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La Stampa Rassegna Stampa
10.06.2015 Fuga, abiura o morte: la tragedia dei cristiani sotto lo Stato Islamico
Analisi di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 10 giugno 2015
Pagina: 24
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Tra i martiri cristiani d'Iraq: partire o abiurare. O morire»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/06/2015, a pag. 24-25, con il titolo "Tra i martiri cristiani d'Iraq: partire o abiurare. O morire", l'analisi di Domenico Quirico.


Domenico Quirico


Cristiani iracheni: le loro vite sono in pericolo

Ho visto i «nazareni», gli occhi dei nazareni: a Erbil, e nei villaggi della montagna curda d’Iraq. Non sono più le loro terre, la pianura di Ninive, Mosul, Telkepe, Batnaya erano già ricordi, rovine, antiche e remote quanto le orme che l’apostolo Tommaso lasciò con i suoi sandali su queste terre già sfinite dal tempo. L’Iraq sipario di enigmi ha ingoiato nelle viscere millenarie anche un lembo di quel vangelo che è di tutti.

Erano i tempi in cui il tempo si stringeva, il feroce potere dei lupi e della morte in caccia era a ogni momento vicino. Eran seduti, un piccolo fagotto di stracci, come un punto interrogativo nero pronto ad andar via, pronto a restare, in bilico sul cemento sporco all’ingresso di un edificio abbandonato quando era ancora in costruzione. Il padre, con la sua barba grigia di tre giorni, aveva un aspetto dimesso e debole; qualcuno a cui si poteva ordinare di fare qualunque cosa. Erano migliaia come loro nella capitale curda, l’ondata dei superstiti dai luoghi occupati dalle milizie del califfo Abu Bakr, i relitti del naufragio che la risacca aveva lasciato sulla battigia. La fine di una storia millenaria abbandonata lì, come uno straccio tra le auto indifferenti che passavano.

Fu un segno all’inizio: le case erano state segnate con una N rossa, N come nazareni, cristiani. Partire o convertirsi. O morire. Ci sono altri nomi che martirio per definire coloro che hanno detto no e sono partiti, nudi? Il terrore era sempre alle loro spalle, erano consumati dallo sforzo di non voltarsi. Per poter guardare la loro paura le davano forme diverse: il coltello dei fanatici, la fame, l’esilio senza speranza o meta. La verità era tabù, la morte che si avvicinava da anni ogni giorno in quel luogo straniero. Un milione e più di cristiani in Iraq nel 2001. E poi… Tutti facevano i bagagli e partivano, gli altri restavano in cimiteri che nessuno visitava, in una grande tomba sopra la terra che presto sarebbe stata scoperchiata e divelta. Impuri… anche i morti.

L’uomo con la faccia incavata mi domandò se avevo piacere a vedere una fotografia della sua casa perduta. Tirò fuori da una tasca un’istantanea ingiallita e macchiata e me la porse. Due bambini ridevano sullo sfondo di una casa di contadini appena ingentilita da qualche fiore.

«Come era felice, allora...»
«Questo era l’anno scorso… Uno dei due è morto», e sorrise come se dicesse una cosa gentile e buona. «Oh, ma in un paese cristiano», aggiunse dolcemente. Anche se questo ormai non ha più molta importanza.
Gli porsi una bottiglia d’acqua che avevo con me: «Su, bevete… Ricordate come era, qui, prima… prima che venissero gli islamisti del califfato?».
«Sì, come non potrei? Come era felice, allora…».
«Davvero? Ne siete certo?».
«Avevamo almeno… Dio». Indicò con un gesto l’edificio in rovina, la strada sporca, la città curda: «Dimenticheremo tutto questo. Oh, non ci vorrà molto».
I bambini non si erano mossi, restavano nel brutale splendore del sole, guardando dentro con infinita pazienza, come se quell’ombra fosse la salvezza e il loro nuovo paese. Una ragazza più grande disse che la madre stava molto male, era moribonda. Gli occhi neri non esprimevano emozione. Era un fatto. Si nasceva, i genitori morivano, si invecchiava, si moriva noi stessi. «Pare che debba succedere sempre in questo modo». Il padre uscì dal silenzio: «Questo è quello che tutti ci dicono sempre da quando sono iniziate le persecuzioni: non potete farci nulla». Aggiunse con mostruosa amarezza: «Mi pare di sentirlo ripetere da un capo all’altro del mondo».

