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Il Foglio Rassegna Stampa
09.03.2011 La vita dei detenuti di Guantanamo
ci sono carceri in cui si sta peggio. Cronaca di Mattia Ferraresi

Testata: Il Foglio
Data: 09 marzo 2011
Pagina: 5
Autore: Mattia Ferraresi
Titolo: «Giocare a calcio a Guantanamo»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 09/03/2011, a pag. I, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Giocare a calcio a Guantanamo ".


Mattia Ferraresi     Guantanamo

I soldati fuori servizio se ne stanno appollaiati davanti al bancone con gli occhi gelatinosi ad alimentare l’epica della sbronza militare, compito tanto più urgente per chi è confinato nell’angolo di un’isola da cui gli Stati Uniti non comprano nemmeno l’acqua corrente. Due di loro si sforzano di rimanere composti e dicono che da qualche parte a Guantanamo stanno costruendo una piscina e un campo da football per i detenuti del carcere speciale, che sulle prime suona come un messaggio autopromozionale (tanto il Pentagono non può confermare, ragioni di sicurezza), ma lascia in fondo il dubbio che in daiquiri veritas. Anche senza piscina, quello che si può vedere dei nove campi di Guantanamo, culla delle leggende nere sulla guerra al terrore e pietra dello scandalo dell’Amministrazione Bush (e pure di quella Obama, visto che è stato confermato due giorni fa che ricominceranno i processi e il supercarcere non chiuderà mai), non è spaventoso e hanno buoni argomenti quelli che dicono che ci sono molte prigioni americane in cui si sta peggio.
Certo, c’è tutto quello che non si vede e che non si vedrà mai: Camp 7, l’ala dove sono rinchiusi la mente dell’11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed, l’alleato e forse competitor di Bin Laden Abu Zubaydah e qualche altro pezzo grosso di al Qaida; la parte più dura del carcere, dove i detenuti vestono la tuta arancione, dove c’è una cella d’isolamento che i detenuti chiamano “inferno”, dove tre dei 779 che sono passati da Guantanamo hanno subito il waterboarding, trattamento che almeno in un caso ha fruttato informazioni utili per la sicurezza nazionale americana.
Di tutto questo non si sa nulla nel dettaglio e quel poco che si sa non può essere verificato con certezza, perché Guantanamo è il posto più sicuro del mondo tanto che è qui che il capo della Cia, Leon Panetta, porterebbe Bin Laden se all’America riuscisse di acciuffarlo. Sembrano passati secoli da quando l’improvvisato empirista Christopher Hitchens si è sottoposto al waterboarding per capire sulla sua pelle se era una tortura oppure no, ma era soltanto l’estate del 2008 e il carcere sull’isola di Cuba e le nefandezze, vere o presunte, che lì si commettevano erano argomento di conversazione universale. E in effetti Barack Obama, dovendo trovare un obiettivo simbolico con cui aprire la presidenza, ha scelto di firmare un ordine esecutivo per chiudere il carcere speciale senza se e senza ma, in barba alla dinastia dei cattivi che avevano ingaggiato la guerra globale al terrore, emendata dall’Amministrazione Obama perfino nel vocabolario. Poi le cose sono cambiate: la politica estera è uscita dalla lista degli argomenti di conversazione dell’America, rimpiazzata nella percezione pubblica dall’economia e dal grande capitolo della crisi. Nei fatti la guerra contro il terrorismo non si è placata sotto l’egida di Obama, che ha messo in campo una campagna di bombardamenti clandestini sul Pakistan da fare impallidire il vituperato Donald Rumsfeld e tutta l’Amministrazione repubblicana, ma i democratici hanno avuto il privilegio di poter guidare il paese a fari spenti, almeno sul crinale del terrorismo. Guantanamo è il terminale di tutto il processo per la sicurezza nazionale, e non chiuderà fin quando là fuori ci saranno estremisti farneticanti che coltivano il sogno del secondo colpo all’America, quello della rinascita dalle ceneri. Come tutto l’apparato della guerra al terrore, anche Guantanamo ha avuto nel tempo una metamorfosi. Nel 2002 c’era Camp X-Ray, con la sua carica simbolica e polemica, le incertezze legali su come trattare i detenuti che arrivavano nel carcere speciale senza lo status di combattenti, l’urgenza di raccogliere informazioni vitali, l’esigenza di tenere segreto ciò che succedeva dentro al carcere. Oggi ci sono nove sezioni, delle quali soltanto quattro (Camp 4, Camp 5, Camp 6 e Camp 7) ospitano detenuti, senza contare l’ospedale militare, dove al momento ce ne sono circa dieci. I numeri progressivi dovrebbero indicare il livello di sicurezza, ma Camp 5 è l’eccezione controintuitiva: quella è la più dura di tutte le cose visibili, mentre Camp 6, il più popolato, è l’ala di minima sicurezza. Almeno per quanto è concesso da queste parti. A Camp 4 c’è qualcosa che non va con l’impianto idraulico (non si può sapere cosa, ragioni di sicurezza), quindi le guardie della marina hanno