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La Stampa Rassegna Stampa
11.03.2015 La guerra del Califfo contro l'arte è una guerra alla storia
Commenti di Maurizio Molinari, Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 11 marzo 2015
Pagina: 28
Autore: Maurizio Molinari - Domenico Quirico
Titolo: «Ma a Mosul gli islamisti sono stati beffati - Quei saccheggi dell'Occidente ora sono una salvezza»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/03/2015, a pag. 28-29, con il titolo "Ma a Mosul gli islamisti sono stati beffati", il commento di Maurizio Molinari; con il titolo "Quei saccheggi dell'Occidente ora sono una salvezza", l'analisi di Domenico Quirico.

Ecco gli articoli:


La distruzione del museo di Mosul da parte dei terroristi del Califfato

Maurizio Molinari: "Ma a Mosul gli islamisti sono stati beffati"


Maurizio Molinari e il suo recente libro "Il Califfato del terrore"

A pochi giorni dallo scempio di antichità nel museo di Mosul, nel Nord dell’Iraq, sono alcuni archeologi arabi a ricostruire nel dettaglio ciò che sarebbe avvenuto da parte dei miliziani del Califfo Abu Bark al-Baghdadi. Anzitutto, dei 2200 oggetti contenuti nel museo circa 1700 erano stati trasferiti a Baghdad mesi fa e dunque sono scampati dalla razzia. Si tratta di collezioni antichissime di oggetti di piccole dimensioni, che ora sono nelle mani delle autorità irachene. Lo spostamento a Baghdad è stato una coincidenza del tutto casuale, dovuta al bisogno di restauri e ripuliture, e non è possibile sapere se i miliziani di Isis ne fossero a conoscenza.

Fra i circa 500 restanti oggetti d’arte rimasti nel museo, quelli di maggiore valore sono stati portati via da Isis in una mega-operazione di saccheggio con centinaia di uomini e dozzine di mezzi. Li avrebbero trasportati in un luogo segreto che probabilmente è diventato la base da dove gestire il traffico di oggetti d'antichità con la criminalità internazionale.

Gli archeologi iracheni tengono a far sapere, attraverso interviste a media arabi, che la priorità di Isis è stata dunque di «asportare in gran segreto» tutto quanto era possibile portare via, al fine di creare una sorta di «centrale operativa» da dove gestire i traffici illeciti con i grandi collezionisti di America e Unione Europea. Ciò che Isis non ha potuto rimuovere sono state le statue dei grandi idoli alati assiri, e queste sono state distrutte in loco davanti alle telecamere.
I miliziani si sono accaniti in particolare contro le esposizioni allestite nelle sale assira e hatrena mentre a non essere toccate sono state quella islamica e quella preistorica. Anche qui, i movimenti dei «distruttori d’arte» sembrano suggerire l’esistenza di un piano di lungo periodo: conservare quanto più possibile la memoria del passato islamico, ma liberarsi senza esitazione di tutto il resto. È una ricetta politico-culturale che si rispecchia nelle decisioni del Califfo adottate nei confronti dei libri di scuola, perché i miliziani di Isis responsabili dell’«educazione» tolgono da ogni libro di testo - inclusi quelli delle elementari - qualsiasi tipo di riferimento a Siria e Iraq, per dare forma a un «buon musulmano» la cui identità si origina solamente dalla sharia, la legge islamica, e dall’esempio della vita di Maometto.

Domenico Quirico: "Quei saccheggi dell'Occidente ora sono una salvezza"


Domenico Quirico


Il grande Califfato (Neri Pozza)

Di fronte all’avanzare del blasfemo piccone del miliziano islamista è arrivato, forse, il momento di smontare uno dei recenti rimorsi dell’Occidente, l’aver cioè saccheggiato le antiche civiltà per trasformarne testimonianze di pietra, di marmo, di sabbia in musei, i nostri musei. È vero: smontarono altari e templi, imballarono obelischi e statue come portavano via, nei ventri delle navi, oro e minerali.

Si giustificarono: gli eredi di quelle straordinarie civiltà sono gente miserabile coperta di stracci, dominata da pascià e emiri indolenti e osceni, indegna di custodire quei tesori, che risultano loro indifferenti, o al massimo lucroso bottino per ladri di tombe. Arroganza venata di razzismo, dunque.

Ma senza quei virtuosi saccheggi, quelli sì provvidenziali e salvifici, che rimarrebbe oggi di queste creazioni dell’uomo? L’avanzata del Califfato, la violenza iconoclasta di un totalitarismo religioso che nega la molteplicità delle Storie sarà il problema del mondo per i prossimi venti, trent’anni: una presenza cieca e ostacolante, un processo di retrocessione del mondo moderno a forme sacrali primitive, la regressione quasi a uno strato fossile. E lo sarà in luoghi - il Vicino Oriente, la Via della Seta, l’Africa mediterranea - che sono state la culla delle civiltà. Immaginate i bulldozer del Califfato avanzare, presto o tardi, dal Sinai all’Egitto, muovere all’assalto della sfinge, idolo insopportabile come i lamassu che invano dovevano proteggere le città sul Tigri; o smontare con il martello pneumatico i volti dei giganti di Abu Simbel, appena salvati da un nuovo diluvio, come i talebani fratelli nell’oscurantismo bigotto, hanno scalpellato altri giganti a Bamiyan.

