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Il Foglio Rassegna Stampa
21.11.2015 E adesso chiamatelo nemico
Alain Finkielkraut intervistato da Marina Valensise

Testata: Il Foglio
Data: 21 novembre 2015
Pagina: 4
Autore: Marina Valensise
Titolo: «E adesso chiamatelo nemico»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 21/11/2015, a pag. IV, con il titolo "E adesso chiamatelo nemico", l'intervista di Marina Valensise a Alain Finkielkraut.

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Alain Finkielkraut

Dovevamo vivere il terrore in presa diretta perché Alain Finkielkraut, il filosofo considerato sino alla vigilia del massacro del Bataclan il nemico pubblico numero uno, perdesse il suo statuto di bersaglio privilegiato di una certa intellighenzia radicale e progressista e la realtà nella sua crudele efferatezza prendesse il sopravvento sulle pose dell’immaginazione. Bisognava trovarsi a contare i cadaveri di decine di ragazzi ammazzati per la sola colpa di voler prendere un aperitivo in un bar della Bastiglia o cenare seduti alla terrazza di un caffé o ballare e cantare a un concerto di heavy metal; bisognava trovarsi, com’è successo in questi giorni, a curare negli ospedali corpi dilaniati di centinaia di feriti, ancora in bilico tra la vita e la morte, perché parte dell’opinione pubblica francese si convincesse a cambiare bersaglio polemico, lasciando perdere gli attacchi ad personam, per prendere di petto il nemico vero, l’islamismo radicale nella sua patologia necrofora.

Dovevamo assistere impotenti alla prima strage di massa fra le strade di Parigi, in nome di Allah, che ha colpito alla cieca gli abitanti di una città cosmopolita, capitale della cultura e della libertà dei moderni, faro dell’illuminismo, della secolarizzazione, dei diritti dell’uomo, terra d’asilo per milioni di rifugiati. Dovevamo piangere le centinaia di innocenti, amici di amici, e anonimi passanti, parrucchieri, infermieri, insegnanti, tecnici del suono, giornalisti, musicisti, avvocati, impiegati, studenti, semplici cittadini inermi, abbattuti dal folle tiro al piccione di otto jihadisti fuori controllo, mentre si godevano la vita la sera di un venerdì d’autunno. Fra gli effetti collaterali degli attentati del 13 novembre c’è l’aver messo a nudo la negazione del reale che per anni ha segnato il discorso pubblico francese.

Esplosa la verità, le idee di Finkielkraut e di altri autori banditi come lui dal novero dei presentabili, dei politicamente corretti, rifulgono ora di una luce nuova, mettendo in chiaro gli errori di giudizio e i pregiudizi che ci hanno reso più vulnerabili davanti alla minaccia dell’islamismo radicale. Misera consolazione, anzi abominevole, indecente, vergognosa rispetto ai lutti e all’ondata di cordoglio che scuote Parigi, la Francia, l’Europa intera, eppure meritevole di nota se serve a intercettare un cambiamento nel modo di pensare, e dunque di affrontare un problema la cui urgenza si fa ogni giorno più drammatica. Il primo a segnalare il cambiamento è lo stesso Alain Finkielkraut, il diretto interessato.

L’intellettuale più osteggiato e controverso del giorno è il difensore dell’“Identité malheureuse”, quella della Francia in liquefazione, un paese che ha perso le sue radici, ha dimenticato la propria storia, ha smarrito il gusto della tradizione e annaspa incerto fra nihilismo e indifferenziazione, mentre le élite frastornate dalla morte della cultura, dalla sua riduzione a divertimento e intrattenimento, nel trionfo illimitato della satira grazie agli umoristi che hanno preso il posto del philosophes, non sanno più come reagire. Fresco autore di un’antologia di scritti, “La seule exactitude” (Stock, 302 pagine, 18,50 euro) che raccoglie i suoi interventi negli ultimi due anni, Finkielkraut è diventato all’improvviso l’uomo chiave, la voce discordante, il pensatore non conforme che scrive cose scomode da leggere e meditare. Da quando è esplosa la raffica dei kalashnikov del terrorismo islamico su una folla inerme di parigini spensierati, il suo libro non si può più leggere come il diario di un conservatore apprensivo, l’intellettuale nevrotico fissato con la dissoluzione della società francese.

