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La Stampa Rassegna Stampa
15.12.2014 Turchia: addio alla libertà, il regime di Erdogan continua ad arrestare i giornalisti
Commento di Gianni Riotta, cronaca di Marta Ottaviani

Testata: La Stampa
Data: 15 dicembre 2014
Pagina: 1
Autore: Gianni Riotta - Marta Ottaviani
Titolo: «Se la Turchia spegne le voci libere - Il pugno di Erdogan sui media: retata di reporter allo 'Zaman'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/12/2014, a pag. 1-11, con il titolo "Se la Turchia spegne le voci libere", il commento di Gianni Riotta; a pag. 11, con il titolo "Il pugno di Erdogan sui media: retata di reporter allo 'Zaman' ", la cronaca di Marta Ottaviani.


Il sultano "Erdogan il Magnifico" trascina la Turchia verso la Shari'a

Ecco gli articoli:

Gianni Riotta: "Se la Turchia spegne le voci libere"


Gianni Riotta                                        Recep Tayyip Erdogan

Sarebbe ingenuo rappresentare lo scontro – drammatico – in Turchia tra il governo islamista di Erdogan e la comunità «Cemaat» del predicatore Fethullah Gulen come battaglia tra Stato repressivo e un movimento liberale, pugno duro contro la libertà di stampa.
I 27 arresti di ieri, tra cui Ekrem Dumanli, popolare direttore del più diffuso quotidiano, «Zaman», legato a Gulen, sono l’ultima fase della guerra che da tempo oppone Erdogan alla potente organizzazione «Cemaat», con Gulen costretto all’esilio in Pennsylvania. Il governo accusa i gulenisti di essere «Stato nello Stato», di infiltrare polizia e servizi segreti, di gestire banche come la gigantesca Bank Asya, di raccomandare gli affiliati in ogni concorso o appalto, di preparare un colpo di stato. Gulen, già alleato di Erdogan contro la casta dei militari, controbatte che il governo ha rinunciato alla democrazia e si avvia a instaurare un regime autoritario, come in Russia e in Cina.

Anche Gulen – ricordano Twitter e social media in Turchia – ha favorito in passato la mano dura contro la stampa a lui avversaria come nei casi «Ergenekon» e «Sledgehammer» quando finirono arrestati cronisti anti «Cemaat», ma questo non assolve il presidente turco. Chiarito il contesto dunque, Erdogan merita le condanne ricevute dall’Unione Europea, dal Dipartimento di Stato Usa e le proteste internazionali, in America il Committee to Protect Journalists, in Italia il deputato Pd Michele Anzaldi, che legano la libertà di informazione all’ingresso nell’Ue, dove da anni la Turchia è in lista d’attesa. La retata segue infatti la repressione di Erdogan contro i blog, i social media, YouTube, ogni libera voce nel paese, e conferma un trend preoccupante nell’area, con l’Egitto della giunta di Al Sisi che arresta i giornalisti della rete televisiva Al Jazeera, condanna a morte gli oppositori, spia i circoli progressisti.
Erdogan sfrutta la debolezza della politica estera americana, storico alleato della Guerra Fredda, la prepotenza di Putin, la guerra civile in Siria e l’offensiva Isis in Iraq per consolidare potere centrale, e avviare la resa dei conti contro Gulen. Con il direttore Dumanli è stato arrestato, per esempio, Hidayet Karaca, che guida il Samanyolu Media Group, network televisivo gulenista, e perfino lo sceneggiatore di una soap opera, cui il governo imputa dialoghi «eversivi».
Europa e Stati Uniti hanno un interesse cruciale a che la Turchia non finisca nelle mani di un Erdogan dittatore. Oggi chi ha troppo a lungo, in Germania e Francia, ostacolato la strada turca verso l’Europa comprende quanto la strategia sia stata egoista e miope. Una Turchia antioccidentale è piattaforma per ogni avventura in Medio Oriente, e minaccia da sventare. Gli illusi della «Real politik», a Bruxelles, Washington, Berlino, Parigi e Roma scambiano spesso un pingue contratto sull’energia, un comizio contro gli emigranti alle elezioni, lo status quo, per «sicurezza», irridendo chi investe nella democrazia, nei diritti, nell’opinione pubblica libera che invece sono sola radice di stabilità e credibilità internazionale occidentale.
Non si tratta di sbattere la porta in faccia alla Turchia, regalando alla propaganda di Erdogan il sentimento patriottico della reazione autarchica turca contro «le potenze straniere». Si tratta di convincere, con fermezza e pazienza diplomatica, che la sola strada verso il futuro, l’Europa e il benessere economico si percorre ampliando, non strangolando, le libertà in Turchia. Con saggezza e coraggio.

