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La Stampa Rassegna Stampa
21.09.2014 Pregano, sparano, pregano. Vi racconto le macchine di Allah
Il Califfato nei ricordi di prigionia di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 21 settembre 2014
Pagina: 8
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Pregano, sparano, pregano. Vi racconto le macchine di Allah»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/09/2014, a pag.8/9, con il titolo " Pregano, sparano, pregano. Vi racconto le macchine di Allah" il commento di Domenico Quirico.


Domenico Quirico       dopo la sua liberazione

I miei primi jihadisti li incontrai a Saif al-Daula, il quartiere terribile di Aleppo intorno al quale si raccontavano, sottovoce, tante fosche storie, tanti segreti raccapriccianti. L'aria tremava per il sordo rumore delle artiglierie. Erano una quindicina, di statura un po' sopra la media, magri, dalle membra agili e vigorose. Sembravano, sulle prime, molto giovani; ma era un inganno del viso. Fra i 25 e i 30 anni, direi. Erano vestiti di una uniforme semplice: il barracano nero lungo fino ai piedi, sulla testa il turbante o la fascia con la scritta «non c'è altro dio che dio». Ai piedi qualche scarpone militare, i più sandali e ciabatte ormai sformate. Attorno agli occhi diffusa per tutta la tempia una ragnatela di piccole rughe, vive e sensibili, che palpitavano come la nervatura nelle ali delle libellule. Stavano seduti lungo un muro appoggiati alla macchia d'olio del sole al tramonto: indifferenti, sembrava, e al tempo stesso attentissimi. Un sospetto si nascondeva sotto quella fredda e liscia indifferenza. La macchia del sole nel muro si restringeva sempre più, divenne alla fine una piccola macchia lucida nel viso di uno di loro. La maschera intensamente illuminata dall'ultimo fuoco del sole morente era fissa, immota, ferma la bocca stretta, ferma la fronte liscia, ferme le occhiaie senza ombra: soltanto quelle due ragnatele di rughe intorno agli occhi vibravano sottili e delicate. «E il comandante Khatab, di Liwa al-Towhead», mi sussurrò il miliziano della Armata siriana libera che mi accompagnava. E c'era nella sua voce una incrinatura strana, non capivo se di ammirazione o di paura. E poi svelto, voltandosi come per un gesto vergognoso, gettò via la sigaretta che stava fumando. Eccoli, dunque, i guerrieri di cui tanto si mormorava in occidente: Liwa al-Towhead, una parola oscura, una parola terribile, eppure una bella parola. C'è dentro come un coltello che taglia piano piano... Liwa al-Towhead... Dicevano che avevano linciato cinque uomini della famiglia al Barry, un clan legato a Bashar al-Assad che dominava il quartiere dallo stesso nome. Parvero destarsi solo quando anche il cielo sembrò crollare frantumato dalle esplosioni. Fuochi gialli e bianchi pendevano nell'aria incerta e si spegnevano come cadessero nell'acqua. Era il dodicesimo giorno di battaglia. All'inizio i ragazzi della Armata siriana libera avevano resistito; poi i soldati governativi erano sbucati di sorpresa a 50 metri dalla linea dei ribelli, senza preparazione di artiglieria, ed erano passati. Fu allora che avevano chiamato quelli di al Qaeda. Erano tutti, mi aveva spiegato il ragazzo, «fedayn stranieri» senza precisare di più. «Non so spiegarmi, anch'io ho voglia di battermi, non ho paura, da due anni sfido la morte ogni giorno, tutti dicono che sono un buon combattente... eppure loro sono diversi. È come se avessero un fuoco dentro, sono macchine, sparano pregano sparano, sembrano immortali anche se non lo sono.

