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Il Foglio Rassegna Stampa
16.01.2007 Incapaci di riconoscere il nemico
e di combatterlo

Testata: Il Foglio
Data: 16 gennaio 2007
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti - la redazione
Titolo: «Il suicidio della ragione - Il paradosso di Guantanamo»

Dal FOGLIO del 16 gennaio 2007, un'intervista di Giulio Meotti al filosofo americano Lee Harris:

E’ sulle Stone Mountain, la catena rocciosa nello stato della Georgia dove vive, che il filosofo americano Lee Harris ha imparato a lavorare sui fondamentali. Demografia e relativismo, significato del Corano e concetto di nemico, neosecolarismo e razionalismo, matrimonio e sionismo. Temi apparentemente distanti tra di loro, ma che Harris da molti anni descrive come basamenti della tensione alla sopravvivenza della civiltà occidentale. In “Civilization and its enemies” (Free press), un’opera salutata anche dai liberal come un indispensabile tour de force intellettuale sull’11 settembre, Harris si era spinto a denunciare la perdita dell’istinto di difesa in occidente. Quest’anno Harris torna in libreria con “The suicide of reason”, un pamphlet sul crollo del “fronte interno” e del neorazionalismo di fronte all’attacco del fanatismo islamico. In questa lunga intervista al Foglio, Harris anticipa i contenuti di un’opera concepita come risposta alla domanda: “Quale nemico stiamo affrontando?”. Il “filosofo dell’11/9”, come è stato ribattezzato, democrat per formazione prestato ai repubblicani dopo che il terrore islamico ha svelato il suo volto, non edulcora lo scontro di civiltà, ritiene che sia in gioco qualcosa di più: il fallimento della nostra civiltà. “Decadenza oggi descrive un certo tipo di caffè. Una volta era un concetto importante, indicava il pericolo per il futuro della sopravvivenza. L’islam radicale è una rivolta contro la decadenza occidentale”. Questo Carl Schmitt americano, pensatore laico cresciuto nel sud dei battisti evangelici, risale alle origini del progetto illuminista: “Con l’avvento del secolarismo si intendeva creare persone che si sarebbero comportate come ‘attori razionali’. Abbiamo dimenticato il fanatismo. Questa dimenticanza è approdata all’idea seduttiva secondo cui sarebbe naturale comportarsi in modo razionale: l’uomo razionale è libero di realizzare quelli che John Stuart Mill chiamava ‘esperimenti di vita’. Cerca di minimizzare il nemico, spiegarlo e negarlo. Vuole essere lo ‘spettatore disinteressato’ di Adam Smith. Ci sono due grandi minacce alla sopravvivenza dell’occidente: una esagerata fiducia nel potere della ragione e una profonda sottovalutazione del potere del fanatismo”. Due secoli fa l’esploratore inglese E.W. Lane in Egitto scrisse che il contatto con la cultura occidentale non solo aveva fallito nella modernizzazione dei musulmani, li aveva resi ancora più fanatici. “Il fanatismo islamico è una formidabile arma nella guerra per la sopravvivenza e ha dato all’islam la capacità di espansione territoriale, attraverso la conquista di cuori e menti”, ci spiega Harris. “E’ difficile immaginare un Egitto o un Iran preislamico”. Il mutismo della ragione nasce dallo scacco relativista. “Sono un ammiratore di Joseph Ratzinger. In occidente giudichiamo il successo di una cultura attraverso standard materiali e utilitaristici. La posizione relativista collassa nell’oscurantismo reazionario che dice: tutte le culture sono incommensurabili, è impossibile giudicare. Lo scopo dell’educazione laicista diventa ‘liberare’ tutto, la fede sulla superiorità dell’occidente è sostituita dal multiculturalismo, dal sofisticato nonsense del relativismo. Per noi l’uomo razionale non è più il risultato di ciò che Norbert Elias chiamava ‘processo civilizzatore’: nasciamo razionali. I nostri figli vengono al mondo civilizzati. La società viene organizzata intorno alla massimizzazione del piacere individuale. E’ all’indifferenza per il futuro. Lo zenit delle società del ‘carpe diem’ è espresso dal ritornello ‘don’t worry, be happy’. Gli uomini hanno bisogno invece di una tradizione profonda che inizia dalla nascita. La cristianità è stata necessaria per raggiungere una genuina libertà. Ma la libertà di un ethos del carpe diem ci invita a cogliere l’attimo senza pensare alle generazioni future. Se siamo liberi dalle tradizioni di chi ci ha preceduto, perché i nostri figli non dovrebbero avere il diritto di liberarsi di noi? Una