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Alla luce degli ultimi eventi, appare infatti come un grido d’allarme premonitore contro gli errori di valutazione che hanno contribuito non poco a renderci vulnerabili. Accusato di essere un autore troppo di successo, un colosso ipermediatizzato, un pensatore reazionario, pronto a cavalcare tesi controcorrente e addirittura “nauseabonde” pur di demolire la sinistra progressista – tesi sulla fine della cultura, sulla morte della scuola come vettore di trasmissione dei valori forti e dunque come fattore di integrazione sociale, sulla crisi delle élite in balia del relativismo nihilista che impedisce la stima di sé e innesca il fenomeno dell’autodissoluzione, conseguenza per lui del combinato disposto di relativismo e astrazione universalistica – condannato per partire lancia in resta come un crociato contro la minoranza musulmana, per insistere nel denunciare gli effetti nefasti del multiculturalismo e del comunitarismo, Finkielkraut passa per essere il capofila dei “neoréacs”, così battezzati da un pamphlet di Daniel Lindenberg pubblicato dalle Editions du Seuil nel 2002, nella collana diretta da Pierre Rosanvallon, che predicano idee stantie, seminando zizzania e pessimismo, generando disaffezione politica e populismo.

All’epoca, la lista di Lindenberg comprendeva Michel Houellebecq, Philippe Muray, Pascal Bruckner, Pierre Manent, Marcel Gauchet, Luc Ferry, e persino Pierre Nora e Alain Besançon. Da allora, insieme col giornalista Eric Zemmour, il filosofo Michel Onfray e lo stesso Houellebecq, tutti autori di bestseller venduti in centinaia di migliaia di copie, Finkielkraut è finito di nuovo sul banco degli imputati con l’accusa di flirtare con l’estrema destra. E lui che per definizione è un’anima bella, un ingenuo che aborre la politica politicante, viene tacciato di fungere da battistrada all’avanzata del Fronte nazionale, per aver riesumato il vecchio argomentario dell’estrema destra combattuto negli anni Trenta dall’internazionale antifascista. Inviso quindi ai fautori del politicamente corretto, ai guardiani della doxa radicale e progressista, a quanti non osavano parlare di islam per non ferire la sensibilità dei sei milioni di francesi di religione musulamana, né di Califfato o Stato islamico, preferendo utilizzare l’acronimo Daesh, Finkielkraut, nonostante il largo seguito di pubblico, è stato considerato persona non grata e come tale messo all’indice. Intendiamoci, non ostracizzato, e nemmeno sottoposto a censura, considerate le frequenti apparizioni in tv, dove ha potuto esprimere liberamente le sue idee e argomentare le sue tesi.

Ma è stato bersagliato come nemico da tenere sotto controllo, insultato per le sue idee, ridicolizzato, come “un caso nevrotico” per tesi giudicate improponibili e per la sua presunta ossessione di “connettere la dissoluzione delle nostre società democratiche alla questione dell’immigrazione”, come ha scritto Aude Lancelin sul Nouvel Observateur. “Sono colpito dall’odio di cui i miei libri e la mia persona sono stati oggetto in questi ultimi tempi”, dice al Foglio Finkielkraut commentando gli attentati che hanno sconvolto Parigi. “Sul sito del Nouvel Obs, alla vigilia della strage del Bataclan, è apparso un intervento particolarmente violento di Alain Badiou che si è rifiutato di partecipare al mio programma radiofonico”.

In effetti, nella sua lettera aperta, Badiou, l’ultimo marxista in circolazione, ha accusato Finkielkraut di essere andato ben oltre l’uso del concetto neonazista di stato etico, per scivolare nel discorso insostenibile (“intenable”) dell’estrema destra di sempre, e gli ha rimproverato di non aver saputo “opporre all’universalismo astratto e abietto del mercato capitalistico mondiale” altro che “il culto mortifero delle identità nazionali ed etniche”. Infine, l’ha accusato di aver strumentalizzato la questione ebraica, “fomentando il culto barbarico e omicida di uno stato coloniale” (alias Israele). “Niente di più fuori luogo – commenta ora Finkielkraut – che accusare me di neonazismo, mentre esplode il terrore dell’islamismo radicale. E’ una testimonianza della difficoltà di identificare il nemico. Del resto, il Nouvel Obs è recidivo. Sull’ultimo numero uscito prima degli attentati venivo intronizzato come capo definitivo dei neoreazionari fascisti, capofila del Fronte nazionale. Nella copertina sui “nouveaux intellos de gauche” il mio nome figura dentro un bollino giallo che segnala ‘lo 0 per cento di Finkielkraut, Zemmour e gli altri’. L’ho trovata un’espressione di estrema volgarità, di violenza folle. Alla vigilia degli attentati, il problema per il settimanale della gauche radicale non era l’islamismo radicale, ma Finkielkraut, Onfray e Houellebecq”.

