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Il Giornale Rassegna Stampa
31.03.2024 Le bombe e i caccia F35: Biden arma Netanyahu e prepara il post Hamas
Commento di Fiamma Nirenstein

Testata: Il Giornale
Data: 31 marzo 2024
Pagina: 12
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Le bombe e i caccia F35: Biden arma Netanyahu e prepara il post Hamas»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi 31/03/2024 a pag. 12 il commento di Fiamma Nirenstein con il titolo: "Le bombe e i caccia F35: Biden arma Netanyahu e prepara il post Hamas".

Fiamma Nirenstein
Fiamma Nirenstein

Netanyahu e Biden. Nonostante gli attriti politici, il rapporto fra Usa e Israele è solido. E dall'America arrivano altre 2000 bombe e 25 nuovi F35 che rafforzano la flotta israeliana. E i due paesi discutono assieme su un  dopoguerra senza Hamas. 

La nuvola di bugie che copre Israele ha molti spessi strati, uno è dedicato al rapporto fra USA e Israele, anzi, fra Biden e Netanyahu: logico che i due, due scuole politiche e di pensiero diverse, ognuno con una sua “constituency”, non vadano d’accordo, che a Netanyahu stia a cuore prima di tutto vincere la guerra, a Biden oltre che questo obiettivo (l’ha ribadito più volte anche in questi giorni) un rafforzamento dell’aiuto umanitario. Di fatto l’interesse politico di Biden ha primeggiato quando ha deciso di non bloccare il voto del Consiglio di Sicurezza, e la cosa strana è che per questo, sia Netanyahu ad essere accusato della lite col migliore amico di Israele. DI fatto, la scelta del presidente americano non si capisce perché non è sostanziata da mosse ulteriori che facciano pensare a un abbandono di Israele, o persino di Bibi.

Nel cielo fra gli Stati Uniti e Israele con una decisione di ieri, volano una quantità di armi indispensabili alla guerra, perché gli USA hanno approvato la consegna di più di 2000 bombe, altri proiettili e di 25 F35 che portano la flotta a 75. Voleranno forse oggi anche due ministri, Ron Dermer e Tzachi Ha Negbi, per discutere dell’ingresso a Rafah; il loro viaggio era stato sospeso dopo che lunedì scorso l’America aveva deciso di non porre il veto sulla risoluzione dell’ONU; vola di nuovo il capo del Mossad e riceve ancora una volta indicazioni di flessibilità sullo scambio degli ostaggi. E intanto il ministro della difesa Gallant, tornato dagli USA, porta notizie importanti: un piano in fieri fra Israele e USA per l’istituzione di una forza internazionale di “peacekeeping” a Gaza. Faciliterà la distribuzione di aiuto umanitario (vuol dire finalmente fare la guardia con le armi a tutti camion che già Israele introduce con gli altri stati impegnati in questo); la comporranno tre stati arabi che guideranno le prossime mosse sul terreno: si parla dell’Egitto, degli Emirati Arabi, e il terzo stato è misterioso, ma non saranno né l’Arabia Saudita né il Qatar, troppo segnati politicamente. Le nuove forze arabe sarebbero i depositari della legge e dell’ordine, l’America dirigerebbe il traffico da fuori, e si preparerebbe così il famoso “day after” in cui palestinesi non ostili a Israele dirigerebbero gli affari civili; Israele conserverebbe la supervisione di sicurezza. I Palestinesi, come al solito danno segnali di voler tutto e subito, ovvero la strada aperta mentre ancora Abu Mazen paga i salari ai terroristi, ma con la nomina del nuovo governo palestinese forse si apre a una discussione su quella deradicalizzazione che è indispensabile per Israele.

Dunque, Israele ancora non è entrata a Rafah di fatto osservando, essenzialmente, il cessate il fuoco di Ramadan previsto dall’ONU; ma la seconda parte della risoluzione che chiama (senza mettere i due punti in relazione) alla restituzione degli ostaggi è stata ridicolizzata da Hamas che non ci pensa nemmeno. Di fatto, non c’è una crisi ma una discussione più o meno positiva a seconda dei momenti, Biden è in campagna elettorale e Netanyahu, in questo momento, ha soprattutto lo scopo di combattere e vincere la forza terrorista che occupa Gaza. Tuttavia, Netanyahu fa le sue mosse con l’aiuto umanitario, lo stop di Rafah, la salvaguardia della popolazione civile, molto difficile, considerando che a Biden deve particolare gratitudine per il sostegno sin dai primi giorni di guerra. E lo scopo comune è ribadito: distruggere Hamas. Su questo, non c’è revisione americana. È difficile in realtà capire l’ONU, se si pensa che il Consiglio di Sicurezza aveva il 22 marzo condannato l’attacco terrorista a Mosca e mercoledì l’attacco sucida in Pakistan; adesso, dopo 175 giorni avrebbe potuto almeno essere spinto dagli USA a condannare le atrocità Hamas ha ucciso, violentato, smembrato fra i 1200 e le 1400 persone e rapito 240 ostaggi.

Non è accaduto. Infine: Israele ha dovuto di nuovo intervenire a Shifa, e di fatto vi ha arrestato almeno 500 sospetti membri di Hamas; 170 che hanno sparato sui soldati dai reparti di maternità e di emergenza sono stati uccisi, i dottori e malati sono stati salvaguardati mentre si trovavano di nuovo quantità di armi e strutture dei terroristi. Nessuno nelle istituzioni internazionali ha presentato una mozione per affermare di essere scandalizzato dell’uso dell’ospedale Shifa come roccaforte del terrorismo, mentre nella prima incursione tutto il mondo aveva condannato Israele per avere osato perseguire il terrore dove di fatto era. La colpa, anche nell’ondeggiare dei rapporti con gli USA, è sempre di Israele, mentre le si danno intimazioni che non concordano con i fini che restano comuni: guerra al terrorismo. La vera mossa che manca è quella della chiarezza morale più ovvia: gli USA devono imporre a Hamas di rilasciare gli ostaggi, denunciandone la sfrontatezza internazionale, e legando il proprio intervento umanitario e contro Rafah a questo fine. E non a un’inutile, fatua, finta polemica con Israele che induce il facile applauso filopalestinese.     

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