Si alzarono, lentamente. Lì non potevano restare, dovevano cercare per la notte un altro edificio vuoto. Il chiostro e il cortile della chiesa del quartiere cristiano di Erbil erano colmi di profughi come loro. Fecero in fretta. Non avevano molto da portare con sé. «Andiamo», disse l’uomo ai suoi. Si voltò verso di me e disse che era grato per l’acqua e per il riposo nell’ombra. Possedeva quel genere di dignità rimpicciolita a cui sono abituato in questi luoghi dove comanda la sofferenza. Dignità di persone che hanno paura di un lieve dolore, eppure resistono alle grandi ondate della oppressione con una certa fermezza. «Pregheremo per te».
Sotto il bagliore vivo del sole si mossero verso il centro della città; in fondo alla strada, in mezzo alla folla, divennero figure minute, desolate. Una radio annunciava da qualche parte le notizie del giorno: l’Isis avanzava verso la grande diga sul fiume, altri profughi, cristiani yazidi turcomanni sciiti, erano in movimento verso Nord. Lontano da quel paese oscuro e negletto.

Il monopolio del martirio
Fuggire mi pareva allora una debolezza: quello era per i cristiani il loro Paese; se fosse stato possibile avrebbero dovuto cingerlo con una muraglia di acciaio finché non avessero sradicato tutto quello che ricordava quella ennesima ventata di fanatismo. La vita dell’uomo in fondo era cominciata lì, diecimila anni fa.
Pensai ai pochi cristiani che erano rimasti a Mosul, uno lo avevo ascoltato al telefono parlare con un parente fuggiasco. Raccontava per metafore, come se avesse il nemico alla porta a origliare. La voce continuava sempre mite e risoluta a suo modo, inflessibilmente dolce. Gli domandarono se aveva abiurato per restare in vita: il telefonino restò a lungo silenzioso. Forse i cristiani non erano stati uccisi. Questa, pensai, era la miglior soluzione per il califfo: lasciare testimoni viventi della debolezza della loro fede. Questo dimostrava l’inganno che essi avevano praticato per tutti quegli anni. Perché se avessero creduto realmente all’esistenza del paradiso e dell’inferno non avrebbero dato importanza a un lieve dolore, ora, in cambio di chissà quale immensità… Il monopolio del martirio insomma lo volevano per loro, i musulmani: ecco, solo noi sappiamo morire per Dio, voi siete troppo infrolliti e deboli!

La vita ai minimi termini
Invece si ingannavano: il martirio era nel non resistere alla brutalità, nel lasciare all’assassino, al persecutore il monopolio della violenza. In questo senso gli uomini, le donne e i bambini che incontravo nelle vie di Erbil erano davvero i nuovi martiri cristiani. Anche se erano ancora vivi. Tutti i gruppi religiosi di quella terra avevano cercato di opporsi alla ferocia dei fanatici dell’islam totalitario, di esercitare la legittima difesa: sciiti, curdi, perfi no gli yazidi. I cristiani no: avevano allargato le braccia, levato gli occhi, si erano messi in cammino. Senza armi.
In fondo si poteva pensare con invidia a coloro che erano morti: tutto finiva così presto. Li portavano al lato di un fosso o contro un muro e li sgozzavano o li finivano con una raffi ca di mitra. In due minuti la vita era spenta. E lo chiamavano martirio. Ma gli altri? Per gli altri la vita aveva un’aria di inafferrabilità, era già stata ridotta ai minimi termini, c’era, ma in linee sottilissime. Qui la vita continuava sempre.

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