Un nuovo Medioevo
Prepariamoci, allora, come per un nuovo Medioevo, a raccoglierci attorno a ciò che noi abbiamo messo al sicuro, a riunire i frammenti ancora sparsi o che riusciremo a sottrarre agli Assassini: degli uomini per loro presunta impurità, e del Passato anch’esso impuro perché Altro. Un nuovo Medioevo avanza in questa straziata e convulsa parte del mondo, che uscirà dalla nostra storia perché non più visibile e raccontabile, arriveranno solo gli echi di massacri e di devastazioni come da terre in preda a dei feroci e implacabili. I musei dell’Occidente saranno i chiostri di un nuovo, miracoloso archivio del Tempo, con l’amarezza di non aver salvato di più.

Il linguaggio delle rovine
A Ninive, Hatra, Nimrud gli uomini che le scoprirono attendevano di trovare nient’altro che l’arte e la morte. I semiti hanno lavorato nell’effimero, i loro edifici nati dalla polvere spesso ci sono tornati. Le civiltà si sono appiattite, abbassate le une sulle altre. A Ur le nove città sovrapposte abitate da tante generazioni occupano solo novanta centimetri di taglio verticale. Eppure gli archeologi alla fine dell’Ottocento (l’ultimo secolo che ha creduto nel progresso dell’uomo come destino e contemporaneamente ha amato il passato) non si rassegnarono.

La terra è gibbosa quasi fosse sollevata da onde fino all’orizzonte. Il cielo, infinitamente puro sotto il freddo della notte, ridiventa di un bianco smagliante nella calura del giorno. Non le avevano ancora completamente liberate dal suolo, le antiche capitali del mondo, e parlavano il grande linguaggio delle rovine. Avevano l’accento delle «pietre del diavolo» e delle montagne sacre: liberate dai badili, le vaste facce consunte di creature alate e di re rianimavano alla luce i luoghi in cui un tempo parlavano gli dei e scacciavano l’immensità informe della sabbia. Il sigillo di tutte le forme che hanno captato una parte di inafferrabile: il segno che il reale è apparenza e non si chiama ancora Dio, linguaggio dell’effimero e della verità dell’eterno e del sacro, quello vero, non quello feroce del dio islamista.

Ogni arte sacra si oppone in fondo alla morte, perché non è una decorazione della propria civiltà ma l’esprime secondo il suo valore supremo. Quei meravigliosi «ladri» occidentali hanno scoperchiato questo mondo sepolto di sabbia e di oblio: i soli realismi che durino, sì, sono quelli dell’oltremondo. Le rovine che univano i templi franati e i palazzi un tempo d’oro e di feroci glorie fuggenti si trasformarono a poco a poco in siti archeologici, in Siria, in Iraq. Non vedremo più le sfingi e i leoni alati affondati fino al collo nel deserto né quelle corrose a tal punto dal vento delle sabbie che la loro testa assomiglia al ceppo dei vecchi ulivi… Resterà solo il confuso labirinto aperto dai saccheggiatori islamici del pazzo Califfo. La loro via è fatta: briciole, scaglie, sabbia. Il destino non ha cessato di rimescolare con i suoi gesti da cieco il dominio degli antichi re di Assiria.

Dall’Assiria all’Isis
Eppure, strano paradosso, l’Assiria che i forsennati di Daesh cerca meticolosamente di distruggere, per certi versi loro assomiglia. È il Vicino Oriente «balcanizzato» dopo la bufera dei popoli del mare, una folla di piccoli Stati litigiosi che occupano abusivamente la scena della Storia e parlano a voce troppo alta. L’Assiria può essere tranquilla, aperta come è a tutti i venti, solo minacciando gli altri, terrorizzandoli a sua volta. Per esistere, non diversamente dal Califfato, è condannata a sterminare i vinti, a opprimerli, a deportare intere popolazioni, a condurre guerre senza pietà. I suoi sovrani amavano la ferocia delle decapitazioni di massa, come il Califfo invisibile. I rilievi dei palazzi di Ninive, di Nimrud e Khorsabad raccontavano in modo eloquente queste lugubri storie che, in fondo, assomigliano alla loro.
L’idea di estrarre dalla sabbia il passato per conservarlo e rileggerlo nei suoi oggetti è un’idea occidentale: come la democrazia e i diritti dell’individuo. Non può appartenere all’islam radicale dei nuovi califfi. Quello che li connette e li cementa infatti è la storia, non il sangue e nemmeno il colore, la vicenda storica intessuta da una speciale confessione religiosa che offre un forte status comune, più forte e sentito che in qualsiasi altra fede o religione. Dalla retrocessione nel passato remoto questo islam forma a sé stesso una faccia indelebile e che deve sempre più pietrificarsi. Perché accetti le altre Storie dovrebbe rinunciare a se stesso come islam, rinunciare alla indistinzione tra sacro e profano, Stato e religione.

Come l’essenziale tremendo di questo pensiero totalitario è di credere non a un solo dio ma a un solo dio dell’islam, così la tolleranza non può che essere data una volta per sempre, per sempre identica a sé stessa.

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