domenica 19 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
12.03.2016 Libia: Se la guerra uccide la politica
Commento di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 12 marzo 2016
Pagina: 25
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Se la guerra uccide anche la politica»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/03/2016, a pag.25, con il titolo "Se la guerra uccide anche la politica", il commento di Domenico Quirico.

Immagine correlata
Domenico Quirico

La pace è diventata solo un armistizio, lo stato naturale è la guerra, una specie di cancro che assorbe tutte le forze vive, occupa tutti gli spazi, schiaccia la vita. E’ così: solo che quando ce n’è troppa, allora diventa monotona come la pace. Ecco: in Libia la politica è stata uccisa, di vivo c’è solo guerra. La frase di Von Clausewitz secondo cui i conflitti non sono altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi oggi non ha più alcun significato, è inattuabile. Perché dopo una guerra come questa, così naturale e assoluta, non ci sarà nulla, negoziato, spartizione, altro regime. Solo un’altra guerra.
Tutto ciò che è politica sembra gettato via e dimenticato, in questo luogo non si fa che sbrigare il lavoro che la battaglia, imperiosamente, richiede. Come in fabbrica e nei campi. Noi chiediamo ai libici atti politici. Loro possono darci solo atti di guerra. Le stesse soluzioni diventano una parte del problema, lo complicano. Non ci si batte per uno scopo. Non ci sono più scopi. Si combatte e basta. Lo capisci guardando i combattenti che presidiano Tripoli o questi villaggi dall’aspetto di mucchi di macerie biancastre come se fossero precipitati dal cielo sulla terra. Più le nazioni come Siria, Somalia o Libia hanno i confini erosi dal massacro e più si strappano dal cuore guerrieri piene di sangue.
A Nord a Sud ad Ovest: dappertutto battaglie di queste guerre nuove che si autoalimentano. Dovunque ci si volti la guerra è in qualunque punto di questa vastità. Questa massa smisurata di poveri manovali delle battaglie che hanno costruito con le loro mani questa immensa guerra sono manovrati da quelli che, grandi o piccoli sensali del caos, vivono in guerra e sono in pace durante la guerra, che proclamano l’irriducibile antagonismo tra le tribù, o che abbindolano e addormentano, perché il massacro non si plachi, con la morfina dei loro futuri paradisi. Trasformano la ricchezza del paese, il petrolio, in famelica patologia. La guerra, qui, ha partoriti uomini nuovi, il loro rapporto con il conflitto permanente definisce la loro identità. Noi pensiamo e agiamo come se ci fosse un fine, un momento in cui le armi dovranno necessariamente tacere e tra le fazioni o «i governi», (che spesso costruiamo noi per dare volto ai nostri progetti) emergeranno nuovi equilibri. E allora, automaticamente, le trattative la diplomazia il mercanteggiamento politico la fragile concordia troveranno un assestamento. Questo ai tempi delle guerre antiche: quelle che leggendo lo stratega prussiano erano facili a capirsi come un film, di quelli che in qualunque momento entri in sala, dopo due o tre scene, conosci subito l’intreccio, chi ha ragione e chi ha torto. Ora nessuno tra i protagonisti ha interesse che la guerra in Libia finisca. Perché segnerebbe così la propria fine.
A Tripoli una milizia controlla il catasto, vende i titoli di proprietà di coloro che sono fuggiti o militano per altre fazioni. Come potrebbe desiderare la pace? Sono moderni capitani di ventura, spesso più imprenditori che strateghi, che la guerra nutre arricchisce e giustifica nella loro esistenza. Perfino la vittoria sarebbe una sciagura, li renderebbe inutili. L’equilibrio permanente della mischia è lo stato perfetto. I gruppi di banditi lo vogliono perché la pace segnerebbe la loro scomparsa, la fine dei sequestri e della gozzoviglia, i «partiti», fratelli musulmani, uomini di Tobruk, governo in esilio, perché nessuno di loro ha, contemporaneamente, la forza e la legittimità. Se ne ha una manca dell’altra. E allora la guerra garantisce di restare in scena. Gli uomini del califfato, loro sì, hanno un progetto politico che va oltre la guerra permanente e imporrebbe una pace cimiteriale, il paradiso in terra: ma la conclusione è remota nel tempo e per ora solo la confusione della guerra offre loro uno spazio e possibilità di azione. La guerra è una cosa semplice. Occorrono solo tre cose in fondo: armi uomini e denaro. Soprattutto denaro, che assicura le altre due. E in Libia non manca.
C’è il petrolio, risorsa senza fine. Farla finita con la guerra sarebbe come impedire le tempeste. Oscuri sciami di umanità si ritirano uno dopo l’altro in se stessi, riassorbiti dal loro male misterioso. Un amico libico indica con la mano l’intera larghezza dell’indescrivibile paesaggio del deserto e ripete la frase: questa è la guerra… ed è così dappertutto, tremila chilometri di tragedie eguali, dal confine egiziano a quello tunisino e giù giù fino in fondo al deserto…. domani si ricomincia e come si è ricominciato l’altro ieri e tutti i giorni precedenti… volete venire qui per salvarci ma sapete che per farlo dovrete uccidere la guerra nel ventre della Libia…?
 
Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


direttore@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT