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Il Foglio Rassegna Stampa
24.10.2015 Le parole di Bernard-Henry Lévy per definire il terrorismo palestinista
Analisi di Ermes Antonucci

Testata: Il Foglio
Data: 24 ottobre 2015
Pagina: 2
Autore: Ermes Antonucci
Titolo: «Bernard-Henry Lévy contro la lingua menzognera sul terrorismo palestinese»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 24/10/2015, a pag.2, con il titolo "Bernard-Henry Lévy contro la lingua menzognera sul terrorismo palestinese" di Ermes Antonucci.

 
Bernard-Henry Lévy

Macché “lupi solitari”, macché “disperazione”, macché “spirale della violenza”. L’ondata di accoltellamenti di ignari e innocenti passanti israeliani da parte di estremisti palestinesi – ieri una famiglia di cinque persone (tre bambini) è stata attaccata con una molotov lanciata nella loro automobile in corsa – rappresenta una vera e propria “barbarie” che meriterebbe di essere condannata senza se e senza ma, e non invece con i soliti tentennamenti dell’informazione e della politica mainstream. A parlare, con durezza, è Bernard-Henri Lévy sulle pagine dell’Algemeiner, giornale di New York specializzato in notizie dal mondo ebraico. A essere impropria, secondo il filosofo francese, è innanzitutto la terminologia utilizzata dai media di tutto il mondo: “E’ difficile definire ‘lupi solitari’ le manciate – che probabilmente domani diventeranno dozzine e dopo ancora centinaia – di assassini di ebrei che ricevono migliaia di ‘like’ dai loro ‘amici’ su Facebook, che sono seguiti da decine di migliaia di follower su Twitter, e che mantengono legami con una costellazione di siti (come l’al Aqsa Media Center, con la sua pagina dedicata alla “terza intifada di Gerusalemme”) che, in parte, sta contribuendo a orchestrare questa danza sanguinaria”. Doloroso, scrive Lévy, è ascoltare la solita manfrina sui “giovani palestinesi che sono fuori da ogni controllo”, soprattutto “se si guarda alle omelie pubblicate dal Middle East Media Research Institute, dove predicatori da Gaza appaiono in video con un pugnale in mano, esortando i propri adepti a scendere in strada e menomare più ebrei possibili, infliggere più dolore possibile e spargere più sangue possibile”. “Doppiamente doloroso”, prosegue il filosofo, è constatare che questo “ritornello” è usato anche dallo stesso presidente palestinese Abu Mazen, il quale, prima che prendesse avvio questa tragica catena di eventi, definì “eroica” l’uccisione da parte di alcuni palestinesi del rabbino Eitam Henkin e di sua moglie, in presenza dei loro figli, e che nell’esprimere indignazione per il modo con cui “gli sporchi piedi degli israeliani” avevano dissacrato la moschea di al Aqsa benedisse “ogni goccia di sangue versata dai martiri a Gerusalemme”. Dolorose, “intollerabili e inapplicabili”, sono per Lévy le frasi pre-confezionate sulla “disperazione politica e sociale” dei palestinesi, utilizzate per minimizzare, se non addirittura giustificare, questi atti criminali; oppure le espressioni “serie” o “spirale” di violenza, le quali, ponendo sullo stesso piano i terroristi suicidi e le loro vittime, “alimentano confusione e si trasformano in incitamento a ulteriori azioni”. Intollerabili sono gli appelli retorici alla “moderazione” o gli ipocriti inviti a “non infiammare gli animi”, che finiscono “per invertire l’ordine di causalità insinuando che l’atto di auto-difesa compiuto da un soldato, un poliziotto o un civile israeliano costituisca un’ingiustizia pari a quella di chi decide di ammazzarsi dopo aver prodotto il massimo del terrore possibile”. Piuttosto discutibile, inoltre, è che lo stesso appellativo di “intifada” possa essere correttamente usato per qualificare degli eventi che invece, scrive Lévy, “sembrano mirare più che altro all’installazione di un regime jihadista mondiale, in cui Israele rappresenta solo una delle tappe”. Per questi motivi, sorprende la timidezza con cui nelle ultime settimane sono state condannate le aggressioni nei confronti di molti cittadini israeliani. Condanne, si dice sicuro Lévy, che “sarebbero state meno ambigue se questi atti fossero avvenuti nelle strade di Washington, Parigi o Londra”. Ed è questa vaga noncuranza, in fondo, ad aver permesso che potesse diffondersi persino una “mitologia” sull’utilizzo dei pugnali da parte dei terroristi (“l’arma dei poveri” si sostiene). Eppure, Lévy, quando vede questi coltelli, vede quelli usati per uccidere Daniel Pearl, reporter del Wall Street Journal rapito e ucciso in Pakistan nel 2002, vede le decapitazioni più recenti di Hervé Gourdel, James Foley e David Haines. “Credo – conclude il filosofo francese – che i video dello Stato islamico abbiano chiaramente conquistato un seguito, e che siamo di fronte a una forma di barbarie che deve essere denunciata incondizionatamente, se non vogliamo che questi metodi siano esportati ovunque. E sottolineo ovunque”.

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lettere@ilfoglio.it

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