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La Stampa Rassegna Stampa
11.09.2014 Dopo le parole, servono i fatti: gli Stati Uniti devono assumere un ruolo da protagonisti nell'offensiva contro l'Isis
Analisi di Gianni Riotta

Testata: La Stampa
Data: 11 settembre 2014
Pagina: 1
Autore: Gianni Riotta
Titolo: «Anche per Obama un 11/9 di guerra»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/09/2014, a pag. 1, con il titolo "Anche per Obama un 11/9 di guerra", l'analisi di Gianni Riotta.


Gianni Riotta


Barack Obama

Il 9/11 Memorial, Museo dedicato downtown Manhattan alle vittime della strage dell’11 settembre 2001, è ogni giorno popolato da turisti commossi, bambini delle scuole non ancora nati il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle.
Ma la guerra al terrorismo, dichiarata dal presidente George W Bush 13 anni or sono, non è roba da museo, purtroppo. Il presidente Barack Obama, eletto per voltare pagina, deciso a ritirare le truppe da Afghanistan e Iraq per occuparsi di Pacifico, Cina, crescita economica, ha pronunciato un discorso strategico – nella tarda notte italiana - che deve esser stato per lui amarissimo scandire e che chiude per sempre l’illusione che la I Guerra Globale sia una parentesi violenta ma effimera.
Obama ha dovuto abbandonare la politica scelta dopo la rielezione 2012, quando si oppose ad armare i ribelli moderati in Siria che combattono contro il regime alawita di Assad e più tardi quando - incautamente - minimizzò la minaccia dell’Isis in Iraq, paragonandola a una squadra da basket di dilettanti. Il Presidente deve ora impedire che i pochi, e malmessi, guerriglieri filoccidentali rimasti in Siria vengano sterminati e, al tempo stesso, bloccare l’avanzata fondamentalista di Isis in Iraq. Conquistando le dighe strategiche, impossessandosi di nuovi campi petroliferi e assediando i curdi nella zona autonoma al Nord del Paese, la minaccia del Califfato da efficace propaganda sul web diventerebbe concreto pericolo in Medio Oriente.
Certo con personale senso di sconfitta, il Presidente torna a mobilitare l’opinione pubblica americana per una «guerra speciale», che non sarà l’avanzata con carri armati di Bush padre in Kuwait 1991, i raid aerei di Clinton, né la guerra costata 1000 miliardi di dollari di Bush figlio in Iraq 2003, e neppure la trionfale cavalcata contro i talebani in Afghanistan 2001. Il nuovo piano di battaglia di Obama è stato delineato dalla consigliera Lisa Monaco a quel che resta degli alleati in Medio Oriente, Giordania e Arabia Saudita: non solo offensiva militare, ma anche diplomazia, supporto economico, intervento delle Nazioni Unite, blocco dei passaporti ai presunti terroristi in Europa, taglio dei finanziamenti arabi, condanna ferma dalle autorità religiose islamiche, insomma manovra complessa per isolare, impoverire e colpire militarmente le milizie Isis.
A Cernobbio domenica, al Forum Ambrosetti, il senatore repubblicano John McCain, battuto da Obama nel 2008 come candidato repubblicano, era amareggiato da certi interventi europei: «Danno tutte le colpe agli americani, non parlano altro che di status quo, da Putin in Ucraina all’Isis in Iraq, ma siamo tutti nel mirino! E attenti, perché l’opinione pubblica americana era sì stanca di guerra, ma dopo le decapitazioni feroci online di Isis ha capito che, sia pur a malincuore, deve tornare a prendere l’iniziativa nel mondo».
McCain coglie bene l’umore nazionale, ma il Congresso, dove i repubblicani detestano il Presidente e i democratici sono spesso delusi, non vuol dare carta bianca nell’attacco in Iraq senza un dibattito e un’autorizzazione formale. Riuscirà il Presidente, a poche settimane dal voto di Midterm e a due anni dalla fine del secondo mandato, a unire il Paese, il Congresso e delineare la strategia efficace contro il terrorismo? La Storia parla di Jimmy Carter che, partito da pacifista convinto, conclude il mandato intervenendo in Afghanistan contro l’Armata Rossa e in Iran in un disastroso blitz per liberare gli ostaggi catturati a Teheran, e non è certo esempio brillante. Ma la Storia ha anche un passo lunghissimo, se è vero che ucraini, russi e polacchi combattono dai tempi dei cosacchi di Taras Bu’lba, gli scozzesi vogliono lasciare il Regno Unito dopo tre secoli e sunniti e sciiti combattono l’ancestrale guerra civile dei successori del Profeta. Gli scolaretti che sfilano compunti davanti alle vetrine e ai monitor del Museo dell’11 settembre credono dunque di star studiando il passato. Non sanno, e lo si scrive con il cuore pesante, di avere davanti il loro presente e futuro, perché la Guerra Globale non darà tregue. Un sondaggio pubblicato ieri - poco prima che Obama parlasse, conferma che il 93% dei cinesi ha un’opinione negativa del Giappone e il 53%, folla sterminata di esseri umani, ritiene inevitabile la guerra contro il Sol Levante. Per tornare all’ordine serve che l’America guidi il pianeta, forte ma realista con la Cina, scrive nel suo ultimo saggio «World Order» lo statista Henry Kissinger. Giusto, ma chi guida l’America Paese leader? Obama ha pochissimo tempo per dare la sua risposta.

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