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La Stampa Rassegna Stampa
09.09.2014 Il grande scrittore fa un bilancio della guerra di Gaza
Analisi di Abraham B. Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 09 settembre 2014
Pagina: 1
Autore: Abraham Yehoshua
Titolo: «Israele aiuti Gaza e se stessa»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/09/2014, a pag. 1, con il titolo "Israele aiuti Gaza e se stessa", l'analisi di Abraham B. Yehoshua. L'articolo è interessante, anche se può essere fuorviante per il lettore italiano, dal momento che sembra discutere di Hamas e Israele come di interlocutori pari grado. Al contrario, Israele è uno Stato di diritto pienamente democratico, mentre Hamas è una organizzazione teocratica e terroristica che ha come scopo l'annientamento di Israele e dei suoi abitanti. Nel caso del conflitto di quest'estate, inoltre, è stato Hamas (come d'altronde in ogni altra circostanza) ad attaccare lo Stato di Israele, e non viceversa. Eccessiva equidistanza o pretesa verso Israele, che, sola, debba risolvere le guerre provocate da altri, non aiuta il lettote italiano a capire.


Abraham B. Yehoshua

Ecco l'articolo:

Dopo lunghi giorni di duri scontri fra Israele e Hamas è arrivato il cessate il fuoco ed entrambe le parti si domandano (al di là delle vittorie e delle sconfitte, reali o immaginarie) se la guerra appena conclusa sia stata l’ennesimo, inutile conflitto nella serie di quelli avvenuti in Medio Oriente, o se possa essere una base per un nuovo e migliorato assetto politico.
È possibile dare una risposta convincente a questa domanda nel caos turbinoso in cui si trova la regione? La morte e la distruzione causate da questa guerra ai residenti della Striscia di Gaza e, in misura minore agli abitanti di Israele, mi costringono a respingere il fatalismo di chi già predice un prossimo round di violenza e a provare a infondere, o forse a «creare», una possibile speranza.
Una speranza semplice e senza pretese. Non mi aspetto, infatti, un accordo di pace tra Hamas e Israele. Piuttosto una convivenza tollerabile e soprattutto non violenta. Questa mia speranza si basa sul fatto che in questa guerra Israele, malgrado la sua grande supremazia militare, non ha ottenuto una vittoria inequivocabile. E nonostante i suoi leader, e in primo luogo il premier Netanyahu, cantino vittoria, sondaggi affidabili indicano che la maggioranza dei cittadini non sembra trovarsi d’accordo con le loro arroganti dichiarazioni.
Molti esprimono delusione per un’operazione non portata a termine, o per una promessa non mantenuta. Ed è proprio questo senso di frustrazione a infondere speranza. In base all’esperienza passata ho infatti l’impressione che le guerre che si concludono senza una netta vittoria possano rappresentare un presupposto per un nuovo ordine di cose, non violento.
A Gaza hanno festeggiato la vittoria, è vero, ma queste celebrazioni, avvenute in un regime totalitario dove i cittadini non sono autorizzati a esprimere il loro vero parere e con un bilancio di migliaia di morti, di decine di migliaia di feriti, di centinaia di migliaia di sfollati e di case e infrastrutture distrutte, sono completamente assurde. Occorre inoltre considerare la posizione estremamente dura dell’Egitto verso Hamas, che ha costretto quest’ultimo ad accettare il cessate il fuoco senza che nessuna delle richieste per le quali aveva aperto il fuoco contro Israele sia stata soddisfatta. E la freddezza mostrata dai palestinesi di Israele e di Cisgiordania per la devastazione e i morti nella Striscia di Gaza rivela che lo spirito di solidarietà che Hamas si aspettava da loro non si è risvegliato. Per quei palestinesi, infatti, Hamas ha fomentato inutilmente il fuoco e trascinato la popolazione di Gaza in uno scontro duro e pericoloso senza un chiaro scopo.
Ciononostante i miliziani di Hamas possono dire di aver combattuto con coraggio e, sebbene la maggior parte dei loro razzi siano stati intercettati dagli israeliani e non abbiano causato ingenti danni materiali, hanno comunque terrorizzato e sconvolto la popolazione e, in molti casi, paralizzato la vita di Israele. E questo potrebbe essere un motivo di orgoglio per una organizzazione piccola come Hamas.
La cosa principale, però, è che Israele non solo non ha osato penetrare in profondità nella Striscia per conquistarla, ma ha anche stranamente dichiarato che non era sua intenzione rimuovere il regime di Hamas bensì solo indebolirlo, affinché bande armate senza una chiara identità o forze anarchiche incontrollate, analoghe a quelle che si aggirano oggi in Iraq e in Siria, non ne prendessero il posto.


Uno delle decine di camion carichi di rifornimenti che ogni giorno, anche durante l'offensiva israeliana, sono entrati a Gaza da Israele

Se a tutto questo aggiungiamo che durante l’intero periodo degli scontri, mentre aerei e artiglieria israeliani martellavano Gaza e Hamas, da parte sua, non cessava di lanciare razzi sui centri abitati israeliani, giganteschi camion carichi di rifornimenti, di cibo e di beni di prima necessità entravano quotidianamente nella Striscia da Israele, non possiamo non constatare l’esistenza di un vincolo particolare dello Stato ebraico con i residenti di Gaza e di un suo chiaro senso di responsabilità nei loro confronti. Non riesco infatti a ricordare nessuna guerra in cui una delle parti, pur combattendo contro un nemico che non cessa di bombardarlo, continui a rifornirlo di viveri e di medicinali.
Ed è proprio su questa assurda situazione che si basa la mia speranza per il futuro. Se infatti i contatti tra Israele e Gaza, malgrado la retorica dell’odio reciproco, non si sono interrotti nemmeno durante gli scontri a fuoco, il particolare senso di responsabilità di Israele potrebbe essere incanalato ora in direzioni positive, in primo luogo verso un’interruzione dell’isolamento della Striscia e un ripristino dei contatti fra i suoi abitanti e i palestinesi di Cisgiordania sotto il controllo dell’Anp. Questo ripristino dovrebbe avvenire in maniera graduale, parallelamente alla progressiva smilitarizzazione della Striscia. L’isolamento degli abitanti di Gaza dai loro fratelli in Cisgiordania, dallo Stato di Israele (che in passato dava loro lavoro) e dall’Egitto (che ha voltato loro le spalle dopo l’ingerenza di Hamas negli affari interni del Paese durante il governo dei Fratelli Musulmani), è infatti alla base della loro furia suicida e delle tendenze violente che ormai hanno perso ogni freno. Ma dopo quest’ultima guerra i dirigenti di Hamas possono aspirare a stabilire un nuovo ordine di cose non da una posizione di resa e di sconfitta bensì da una di chi ha dato prova del proprio valore. E Israele ha capito che, nonostante la sua forza, non potrà sopportare un’altra estate dura e violenta come quella appena trascorsa. Soprattutto ora che l’Egitto e il governo di Abu Mazen hanno dimostrato di potergli garantire una mediazione equa per il raggiungimento di una pace a lungo termine.
Una società occidentale, democratica e con un così alto livello di sviluppo economico come quella israeliana non può permettersi, a intervalli di pochi anni, di azzuffarsi con una collettività primitiva, isolata, povera e fanatica. Dovrebbe piuttosto cercare di aiutare quella collettività a risollevarsi, a ricostruire, e, come prima cosa, a uscire dall’isolamento.

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