civiltà persiste quando c’è un diffuso senso della necessità etica della presente generazione per la terza, i nipoti, i non nati. E’ questo il più alto contributo etico della famiglia: la promozione di un ideale etico nella forma del nostro destino. Il matrimonio non ha niente a che fare con la biologia: è un’elaborata costruzione sociale eretta contro l’anarchia dell’identità umana, allo scopo di trasformare la natura in alto ideale etico. E’ l’istituzione più liberale che l’uomo abbia mai conosciuto”. Quando confrontiamo il nostro ethos con il fanatismo islamico, dobbiamo rispondere alla domanda: “Il nostro strumento di giudizio deve essere il momento presente o quella che lo storico Fernand Braudel chiamava ‘la lunga durata’ nel tempo? Se l’occidente si fonda sull’ethos di John Maynard Keynes, teorico di un welfare deresponsabilizzante, quale possibilità di sopravvivenza abbiamo nel confronto con una cultura capace di morire e di uccidere? Come hanno detto i terroristi ceceni durante l’assedio del teatro di Mosca: ‘Alla fine vinceremo, siamo disposti a morire, voi no’”. La stessa frase che un giovane arabo disse ad André Gide. Le élite occidentali hanno creato un mito autoprotettivo: la modernità. “Sarebbe per l’umanità ciò che la maturità è per l’individuo. Quando ci confrontiamo con il fanatismo ceceno, ci consoliamo pensando che sia una fase di passaggio di uno sviluppo inevitabile. La modernità diventa la cura dell’arretratezza islamica. La nostra profonda riluttanza ad affrontare una simile guerra sulla vita e sulla morte è comprensibile, quando assume la forma della negazione e del wishful thinking diventa una predisposizione al suicidio”. Abbiamo mistificato la ragione disconoscendo l’odio di chi ha portato la morte nelle nostre strade. “L’occidente è unico nel preservare la tradizione della razionalità critica. Ma è unico anche nel fare della ragione un feticcio virtuale. Il concetto illuministico di ragione è pericolosamente errato. Nella Francia del 1793 la ragione divenne un dio che tagliava teste. Il concetto di nemico sfida quest’insistenza illuministica sulla supremazia della ragion pura”. La ragione può salvarci? “No, ma una eccessiva fiducia nella ragione, il razionalismo, può distruggerci. Possiamo e dobbiamo accettare l’unicità dell’occidente e la sua superiorità etica, ma senza lasciare inevasa una domanda: rappresenta uno sviluppo irresistibile? O una configurazione culturale che avrà il suo giorno al sole per poi scomparire dalla storia? Se il mito della modernità è corretto, il peggio che possiamo aspettarci è una serie di guerre fra l’occidente e l’islam che tenta futilmente di resistere alla modernizzazione. Ma se non è corretta, affronteremo un tracollo della civiltà”. Il decano del postmodernismo, Stanley Fish, in un articolo su Harper’s ha riconosciuto la profonda convinzione che ha motivato i terroristi dell’11 settembre. “La posizione di Fish è più realistica di coloro che non hanno dato credito al coraggio dei terroristi. Non riusciamo ad afferrare cosa abbia spinto diciannove uomini a suicidarsi con dei jumbo. Ci rifiutiamo di attribuire all’altro caratteristiche che troviamo deplorevoli e finiamo per costruire un altro illusorio che si veste e mangia come noi. Noi liberali d’occidente siamo stati abituati a guardare ai nuovi Tamerlani con orrore e repulsione, cerchiamo di spiegarci come i terroristi islamici possano uccidere i bambini di Beslan e gli iracheni che giocano a pallone. La sinistra cerca di spiegare l’islamismo come movimento di liberazione, altri lo hanno bollato come ‘fascismo islamico’. Sono interpretazioni etnocentriche che riducono l’islamismo a modello occidentale per renderlo meno alieno. Ma l’islamismo non è altro che il revival della brutale strategia di conquista originaria”. Come è stato possibile che l’Iraq, promessa della riforma democratica in medio oriente, si sia trasformato nel girone infernale in cui i jihadisti uccidono ragazzi in shorts, venditori di ghiaccio e barbieri che osano radere i figli di Allah? “L’intervento americano in Iraq, come quello in Vietnam, è avvenuto nello spirito della ‘giusta crociata’, non per sfruttare il popolo vietnamita e iracheno, ma per liberarli. In Iraq l’America sta spendendo miliardi di dollari e migliaia di vite americane per creare una società democratica indipendente. Bush avrebbe potuto imporre un governo fantoccio, ma ha lasciato gli iracheni liberi di