trasferito tutti al 6, che ha alcune sezioni completamente vuote; lì i detenuti possono muoversi all’interno del cortile esterno per venti ore al giorno, mentre da mezzanotte alle 4 di mattina devono stare in cella. Quando si apre il doppio cancello spinato di Camp 6, alcuni detenuti stanno giocando a calcetto, sport “enormemente preferito nel carcere”, dice John Rhodes, un comandante della marina con gli occhi azzurri e la pelle bruciata dal sole di Cuba. Il campo è recintato e la recinzione è coperta con un telo verde scuro, il materiale che domina l’intera base, ma dall’altra parte è tutto un “passa”, “tira”, “calma”, linguaggio universale del calcio nella versione araba. Fuori bisogna fare silenzio: i detenuti non sanno – ma sospettano fortemente – che ci sono dei giornalisti in giro e non devono sapere, perché tendono a diventare più aggressivi del solito, dicono le guardie. In questa sezione del carcere stanno circa 125 detenuti (non si può sapere quanti esattamente, ragioni di sicurezza), la fetta più consistente della popolazione di Guantanamo, formata al momento da 172 detenuti. A Camp 6 dormono in celle strette e decenti che si affacciano a gruppi di nove su un’area comune con tavoli e panche di ferro. La parete esterna è cinta da un sentiero protetto, dove le guardie sono divise dai detenuti da una recinzione che permette di comunicare. Alle spalle dell’intercapedine dei secondini c’è una parete a specchio come quella che viene usata per gli interrogatori: dall’interno riflette, dall’esterno è un semplice vetro. In primo piano, attaccati alla rete di protezione, ci sono fogli con scritte a mano in arabo e in inglese: “Qual è il nostro stato legale?”, “mettete fine alla nostra tragedia”, “no alla detenzione a tempo indeterminato”. Per quanto ne dovrebbero sapere loro, nessuno può leggere quelle richieste al di fuori dei loro inflessibili carcerieri, ma forse sanno che oltre quello specchio magico ogni tanto c’è gente che sbircia fra le listarelle marroni delle persiane. Alieni che vengono da un pianeta straniero e che a quel pianeta potrebbero riportare le loro richieste di giustizia. Per molti di loro la condanna peggiore non è incarnata dalle condizioni di vita di Guantanamo, ma dal fatto stesso di non avere una condanna; sono letteralmente detenuti, non prigionieri, cioè sono “tenuti” dal governo in un limbo a tempo indeterminato per evitare che altrove scatenino l’inferno. Da un paio di feritoie nel pavimento spuntano catene lunghe mezzo metro con le manette morbide per le caviglie, misura di sicurezza che entra in azione soltanto se per qualche ragione la situazione si complica. All’interno si vedono barbe lunghe in tenuta bianca che prendono dal tavolo la cena appena portata: pollo, riso, molta verdura, un ripiano che trabocca di banane. La settimana scorsa uno è andato da Rhodes e gli ha portato una richiesta a nome dell’intera sezione: “Vogliamo della cioccolata”. “Vediamo che si può fare”, ha detto lui. Ora nei giorni di riposo i detenuti di Camp 6 hanno le loro barrette. In alto c’è una teca trasparente con un televisore da quarantadue pollici che trasmette ventuno canali americani e alcuni arabi. Su esplicita richiesta sono stati eliminati i network che passano immagini che prendono alla leggera il corpo delle donne e offendono la sensibilità islamica. Le preferenze cambiano a seconda dell’area comune: serie tv, film, news, talk show, i detenuti hanno accesso a una serie di contenuti che non passano dalla censura militare. Lo stesso vale per i giornali. In carcere arrivano il New York Times, il Washington Post e Usa Today, che i secondini chiamano Usa “Last Week”, perché per portare qualsiasi cosa sull’isola ci vuole tempo. “Una volta abbiamo censurato un articolo – dice Rhodes – che parlava di militari americani accusati di avere attaccato arbitrariamente vittime civili in Afghanistan. Avrebbe potuto scatenare una rivolta qui dentro, e non vogliamo rischiare”. Ogni detenuto ha diritto a una biblioteca personale di duecento libri e anche a Guantanamo il complottismo crociato a basso costo di Dan Brown è particolarmente richiesto. A Camp 6 i detenuti lavorano, leggono, prendono lezioni di lingua inglese, studiano il Corano, riposano il lunedì e il venerdì e ogni tre mesi possono telefonare alle proprie famiglie; anche via Skype, se il paese da cui provengono non lo ha messo fuorilegge. Molti di quelli che si trovano a Guantanamo sono tecnici della macchina del terrore, spesso hanno una formazione scientifica che a un certo punto hanno deciso di impiegare al servizio del jihad. Rhodes dice “il lavoro manuale è fondamentale per loro. Abbiamo falegnami, carpentieri e anche artisti molto bravi. Uno ama le rose, le dipinge, ne fa delle sculture con il legno, ha cercato di ricreare nella sua cella una specie di giardino”. Che a Camp 5 le cose vadano in modo diverso lo si vede dagli sforzi