Effetto del marketing pubblicitario, per sostenere una quindicina di intellettuali, per lo più sconosciuti ma tutti impegnati a combattere la povertà, la diseguaglianza, l’immaginario coloniale, il valore economico del capitalismo, per reinventare la pace universale, l’emancipazione, la dimensione politica di sesso e razza, dati non naturali, né culturali, bensì effetto del dominio di una maggioranza, come sostengono i fratelli Fassin? “Non credo, o non solo, semmai il segno di un fenomeno più profondo”, spiega Finkielkraut. “Per anni, si è voluto sostituire la contrapposizione amico nemico, fondamento della politica, con la contrapposizione tra il noi e gli altri. Ma oggi la verità è scoppiata. Non possiamo più invocare l’esclusione, la mancata integrazione, il disagio delle banlieue per lenire il nostro senso di colpa. Il nemico è apparso in tutta la sua inconfutabile evidenza, nei tratti del terrorista che imbraccia un kalashnikov in nome di Allah e apre il fuoco contro una massa di parigini in festa”.

Il Nouvel Obs fra i giornali francesi non è stato l’unico a mettere Finkielkraut sul banco degli imputati. “L’hanno fatto anche Le Monde e Libération, che col Nouvel Obs formano il Triangolo delle Bermuda”, dice Finkielkraut sorridendo. Le Monde infatti ha pubblicato un lungo ritratto a firma di Frédéric Joignot, “che si dava da fare per attaccarmi senza fare la minima allusione al libro, con una foto per di più inquietante”. Su Libération, il ruolo di pm l’ha assunto Laurent Joffrin, il quale da un lato ha concesso a “cet étrange républicain” di aver stilato “il computo di alcuni errori palesi della sinistra, che devono far riflettere tutti i progressisti”, ma dall’altro ne ha stigmatizzato il “corpo di dottrina che serve ormai da armatura al conservatorismo francese ostile all’islam, alla modernità tecnica, e in fin dei conti alla libertà”. E’ anche vero che pochi giorni dopo, lo scrittore Marc Weitzamm è intervenuto a parziale difesa di Finkielkraut, commentando alcuni capitoli centrali del suo libro, e cioè quelli su Heidegger e Levinas, accomunati dal giudizio sull’ebreo precursore del mondo moderno (per il suo sradicamento, la sua erranza, la sua iconoclastia, la ribellione al simulacro della religione), per sottolineare la tensione o la contraddizione in cui cade l’ebreo del Novecento, che offre una smentita alla sua stessa identità, radicandosi in uno spazio e in un tempo definito, tornando alla terra, e sfuggendo così al pregiudizio antisemita.

“E’ vero. Dopo gli attacchi di Joffrin, Weitzamm mi ha fatto rimpatriare nel dibattito delle idee”, commenta Finki. “Eppure resta l’invettiva, l’anatema, la caccia all’uomo. Sono stato accusato di intenzioni putride, di pensiero nauseabondo. Indice di un odio penoso, incredibile e ridicolo verso le idee che professo e ancora più inaccettabile nel momento in cui cresce la minaccia dell’islamismo radicale, e l’odio degli islamisti verso di noi diventa mortale”. Il fatto è che Finkielkraut, una delle ultime teste pensanti in circolazione, è un militante del pensiero controcorrente, dell’anticonformismo, della libertà intellettuale che per essere tale sfiora la provocazione. Un uomo libero, insomma, innamorato delle idee e della precisione che offre la sintassi francese. Ebreo polacco, figlio di due sopravvissuti alla Shoah, è il prototipo dell’assimilazione felice, dell’assimilazione riuscita. Quando parla di scuola,di sconfitta della cultura, sa di cosa parla. E pur essendo stato eletto all’Académie française, dove entrerà accolto da Pierre Nora a fine gennaio con un discorso su Félicien Marceau, non ha niente dell’establishment, della lingua impagliata, perché resta un battitore libero del pensiero, che in Francia per tradizione si manifesta innanzitutto come discorso sul senso comune, sulla vita, sull’influenza che le idee e la cultura hanno sulla società. Per anni ha insegnato Filosofia all’Ecole polytechnique, coltivando la sua singolarità di antimoderno consapevole dagli spalti di France culture e di Rcj, la radio della comunità ebraica e dalle pagine di Causeur, mensile dell’intellighenzia di destra.