scegliersi il leader. Ciò che cercava non era un impero, ma la ‘fine della storia’. Era uno scenario di ottimistico progresso derivato da Karl Marx. E’ stata una avventura di ingegneria sociale guidata dallo spirito che animava la Rivoluzione francese: tutto smantellato, esercito e polizia; libere elezioni e assemblea parlamentare; l’Iraq sarebbe prosperato nella libertà”. Il destino della missione in Iraq dipende allora da una domanda: chi è il nostro nemico? “Se sono i seguaci di Saddam, più una manciata di sciiti e di terroristi importati, per l’Amministrazione Bush sarà possibile eliminare questi elementi tossici dal corpo politico iracheno. Ma se il nostro nemico è virtualmente l’intera popolazione maschile sotto i 25 anni, lo scenario è meno ottimistico. ‘Conosci il tuo nemico’ è una ammirevole massima della prudenza. Il nemico è colui che è disposto a morire per ucciderti. Gli obiettivi di al Qaida non sono militari, ma simboli del potere americano riconoscibili dalla strada araba. Gli ingegneri anglosassoni i cui corpi sono stati smembrati non volevano ‘le stesse cose’ della folla che li ha linciati. Erano in Iraq per aiutare il popolo, come i coraggiosi soldati americani. Non immaginavano che la loro morte sarebbe stata occasione di balli per le strade. Il miglior modo per cogliere l’orrore di questo veleno è ascoltare una madre palestinese che offre il figlio di quattro anni come vittima della propria agghiacciante fantasia”. Dobbiamo tornare alle origini dell’islam. “Fu attraverso una devozione fanatica alla religione di Allah che l’islam ha potuto combattere la tendenza naturale a convertirsi. La sfida al mito della modernità oggi viene dal fanatismo dell’islam. L’islam non parla il linguaggio dell’equilibrio dei poteri, ma della conquista. Se l’occidente fallirà, il destino dei razionalisti sarà oscuro. In nessun’altra parte del mondo i missionari cristiani hanno fallito nel fare conversioni quanto nell’islam. Perché i musulmani dovrebbero rinunciare a un’istituzione, il jihad, che è stato ed è ancora l’agente storico dell’espansione nel pianeta? Così come ci sono i negazionisti dell’Olocausto, esiste una tendenza a negare la realtà del jihad. L’11 settembre non è stato un atto di terrore clausewitziano, ma un grande rituale dimostrazione del potere di Allah. Una manciata di musulmani, uomini la cui volontà era assolutamente pura, come ha dimostrato il loro martirio, si abbatterono contro le torri erette dal Grande Satana. C’era un’altra dimostrazione che Allah stava dalla parte dell’islam radicale e che la fine del Grande Satana era vicina? L’islam radicale vuole che l’occidente cessi di esistere”. Bush ha introdotto la parola “male” nel vocabolario politico. “Gli americani oggi sono angosciati benignamente dalla domanda: ‘Perché gli islamici ci odiano?’. E tendono a pensare perché abbiamo fatto qualcosa. Il vero obiettivo dell’attacco non era Bush, siamo noi. Bandire la parola ‘male’ è un atto di imperdonabile disonestà morale. Gli americani usavano questa parola contro schiavitù, nazismo, comunismo, segregazione, orrori di Auschwitz. L’intellighenzia, diventata nemica della civiltà rifiutandosi di accettare l’idea che la civiltà possa avere un nemico, non ha idea delle conseguenze che avrebbe la perdita nell’americano medio della sua semplice fede in Dio. Le loro virtù e pensieri fatti in casa sono il basamento della decenza e dell’integrità nella nostra nazione. Queste sono le persone che danno i propri figli per difendere il bene e sconfiggere il male. Se ai loro occhi questa chiara distinzione viene offuscata dalla disseminazione del relativismo morale e di una estetica della frivolezza etica, dove altro la decenza umana troverà simili difensori?”. E’ la natura del Corano a differire radicalmente dagli altri libri sacri. “Il Corano è coeterno con Allah, è sempre esistito ed esisterà sempre. E’ in profondo contrasto con il concetto cristiano di Pentecoste. Il jihad riconosce un solo status quo, il Dar elislam, la terra della pace, al di fuori della quale c’è solo la terra della guerra. E’ l’obiettivo del jihad: espandere il dominio dell’islam. L’islam ha una missione e non è quella di creare imperi: è la diffusione dell’islam. E lo scopo del jihad non è solo di conquista, ma di conversione. Un confronto con le guerre di conquista di Hitler illumina l’unicità del jihad. Un ebreo russo sotto il dominio tedesco non aveva possibilità di