di Prodi e D'Alema si possono comprendere, ma a questo punto non sono più giustificabili. L'Italia ha forti interessi economici in Iran: è il secondo partner commerciale di Teheran e Eni verrebbe fortemente penalizzata da sanzioni unilaterali europee. Ma allora si dica la verità agli italiani: il governo vuole il dialogo a tutti i costi ed è pronto a accettare la bomba islamica perché ne va dei profitti del più grande gruppo energetico italiano. Il calcolo però è di corta veduta. Eni e gli interessi italiani possono prosperare solo se ci sono vere condizioni di pace, mentre l'Iran con la bomba nucleare significa guerra.


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