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La Stampa Rassegna Stampa
28.10.2016 Premio Sakharov a due ragazze yazide, ex schiave sessuali dello Stato islamico
Commento di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 28 ottobre 2016
Pagina: 14
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «'Il premio a Nadia e Lamiya è una speranza per noi yazidi'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/10/2016, a pag. 14, con il titolo "Il premio a Nadia e Lamiya è una speranza per noi yazidi", il commento di Giordano Stabile.

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Giordano Stabile

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Le due ragazze yazide

Con i capelli neri, gli occhi chiari, rasato e una camicia scura attillata Sherzan Ali ha già seppellito i due anni e mezzo di regno del terrore dell’Isis. E già sogna l’Europa. Questo ragazzo di 22 anni è riuscito a fuggire dal villaggio di Bashiqa due giorni fa e ora è in un campo profughi a Khaser, a una quarantina di chilometri da Mosul, sulla strada per Erbil. «Due anni fa, quando sono arrivati, sono rimasto intrappolato a Mosul con un mio cugino. Per fortuna mia madre e le mie sorelle erano già andate a Erbil e si sono salvate».

Sherzan è yazida ed è molto felice che il Parlamento europeo abbia premiato due yazide, Nadia Murad Basee Taha e Lamiya Amiya Aji Bashar, anche se non ha esattamente idea di chi siano. «Il mio sogno è di andare a vivere in Germania e magari questo riconoscimento al mio popolo mi aiuterà. Io non parlo il dialetto curdo degli yazidi, solo l’arabo. E quindi in Kurdistan sono visto come straniero. Ma è lo stesso fra gli arabi».

La cittadina di Bashiqa, a 25 chilometri a Nord-Est di Mosul, è stata appena liberata e i peshmerga curdi si sono portati a soli 12 chilometri dal centro di Mosul. L’Isis «sta usando civili come ostaggi». Anche yazidi, perché l’hinterland è una zona mista, di curdi, arabi cristiani e musulmani, yazidi appunto e turkmeni. «Ma noi siamo i più odiati dall’Isis», conferma Sherzan, che si è salvato perché parla arabo come un madrelingua ed è riuscito a mimetizzarsi. In quell’estate del 2014 l’Isis ha portato avanti una campagna di pulizia etnica spietata, soprattutto più a Ovest, nel Monte Sinjar.

È lì, nel villaggio di Kocho, vicino alla frontiera con la Siria, che le due premio Sakharov vengono rapite dagli uomini del Califfato. È il 15 agosto. I jihadisti massacrano gli uomini e separano le donne, uccidono le anziane, catturano le giovani. Nadia ha 21 anni, Lamiya, 16. Vengono vendute a più riprese, assieme alle sorelle, come schiave dei combattenti dell’Isis. Nadia è tenuta a Mosul, costretta a fabbricare bombe e cinture esplosive. Poi, dopo quattro mesi di terrore, riesce a scappare grazie all’aiuto dei vicini, raggiunge un campo per rifugiati nel nord dell’Iraq, poi la Germania.

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La famiglia di Lamiya riesce invece a rintracciarla, contatta e paga una banda di trafficanti per farla fuggire. Ma una mina ferisce la ragazza durante il passaggio verso il Kurdistan iracheno. Lamiya rimane quasi cieca ma riesce ad arrivare alla fine anche lei in Germania, dove viene curata e ritrova le sorelle e i fratelli scappati all’Isis. Assieme a Nadia diventa la voce del popolo yazida, la denuncia di un genocidio che il mondo non riesce a fermare. A settembre Nadia diventa la prima ambasciatrice di buona volontà dell’Onudc, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine. Poi il premio Sakharov. Ora il loro popolo ha una speranza in più. Anche perché l’offensiva dei peshmerga curdi attorno a Mosul ha liberato villaggi dove sono una minoranza importante.

Le tende del campo di Khaser si riempiono di tappeti stesi per terra, cuscini, qualche pentola. Le famiglie portano dentro i sacchetti blu dei pasti pronti. Ci sono docce, acqua potabile. E soprattutto cibo. Più che il premio Sakharov a Nadia e Lamiya è questo che li fa felici. «Quando è cominciato l’attacco non abbiamo mangiato per giorni – racconta Maher Abdulkherry, fuggito da Top Zawa con la moglie e tre bambini – ma anche prima era un inferno. Siamo sopravvissuti perché avevamo un pezzetto di terra, qualche gallina. A Mosul non c’è più niente, mangiano solo quelli dell’Isis. Io sono fortunato anche perché ho salvato i miei ragazzi. A tante famiglie hanno portato via i figli per farli diventare soldati del Califfato».

Ma anche per le famiglie arabe era la stessa cosa. «Andavamo una volta a settimana a Mosul dal nostro villaggio – spiega Anwar Arafat, ora al campo con la moglie Hami e la figlia Imam – per trovare cibo, medicine. Dovevi stare attento. Per strada c’era pieno di combattenti stranieri, sauditi, algerini, tunisini. Guai se non avevi i pantaloni al polpaccio, la barba lunga. I telefonini sono proibiti, la tv pure. Se stavi seduto davanti a casa ti potevano accusare di essere una spia. Tanti sono spariti così, uccisi. Ma ora anche a Mosul tutti aspettano la liberazione. Solo uno su tre, forse, è ancora con loro».

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