convertirsi all’arianesimo. Nel caso del jihad, c’è l’opzione della sottomissione. Al Zarkawi mandò a Bush una lettera in cui lo invitava a convertirsi e tutto sarebbe finito”. Il revival del jihad è l’essenza dell’islam radicale. “Il jihad ha dimostrato una grande capacità di adattamento nell’epoca del post 11 settembre, non c’è ragione per pensare che non possa adattarsi ai cambiamenti della modernità. I jihadisti non sono interessati a vincere, nel senso che noi diamo alla parola. Si ritengono vittoriosi anche solo rendendo invivibile il mondo. Non usano spade e scimitarre, ma il terrore: New York, Madrid, Londra, Amsterdam. Gli islamisti hanno un nemico, la democrazia. E hanno la demografia: la fine del testosterone non culminerà nella fine della storia, ma dell’occidente così come noi lo conosciamo. L’islam radicale è un ritorno allo spirito delle tribù originarie”. E’ fallita ogni strategia con l’islam. “Primo fallimento, il conversionismo. Dovremmo fare dei musulmani dei secolaristi laici e liberal. Ma i musulmani sono educati al rifiuto di tutto ciò che minaccia di sovvertire la supremazia dell’islam. Possiamo ricostruire oledotti, edifici e infrastrutture della società islamica, ma non possiamo farlo con il codice d’onore della mentalità. Il conversionismo si è rivelato una falsa promessa”. Poi c’è l’assimilazionismo. “Si dà per scontato che i musulmani possano essere assimilati nell’ambiente secolarizzato. Ma è il contrario: chiedono alla cultura di adeguarsi a loro. Un codice etico intollerante trionferà sempre su un codice etico del carpe diem. I nuovi iconoclasti islamici hanno il potere di distruggere qualsiasi immagine in disaccordo con il loro malinconico fanatismo. Stiamo perdendo questa guerra. Dalle foto di chi si gettò dalle Twin Towers allo scannamento di Nick Berg, il nemico ci ha sommerso di immagini che ci tormenteranno fino alla fine dei nostri giorni. Anziché noi assimilare loro, siamo noi ad assimilarci a loro”. Terzo fallimento, il seduzionismo. “I musulmani saranno sedotti a diventare moderni. Goebbels e Hitler pensavano che fosse stato un errore lasciare i soldati a Parigi troppo a lungo. Mohammed Atta e gli altri dell’11 settembre sembrava, per come vivevano, che fossero stati sedotti dalla cultura del carpe diem. E’ come il serial killer dello Yorkshire, confessò di aver ucciso le prostitute perché lo avevano tentato. In realtà erano educati a essere santi guerrieri, difficile sedurli con l’ethos edonista”. Harris crede nella necessità dell’eccezione americana. “Gli Stati Uniti rappresentano la principale fonte di legittimazione dell’ordine nel mondo e se venisse sovvertita, entreremmo in quel genere di crisi della legittimità della Prima guerra mondiale, con il collasso di quattro imperi e l’Olocausto alla fine della Seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti devono essere primi fra eguali, riservarsi di intervenire unilateralmente, non per sovvertire le regole del liberalismo internazionale, ma per rinnovarle”. Ma Harris resta pessimista. “L’occidente è completamente sulla difensiva. Possiamo avere una enorme capacità militare e un benessere diffuso, ma abbiamo perso il senso di fiducia nella superiorità della nostra civiltà. Il fanatico islamico è guidato dalla convinzione di avere una missione sacra. Gli stati moderni non possono rispondere come vorrebbero al terrore senza violare i principi umanitari che sono le conquiste della civiltà occidentale. Per questo il ‘contenimento’ non ha alcuna rilevanza al giorno d’oggi. L’Unione Sovietica era costretta a considerare le conseguenze. Oggi invece anche se una bomba nucleare venisse fatta esplodere a Chicago, gli Stati Uniti non potrebbero rispondere con un attacco nucleare su una grande città islamica”. Il benessere del welfare ha come reso l’occidente impermeabile alla minaccia. “Noi pensiamo in termini di pensione, loro di secoli e secoli. Quali figli domineranno la terra? Se c’è una ‘roadmap’ nella cacciata israeliana dei coloni dalle proprie case è quella che informa i terroristi che ciò che serve per sconfiggere l’occidente è un po’ di pazienza e il sangue dei martiri”. Perché ci odiano? “Fu la rivelazione di Theodor Herzl quando in qualità di inviato fu mandato a seguire il processo Dreyfus. Da studente pensava che la soluzione alla ‘questione ebraica’ fosse la completa assimilazione. Ma la reazione delle folle francesi alla condanna del colonnello pose