Fanno tutto con calma come se fosse da sempre la loro vita. Anche i soldati di Bashar lo sanno... E hanno paura». Arrivarono di corsa dei ragazzi dell'armata libera, trascinavano un compagno su un telo da tenda, penzolava fuori col busto, aveva il viso mezzo bruciato, l'altra metà gonfia e paonazza, i denti erano bianchissimi come calce bianca. Non c'era alcuna possibilità di fasciarlo, e del resto, forse, sarebbe stato inutile. I jihadisti non mossero muscolo, guardarono il moribondo e i suoi soccorritori come fossero oggetti, calcinacci, cose. Khatab si sollevò come se l'arrivo di quella gente cominciasse a infastidirlo. A voce piana disse agli altri: yalla... alzatevi. Non era un ordine, semmai un invito. Raccolsero le armi, senza fretta. Si udiva adesso distinto un lento boato che si perdeva nelle spelonche delle rovine come un gemito profondo. Era il cannone. Ci avvicinammo, sentivo come un senso di paura nuovo, non legato alla battaglia, come deve avvertire chi avanza verso una bestia pericolosa. Il mio miliziano e il comandante parlarono piano, capii che spiegava chi ero. Gli altri jihadisti si erano allontanati di qualche metro come se temessero un contagio: «Cristiano, che fai qui? Vai via, qui si muore per il vero dio... noi siamo votati al martirio, che ne vuoi sapere tu?». Si voltò come se semplicemente non esistessi, e cominciò a camminare tra le macerie, il fucile tenuto in mano con negligenza, i suoi uomini si incolonnarono a segnare una riga nera serpeggiante tra il cemento devastato. «Molti di loro stasera non torneranno... la loro missione è un suicidio». E ancora lo disse con quel misto di riverenza e di stupita ammirazione che molte volte in Siria ho incontrato tra i ribelli laici. La rivoluzione islamica si apriva in quei giovani silenziosamente, come un fiore di ferro. L'avevano tra i denti, la masticavano, noi siamo l'islam guerriero che vince e avanza, con una fisicità impressionante. Questo vento terribile che si leva. II Califfato di Mosul era solo un annuncio, una promessa, allora. Cosi avvengono i grandi rivolgimenti umani semplici e tremendi. Un anno dopo ad al Quesser, ma questa volta sono loro prigioniero, vivo con loro per mesi. Prigioniero di Jabhat al-Nusra, un'altra sigla islamista. È lì che ho incontrato, tra gli altri, Kara, libanese, abbigliato come un giovane Bin Laden, il viso affilato, la barbetta assira. Arrivava alla mia prigione in moto, insieme a un miliziano corpulento, barba e capelli rossi, «l'afghano»: «Lo vedi come sono vestito, cane cristiano? Io ho ammazzato i soldati di Bush in Afghanistan». II fratello, mi avevano spiegato con tono riverente, ha fatto saltare in aria il quartier generale dei servizi segreti ad Homs, e soffiavano per farmi capire sul palmo della mano: un martire, un martire... Parlava, Kara, in modo chiaro e distinto, senza gettare le parole a manciate come uno scialacquatore, no, le distribuiva con cura come un buon padrone di casa le pietanze. Era convinto di aver dinanzi non uomini ma mattoni, da cuocere in un crogiolo di dolore per le nuove costruzioni, e lanciava entusiasta parole terribili: eliminare, ripulire, uno ad uno...il califfato costruiremo, il califfato... uno, dieci, cento anni che importa? È il tempo di dio!». Guardava, sorrideva e gli occhi appena socchiusi si spalancavano in una così infantile ebbrezza che restavi sorpreso. Pregava vicino a me, compunto, e poi tirava fuori il coltello, la lama ricurva, un arnese contadino, che teneva nella tasca del barracano e mi diceva: «Questa è per te cristiano». Uomini così una volta vivevano negli eremi: pregavano, fasciavano le ferite, donavano acqua e cibo ai viandanti. Fuori del mondo erano col mondo. Avevano letto il Libro, ma in cuore custodivano un amore candido, un tenero distacco dalle cose del mondo. Oggi in Siria, in Iraq, in molti luoghi uccidono. Era crudele Kara. Voleva che lo chiamassi «sidi», in arabo è più che signore, è la parola che il servo rivolge al padrone. Ho capito più tardi. Nelle carceri di Bashar è così che i prigionieri si rivolgono ai guardiani. È stato un oppositore che le ha attraversate che mi ha raccontato questa abitudine, ed altre cose: le torture e le punizioni, per esempio. Anche alcune di quelle le conoscevo, su di me: ecco dove le avevano imparate i miei carcerieri jihadisti. Ci sono oggi migliaia e migliaia di giovani al servizio del califfo come Kara, mossi da una buia ferocia primigenia, qualcosa di amorfo, pura irrazionalità di sentimenti elementari e ferini, da cui sono banditi la pietà, l'amore, l'onore di essere uomini tra altri uomini. È così totale il loro orgoglio di puri, di eletti, che preferiscono una morte universale a una rinuncia in cui noi vedremmo un segno di misericordia, un riconoscimento della propria umana miserabilità, l'affidarsi al provvido dio dei vinti che è l'unico che esiste e si può davvero amare. In una follia di cupe disumane coerenze ed obbedienze vanno combattendo verso la loro notte, il califfato, con una specie di inerzia suicida delle facoltà raziocinanti, foscamente orgogliosi nella inesorabilità della propria volontà di distruzione. Abu Omar era, anche lui, un emiro jihadista, un altro dei miei carcerieri. Guidava la sua brigata nella ritirata generale da al Quesser, braccati da soldati e dagli hezbollah. Una  umanità migrava dalla città maledetta, ormai frantumata pezzo a pezzo dalle bombe con una grandiosità da cataclisma cinese. File di veicoli cigolavano sui sentieri pietrosi; ma quelli erano per i combattenti. Li avvolgeva la fuga miserabile e brulicante di migliaia e migliaia di vecchi, donne, bambini. La gente non si distingueva più dalle cose. Si tiravano dietro, in quelle prime ore, ancora tutta la casa vuotata a furia, tutta la miseria che vuole vivere nascosta nel segreto di quattro mura. La città assassinata ha rigurgitato queste cose, questi visi, questi fiati. Tra i veicoli carichi di armi sciamavano i fuggenti carichi di fagotti, arrancavano tra strilli di bimbi, voci di vecchi, anche loro artigliati alle loro povere cose. In un bosco quieto, a lato della pista, l'emiro riunl i suoi uomini. I fuggiaschi sfilavano senza fermarsi avvolti di polvere, ciabattando. Dalle file vennero estratti due prigionieri, dalle divise capii che erano hezbollah libanesi, per i jihadisti sunniti uomini di Satana. L'emiro avanzò con un coltello e tagliò loro la gola. Poi i guerrieri si riunirono in file ordinate, Abu Omar piantò il suo mitra per terra e cominciò a pregare: «Tu che sei onnipotente, per il Tuo nome venerabile, concedici il martirio, portami nel tuo paradiso dove si trovano il Profeta e i veri credenti».

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