che fanno le guardie per sorridere. Le celle sono cunicoli scavati in un corridoio abbacinante, ciascuno largo giusto quanto un letto; niente area comune e ore d’aria ridotte a otto al giorno. C’è una piccola sala tv con una sola poltrona che invece di un poggiapiedi ha un incavo per le manette alle caviglie; i detenuti possono svagarsi su una sezione più ristretta di canali rispetto a quelli concessi a Camp 6 (non si può sapere quanti, ragioni di sicurezza) per quattro ore alla settimana. I circa venticinque abitanti hanno a disposizione soltanto otto libri per volta, due lezioni a settimana, comunicazioni ridotte e pochissimi privilegi nella vita ordinaria. Nemmeno in questa sezione, lo stadio più duro prima della segretezza, si vedono tracce del teatro degli orrori raccontato per anni, ma per i corridoi di Camp 5 si procede molto più spediti e le domande dei giornalisti prendono velocemente un colorito accusatorio. “Non sono autorizzato a parlare di questo argomento” è il ritornello che domina non soltanto il carcere e l’ala speciale di Camp 7, ma l’intera base, che è nella baia di Guantanamo dall’inizio del XX secolo, quando il terrorismo islamico come lo conosciamo oggi era nella fase dell’adolescenza e Cuba era un alleato americano capace di riconoscenza. Il socialismo cubano di Fidel Castro ha azzerato i rapporti con Washington e il líder máximo si è rifiutato di riconoscere il contratto d’affitto a tempo indeterminato che il governo di Cuba aveva stipulato con l’America dopo che le navi dell’allora alleato avevano cacciato gli spagnoli dall’isola. Una cifra ridicola per quel ben di Dio strategico (poco più di 4 mila dollari l’anno) che Fidel non vuole accettare per principio: nella base l’aneddoto dell’unico assegno incassato dal regime mentre gli altri giacciono intoccati nel cassetto della scrivania a L’Havana è il più gettonato per i curiosi che arrivano dal continente. Guantanamo è tornata alle cronache mondiali durante la crisi missilistica, sotto l’Amministrazione Kennedy. Qualcuno alla base ha sentito da chi c’era i racconti della grande evacuazione del complesso americano, con le famiglie dei militari costretti a lasciare tutto ciò che avevano per ripiegare sul suolo americano e aspettare assieme al resto del mondo la risoluzione apparentemente impossibile del momento più caldo della Guerra fredda. Sono questi incroci della storia che hanno reso Guantanamo quello che è oggi: un tassello grigio nella legge internazionale, un cortocircuito della diplomazia, l’unico luogo dove sarebbe stato possibile costruire un carcere tanto speciale quanto è speciale la minaccia di chi ha colpito l’America e l’occidente in forme oblique che non hanno precedenti nella storia recente dei conflitti umani. Uno strumento che avrebbe dovuto essere finalmente chiuso non da un presidente – compito troppo arduo per un semplice commander in chief – ma da un salvator mundi planato sulla Casa Bianca per celebrare la vittoria finale dell’ideale sul reale. Certo, il carcere speciale e i processi militari non sono la realizzazione del sogno degli appassionati del sadico o l’incarnazione di una speranza positiva, ma nel mondo ideale Eva dice al serpente “vai al diavolo”, il lupo pascola assieme all’agnello e così via. Anche Obama dopo una battaglia avara di fatti (culminata con la proposta impraticabile di spostare tutta la baracca in una struttura dell’Illinois, il suo stato: il presidente ama i gesti simbolici) ha dovuto accettare Guantanamo come una necessità ineluttabile per l’America e nella baia non ci sono segni nemmeno di un processo di smantellamento nel lungo periodo. Anzi, chi ha visitato la base con una certa costanza negli ultimi anni dice che stanno spuntando nuovi edifici un po’ ovunque, cosa che il Pentagono non può naturalmente confermare né smentire ufficialmente. Di certo, se un progetto di chiusura c’è, i militari di stanza nell’isola non ne sanno molto e continuano ad armeggiare per le strade arroventate della base dove le iguane stanno immobili per godere del sole tropicale. Hanno ricreato a Cuba un pezzo d’America che si alimenta senza avere nulla a che fare con l’economia del paese socialista al di là della recinzione. A Guantanamo si mangiano i panini di Subway, si fumano sigari di Porto Rico, ci si lava con acqua desalinizzata a San Diego, in California, che fa un lungo giro per arrivare sull’isola nelle cisterne autorizzate. Negli scaffali del Navy Exchange, il supermercato militare, tutto è disposto come in qualunque drugstore del paese, solo che gli avventori sono per lo più ragazzi in infradito con i capelli tagliati a zero e le braccia tatuate. Nella sezione degli alcolici c’è un Rum importato da Cuba, sciccheria invecchiata 15 anni che non c’è modo di sapere come sia finita nelle mani dell’impero americano, ragioni di sicurezza.

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