fine a questa illusione: ‘Morte agli ebrei’. Ma perché, si domandò Herzl, vogliono uccidere tutti gli ebrei? Herzl capì che persino in Francia, una delle nazioni più civilizzate al mondo, gli ebrei assimilati erano odiati in quanto ebrei. Una verità che faceva eco a Karl Lueger, il demagogo antisemita eletto sindaco di Vienna un anno dopo l’arresto di Dreyfus: ‘Decido io chi è ebreo e chi non lo è’. Herzl abbandonò il sogno illuminista e si volse al sionismo”. La democrazia senza spada non ha difeso gli ebrei dai nazisti e gli spagnoli dagli islamisti ad Atocha. “Il popolo spagnolo ha votato per abbandonare la dignità nazionale e compiacere il fanatismo. Hanno votato le forze dell’anticiviltà. La democrazia non ha salvato la Spagna e non salverà noi dal terrorismo, può essere usata dai nemici della civiltà per raggiungere i loro scopi”. Harris chiude sull’esempio della resistenza olandese all’invasione francese, dimenticato dagli epigoni multiculturali dell’Aia. “Dobbiamo imparare dagli olandesi, pronti in caso di attacco a inondare il paese, come avvenne quando le armate di Luigi XIV cercarono di occuparlo. Sapevano che la loro indipendenza era un’anomalia senza quel potente sistema di dighe. Per loro la libertà era qualcosa per cui valeva la pena battersi. Sarebbero sopravvissuti se avessero pensato, come accade a noi, che ‘vogliamo tutti le stesse cose’? L’occidente deve imparare a difendere la rara cultura della ragione, così come gli islamici ferocemente difendono la loro. Se il tuo nemico è composto da uomini che non si fermano di fronte a niente, disposti a morire e uccidere, devi trovare uomini dalla tua parte disposti a fare lo stesso. Una società senza nemici non ha bisogno di insegnare ai propri figli come combattere e come correre quando qualcuno vuole ucciderli. Ma una società che ne ha deve fare tutto questo e deve farlo bene, altrimenti perirà. Non abbiamo alternativa dal combattere questa guerra. E’ stato il nemico, non tu, ad aver deciso cosa è questione di vita e di morte”. Da Socrate all’illuminismo, la ragione è stata concepita come una panacea cognitiva. “Questa fede nella ragione come soluzione universale ai conflitti umani è stata la pietra fondativa dell’ottimismo occidentale sul futuro dell’uomo. Oggi non accettiamo più questa visione della ragione. O è un pregiudizio etnocentrico oppure la ragione è meramente ciò che fa la scienza. Il neosecolarismo e il multiculturalismo non sono in grado di spiegarci perché dovremmo attaccare gli islamisti, anche quando loro attaccano i nostri figli”. Il culto del dubbio può condurre all’autodistruzione. “Nella guerra fra fanatici e dubitaristi non è difficile immaginare chi vincerà. L’unica speranza è che la ragione umiliata riscopra la propria legittimità nel confronto con il fanatismo, riconoscendo se stessa come nemica dei fanatici. Uno dei più bizzarri paradossi del relativismo è che non possiamo dire che la nostra religione e cultura è meglio di altre. Una gloria dell’occidente è stato lo sradicamento del virus del fanatismo. Forse lo abbiamo raggiunto al prezzo della nostra sconfitta”. Dobbiamo ricordare il modo in cui i greci esprimevano passato e futuro. “Noi diciamo che il passato è dietro di noi e il futuro davanti. Per i greci il passato era ‘prima’ di loro, era il territorio che avevano attraversato. Era il futuro a essere ‘dietro’ di loro, furtivo come un ladro nella notte. Niente può penetrare questa tenebra tranne i rari istanti di previdenza che chiamavano sophos, sapienza. Questi lampi dipendono dalla capacità di ricordare ciò che è eterno e non cambia, ciò che invece noi abbiamo dimenticato”. L’errore della ragione astratta è la dimenticanza. “Civiltà nascono e tramontano e in ciascun caso la caduta non era inevitabile, ma conseguenza di una decisione o della mancanza di decisione. Gli esseri umani avevano dimenticato il segreto di come preservarla per i propri figli. Ci stiamo pericolosamente avvicinando a questo punto. Il passato dice che non può esserci pace perpetua, chi è convinto di questa illusione mette in gioco la propria sopravvivenza, ci sarà sempre un nemico e il conflitto sarà fra due modi di vivere che non possono coesistere. Ma il passato non dice come finirà. Franklin D. Roosevelt sapeva di avere solo due scelte: resa o guerra. Se la ragione tollera coloro che si rifiutano di giocare secondo le regole della ragione, il risultato sarà il suicidio della ragione”.

