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Il Foglio Rassegna Stampa
27.08.2015 Quelle valutazioni sbagliate al Pentagono. E Obama continua a 'non avere una strategia'
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 27 agosto 2015
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Ops: l'intelligence passa a Obama rapporti falsati sulla guerra a Baghdadi»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/08/2015, a pag. 1-4, con il titolo "Ops: l'intelligence passa a Obama rapporti falsati sulla guerra a Baghdadi", l'analisi di Daniele Raineri.

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Daniele Raineri

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Il Pentagono

Il Pentagono ha aperto una inchiesta interna perché diversi analisti dell’intelligence sostengono che alcuni rapporti a proposito della guerra contro lo Stato islamico sono stati truccati dai superiori, per fare sembrare che le cose vadano meglio. Mark Mazzetti e Matt Apuzzo, i due giornalisti del New York Times specializzati in scoop su intelligence e Pentagono che hanno scritto il pezzo, specificano che tra i rapporti d’intelligence adulterati ci sono anche quelli che finiscono in mano a chi prende le decisioni, incluso il presidente Barack Obama.

Le informazioni in possesso dei due si fermano qui e non si sanno i titoli oppure i contenuti dei rapporti falsati, ma la notizia arriva come un problema serio per l’Amministrazione Obama e per il Pentagono, che hanno una storia recente di dichiarazioni eccessivamente ottimiste a proposito della guerra in Iraq e Siria. L’indagine è cominciata quando almeno un analista dell’intelligence militare ha detto di avere le prove che alcuni ufficiali del Comando centrale (CentCom) cambiavano le conclusioni dei rapporti prima di passarli a chi doveva leggerli. Il CentCom è il settore della Difesa americana che si occupa delle guerre in medio oriente. Le differenze d’opinione tra analisti sono di solito incoraggiate quando è in gioco la sicurezza nazionale, in modo da avere idee in competizione e da evitare visioni stagnanti o a senso unico.

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Obama: "Non ho una strategia"
Isis: "Noi sì"

Questa volta invece l’intervento degli ispettori e l’apertura dell’indagine segnalano che c’è il sospetto di una distorsione intenzionale. Tutte le parti, Casa Bianca, Pentagono, ispettori e intelligence, per ora non commentano la faccenda. Con questo tarlo dei rapporti addolciti in mente, la storia della guerra allo Stato islamico appare sotto una luce diversa. Il 15 maggio, mentre lo Stato islamico sferrava l’assalto finale e conquistava la città di Ramadi, il generale americano Thomas Weidley, che comanda gli sforzi militari in Iraq e Siria, sostenne che si trattava soltanto di propaganda che circolava sui social media, “lo fanno sempre, hanno issato una bandiera su un palazzo e fanno una foto” per dare l’idea di avere il controllo della città. Ramadi stava davvero cadendo nelle mani del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi – lo è ancora e la controffensiva del governo iracheno per riconquistarla è lenta. Un’altra dichiarazione del Comando centrale di pochi giorni prima assicurava che “la situazione delle sicurezza a Ramadi è stabile e non desta particolari preoccupazioni”.

La caduta della città ha costretto gli americani a ripensare tutta la strategia in Iraq, che era imperniata sulla riconquista di Mosul, molto più a nord (era prevista per aprile-maggio 2015: questo disse un portavoce del Pentagono a una conferenza stampa del 19 febbraio). Altre dichiarazioni azzardate fanno sospettare che il presidente americano Obama non fosse informato in modo adeguato dalla sua intelligence. Parecchio sarcasmo è stato dedicato all’intervista del gennaio 2014 con il New Yorker in cui Obama si lanciò in un confronto fra terrorismo e basket. Gli uomini dello Stato islamico fanno scena ma sono come giocatori di una squadra del liceo, disse, “non è che se si mettono la divisa da gioco dei Lakers allora diventano bravi come Kobe Bryant”.

Diciotto mesi dopo, lo Stato islamico è una questione di sicurezza nazionale che occupa le prime pagine dei giornali americani almeno una volta a settimana. In un’altra occasione Obama disse che “non possiamo armare i ribelli siriani perché sono un esercito di contadini e di farmacisti” – il che suscitò più di una perplessità per molte ragioni (per esempio il numero altissimo di militari siriani che sono passati con i ribelli e che anzi hanno creato i primi gruppi dell’opposizione armata). Altri casi sono errori semplici (e non c’è nessun legame dimostrato con le analisi modificate). Nel dicembre 2014 il capo di stato maggiore, Martin Dempsey, rivelò al Wall Street Journal che la campagna aerea americana aveva un ritmo letale, aveva ucciso migliaia di uomini di Baghdadi e tra loro anche il numero due, l’iracheno Abu Muslim al Turkmani.

Una settimana fa la Casa Bianca ha annunciato la seconda uccisione di al Turkmani, a Mosul il 18 agosto. Il dibattito sul ruolo americano in Iraq e Siria è nato fin dall’inizio sotto il segno dello spin ottimistico: la convinzione che nel 2011 il momento fosse maturo per un ritiro completo delle truppe americane dall’Iraq e che il primo ministro Nouri al Maliki avrebbe messo sulla buona strada il processo di riconciliazione nazionale tra sunniti e sciiti. A giudicare dalle notizie che arrivano dall’Afghanistan, dove i talebani stanno guadagnando terreno, a breve potrebbe partire il dibattito politico sull’eccessivo ottimismo a proposito di Kabul.

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