Marta Ottaviani: "Il pugno di Erdogan sui media: retata di reporter allo 'Zaman' "


Marta Ottaviani

«Stanno arrivando poliziotti. Li vedo dalla mia finestra. Hanno anche gli idranti, come quelli che usavano a Gezi Parki. Adesso vediamo se ci buttano fuori a forza o vengono solo per quelli che vogliono arrestare. Siamo tutti qui, comunque». Ha la voce chiara e ferma Ahmet Cingir, giornalista del quotidiano «Zaman», che raggiunto al telefono, racconta come lui e gli altri dipendenti della testata abbiano vissuto il momento del blitz da parte della polizia turca.
«Anche se è domenica - spiega Cingir - siamo qui tutti e 1000 i dipendenti del giornale. I reporter, ma anche il personale amministrativo, i tecnici, gli addetti alle pulizie. Hanno voluto essere qui oggi, a farci coraggio, a dire no anche loro all’attentato alla libertà di espressione che stiamo subendo».

L’editore islamico ex amico
La sede del quotidiano «Zaman», fra i più letti in Turchia con quasi un milione di copie tirate, si trova a Yenibosna, quartiere nella parte europea di Istanbul. Fino a tre anni fa, l’editore di «Zaman», il filosofo islamico Fetullah Gulen e l’attuale presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, erano grandi amici, tanto che Gulen aveva finanziato anche numerose campagne elettorali dell’allora primo ministro e Zaman era considerato un quotidiano filogovernativo. Poi i rapporti hanno iniziato a incrinarsi, da quando Erdogan ha voluto ampliare sempre di più i suoi poteri.

Inchieste sulla corruzione
Lo scorso 17 dicembre, la guerra all’interno della destra islamica turca è divenuta ufficiale con lo scoppio della cosiddetta «Tangentopoli turca». Decine di persone vicine a Erdogan sono finite in manette. Ma l’inchiesta è stata insabbiata. Erdogan ha prima incolpato Gulen, accusato di controllare buona parte della polizia e della magistratura. E ieri, a quasi un anno dallo scoppio della «Tangentopoli turca» è iniziata ufficialmente la sua vendetta. Fra i 27 giornalisti finiti in manette, c’è anche il direttore di «Zaman», Ekrem Dumanli. Sono accusati di terrorismo e adesione a organizzazione criminale. Se i capi di accusa verranno confermati, rischiano l’ergastolo.
«Il direttore era qui da venerdì - spiega ancora Cingir -. Non ha lasciato la redazione un attimo. Ha continuato a fare coraggio e a sorridere a tutti i redattori fino all’ultimo. Lo sapeva che lo sarebbero venuto a prendere. Siamo uno dei quotidiani più letti e 32 colleghi sono stati accusati di essere terroristi. Come possiamo chiamare tutto questo?».

«Vengono a prenderci»
La polizia ha provato ad arrestare una prima volta Ekrem Dumanli ieri all’alba, ma si è trovata davanti 500 persone inferocite che urlavano «giù le mani dalla libertà di stampa». Lo hanno portato via nella tarda mattinata. Dumanli è uscito dalla redazione fra gli applausi, ringraziando i caporedattori che lo salutavano con le lacrime agli occhi. «È stato duro - spiega ancora Cingir -, ma ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti meglio così. Siamo perseguitati da un anno. Alcuni miei colleghi hanno avuto anche problemi con i bambini a scuola. Con questi arresti Erdogan ha calato definitivamente la maschera. Ora è chiaro a tutti cosa stia diventando la Turchia». E il Dipartimento di Stato Usa conferma le preoccupazioni: «La libertà di stampa è basilare nella democrazia. Non va violata».

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