Una esemplificazione  parziale del "suicidio della ragione" denunciato da Harris: "Il paradosso di Guantanamo"

 

 

Roma. Il mondo ne chiede la liberazione, gli Stati Uniti, però, faticano a trovare un paese pronto a ospitarli e l’unica nazione che vuole accoglierli è l’Albania. Questo è il paradosso dei prigionieri di Guantanamo, 340 su 775 liberati nel novembre 2006. Molti di loro non vogliono rientrare nei paesi d’origine perché andrebbero incontro a morte e tortura. Il governo di Washington, avendo riconosciuto la validità di tali timori, si è messo a cercare uno stato disposto a ospitarli. Ma pare che “oltre un centinaio” di altri governi si sia già tirato indietro. Primo fra tutti quello guidato da Tony Blair, che pure si era dichiarato contro il proseguimento della loro detenzione. Se si pensa al caso del signor Maulvi Abdul Ghaffar, rilasciato nel gennaio 2004 e ucciso otto mesi dopo in Afghanistan mentre combatteva con i talebani, forse qualche ragione ce l’hanno. O al caso peggiore di Abdullah Mehsud, liberato da Camp Delta nel marzo 2004 e divenuto addirittura un comandante di al Qaida in Pakistan. Anche lui è finito ucciso in combattimento, ma ha avuto il tempo di organizzare il rapimento di due ingegneri cinesi nel Waziristan e la morte di uno di loro. Mehsud è stato anche responsabile dell’attentato dell’ottobre 2004 al Marriott Hotel di Islamabad, che ha causato il ferimento di sette persone tra cui un diplomatico statunitense, due italiani e il capo dell’ufficio sicurezza del primo ministro pachistano. Insomma è saltato fuori che soltanto l’Albania era disposta ad assumersi il rischio di ospitare gli ex detenuti di Guantanamo Bay. Da apripista hanno fatto cinque nazionalisti uighur, la nazionalità di lingua turca e religione islamica della regione occidentale cinese del Xinjiang, da tempo in rivolta contro il governo di Pechino. Due di loro, Abu Bakker Qassim e A’del Abdu al Hakim, hanno fatto ricorso lo scorso maggio alla Corte suprema statunitense, poiché da un anno le autorità militari avevano riconosciuto che non si trattava di nemici combattenti. Poiché non volevano essere rispediti in Cina, poiché il governo di Washington non intendeva premiarli fino al punto da concedere loro diritto d’asilo sul territorio americano, poiché nessun altro li voleva ospitare, sono rimasti in un limbo fin quando non è venuta la disponibilità di Tirana, che il Dipartimento di stato ha ringraziato per il suo “importante gesto umanitario”. Sembra evidente che gli albanesi non abbiano agito per buon cuore, ma per ingraziarsi Washington. E che lo zelo degli Stati Uniti sia stato motivato dall’attivissima campagna della lobby uighuro- americana, che ha applaudito l’“incredibile e inaspettata notizia”. Meno felice il governo di Pechino, che non s’impegna a livello internazionale per difendere la politica americana a Guantanamo, ma poi pretende che tutti i venti uighur lì detenuti siano consegnati, presumibilmente per mandarli a morte nel minor tempo possibile. L’ambasciatore cinese a Tirana ha emanato una dura protesta quando i cinque sono arrivati, tuttavia le relazioni non sono state interrotte. Perché in fondo la soluzione albanese risolve qualche problema anche alla Repubblica popolare cinese. Gli uighur hanno fatto da precedente. Dopo di loro sono sbarcati in Albania anche un algerino, un uzbeko e un egiziano, tutti liberati, tutti minacciati nei loro paesi, se non esplicitamente di morte quantomeno di tortura. A breve potrebbe arrivarne un altro centinaio, non soltanto di cittadinanza uzbeka, algerina ed egiziana, ma anche tunisina e libica.

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