Saggista iconoclasta, sensibile alla grande letteratura, capace di riesumare scrittori cattolici come Paul Claudel o moralisti classici come Montaigne, che informa del suo scetticismo moderato molte pagine dell’ultimo libro (“C’est mettre ses conjectures à bien haut prix que d’en faire cuire un homme tout vif”), Finkiekraut resta un eccentrico antimoderno e perciò ultracontemporaneo, pronto a mettersi in gioco per l’unica esattezza che conta ai suoi occhi, e cioè quella di essere puntuali rispetto al proprio tempo, come diceva Charles Péguy, né in ritardo, né in anticipo ma sintonizzati sulla realtà contemporanea, anziché abitati dagli errori del passato, dal riflesso condizionato dei pregiudizi della storia, o abbacinati dall’utopia dell’avvenire. “Il chiarimento della congiuntura ormai deve avvenire senza protezione”, avverte Finki nella prefazione. Ma allora cos’è cambiato con la sequela di attentati del 13 novembre? “Non abbiamo più alibi”, risponde lo scrittore.

“Tutti siamo stati colpiti. Gli uni perché giudicati colpevoli, gli altri perché frequentano spettacoli empi. E abbiamo perso tutti il diritto alla spensieratezza. Voglio sperare che usciremo al più presto dal discorso spaventoso in cui si è chiusa tutta una parte della sinistra”. Per adesso però s’impone il pessimismo. “E’ vero che siamo all’inizio di qualcosa di nuovo. Gli attentati hanno fatto esplodere la verità. Ma ci sono interi quartieri in secessione, che forniscono una base comune al jihadismo. Forse la reazione adesso sarà più solida di quella che c’è stata dopo l’attentato contro Charlie Hebdo, ma è difficile dare una risposta al terrore. Anche se la classe politica sembra sia diventata più lucida, il rapporto di forza non è ancora a nostro favore”. I numeri parlano chiaro. “Il fatto che ci siano più di 11 mila schedati sulla così detta lista S, terroristi, simpatizzanti, fiancheggiatori, elementi radicalizzabili, rende la prevenzione impossibile. Il terrorismo continuerà. Vivremo con questa paura, privi ormai del diritto alla spensieratezza. In fondo stiamo vivendo una situazione totalitaria, dove non è più possibile starsene tranquilli seduti al bar o girare in metropolitana, senza essere asserragliati dal sospetto, dalla paura, dall’inquietudine”. Eppure le indagini stanno procedendo rapidamente e la reazione delle forze dell’ordine sembra efficace. Il che non è poco.

“Certo, ma è spaventoso che in alcune città come Möllenbeck, nel cuore dell’Europa, l’80 per cento della popolazione sia formata da maghrebini, che ci siano venti moschee, dove forse la predicazione è fuori controllo, che l’islamismo fanatico e radicale fa i suoi proseliti indisturbato a un chilometro dalla Grande Place di Bruxelles”. C’è chi parla in Francia di territori abbandonati dalla Repubblica, chi lamenta la negazione della realtà, chi denuncia il paternalismo neocoloniale che ha infantilizzato i francesi di origine straniera con la cultura del perdonismo… “Sul piano delle idee dobbiamo reimparare a discernere tra l’amico e il nemico”, insiste Finkielkraut, “mentre da anni, in forza dell’antirazzismo, dell’egualitarismo, dei sensi di colpa, li abbiamo sostituiti con l’identico e l’altro, abusando di una lettura molto ideologica. Sul piano politico, non ho ricette. I politici dovranno impegnarsi a rallentare l’immigrazione, per favorire l’integrazione, selezionando fra i nuovi arrivi, tra i rifugiati e gli altri. E’ un’assoluta necessità. Oggi siamo tutti vittime di Angela Merkel, che crede di riscattare la Germania di tutti i suoi mali aprendo le porte all’immigrazione siriana. Ma fra i rifugiati ci sono potenziali terroristi, radicali duri e puri. I siriani sono cresciuti nel terrore. Dobbiamo stare attenti”.

Intanto Berlino sembra non rispondere all’appello per una reazione militare contro il fondamentalismo islamico. “Questo è il problema dell’occidente. Non credo che bombardare Raqqa sia meglio che aprire le porte agli immigrati. No. Noi viviamo in un’Europa posthitleriana che non volendo ripetere i crimini del passato sbaglia sul presente. E’ il controsenso della memoria a spiegare l’apertura delle frontiere. Dovremo almeno cercare di uscirne, prendendone coscienza”.

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